Il Vespucci è uscito dal Mar dei Caraibi e sta navigando in Oceano Atlantico a Nord delle coste del Venezuela e della Guyana.
Queste acque furono solcate da Amerigo Vespucci durante il suo secondo viaggio nel 1499. Costeggiando l’attuale Guyana e il Brasile, il navigatore fiorentino giunse per primo all’estuario del Rio delle Amazzoni all’incirca a 6° Sud di latitudine. Intuì la presenza di questo grandissimo fiume perchè rimase estremamente colpito dal colore diverso delle acque e dalla loro bassissima salinità che si sentiva anche molte miglia a largo. A bordo delle navi esistevano dei veri e propri “assaggiatori” di acqua di mare in grado di distinguere anche la pur minima variazione di salinità della superficie del mare che poteva essere l’indizio della presenza della foce di un fiume, quindi di acqua dolce come provvista essenziale per il bordo. Erano dei veri antesignani dei sommelier di acque minerali tanto di moda ai nostri giorni!
Cieli sereni PG
Un’ora in meno…
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17 settembre:navigazione di Nave Vespucci verso Port of Spain (Trinidad e Tobago)
A bordo di Nave Vespucci, per la prima volta, dopo la partenza da Genova per il Giro del Mondo, tutti gli orologi vengono spostati un’ora avanti anzichè indietro. Questo si è reso necessario perchè la rotta del Vespucci in questa tratta è diretta verso Est, quindi verso un Paese con l’ora standard più avanzata.
L’ORA “NON VISSUTA” A bordo avverrà quello che succede ogni anno nell’ultima domenica di marzo, quando si passa dall’ora solare all’ora estiva e le lancette degli orologi sono portate avanti di 1 ora. Il cambio dell’ora viene annunciato all’equipaggio con messaggio interfonico: un brevo conteggio alla rovescia di pochi secondi con “stop orario”. Ne trarrà un vantaggio il personale che si troverà di guardia in quel momento che svolgerà il proprio turno per un’ora di meno (3 anzichè 4!).
Cieli sereni PG
15 settembre 1494 – L’Hurakan di Cristoforo Colombo
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ACCADDE OGGI…
Il 15 settembre 1494, circa due anni dopo la scoperta del nuovo continente, Cristoforo Colombo si imbatte per la prima volta in un uragano.
HURAKAN !!! Cristoforo Colombo si trovava nelle vicinanze dell’isola Catalina, da lui così chiamata in onore della figlia dei Re Cattolici, e dell’isola Saona. Grazie al suo intuito e talento di navigatore, l’ammiraglio si rese conto di uno strano comportamento degli animali marini e avvertì anche dei cambiamenti nell’atmosfera. In quel momento gli indiani Tainos, che portava con sé come interpreti sul ponte di comando, improvvisamente si inginocchiarono davanti a lui spaventati, urlando : “hurakan, hurakan” e lo indirizzarono velocemente verso il canale che separa l’isola Saona dalla terraferma, per ripararvisi.
Era la prima volta che un europeo sperimentava sulla propria pelle il significato terribile di quella parola di origine taina. Hurakan era il nome di una divinità: il “Signore dei venti” e i tainos pronunciavano questa parola con timore e riverenza per la sua ira.
Al mattino del 16 settembre, le forti raffiche di vento, la pioggia battente e la furia del mare si riversarono sulle navi e il maltempo durò diversi giorni. Colombo si salvò miracolosamente, ma questa esperienza, mai vista prima nella sua vita di marinaio, rimase profondamente impressa nella sua mente. Da quel giorno pronunciò anche lui la parola Hurakan con lo stesso rispetto con cui lo facevano i Tainos.
Otto anni dopo, il 29 giugno 1502, nel suo quarto e ultimo viaggio, arrivò nella città di Santo Domingo al comando di una flotta di quattro navi. Colombo avvertì il governatore Nicolas de Ovando che si stava avvicinando un grande uragano e chiese permesso per ripararsi nel porto di Santo Domingo prima di continuare la sua rotta. Ovando gli negò questo permesso perché nella città si trovavano i grandi nemici dell’Ammiraglio, l’ex governatore Francisco Bobadilla, che lo aveva fatto arrestare, e Francesco Roldan che aveva capeggiato la rivolta contro di lui. Costoro erano in procinto di imbarcarsi alla guida di una grande flotta di 32 navi diretta verso la Spagna. Colombo avvertì comunque Nicolas de Ovando di non lasciare partire la flotta perché sarebbe stata sorpresa dall’uragano in arrivo, ma i suoi nemici si beffarono di questo suo avvertimento e la grande flotta mollò gli ormeggi con le stive delle navi piene zeppe di oro. Colombo invece condusse velocemente le sue navi verso Ovest per rifugiarsi nella baia di Puerto Hermoso presso Azua, mentre la grande flotta partì verso Est alla volta della Spagna e si imbatté nell’uragano che la distrusse completamente. Nei giorni seguenti fu rasa al suolo anche la città di Santo Domingo. In tutto si contarono 500 morti oltre alla perdita delle navi, dell’oro e di molti importanti documenti storici. L’Ammiraglio invece riuscì a partire dalla baia dove si era rifugiato, con le sue quattro navi intatte, continuando il suo viaggio verso le coste del Centro America e navigando, da quel giorno, riverente nelle rotte dove signoreggia Hurakan, il Signore dei Venti. (da Comitaliasantodomingo )
Cieli sereni PG
THE PALE BLUE DOT – LA TERRA A 6 MILIARDI DI CHILOMETRI
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Questa immagine si riferisce alla prima foto della Terra scattata dai confini del sistema solare dalla sonda Voyager. Era il 14 febbraio 1990 quando il Voyager 1, a sei miliardi di chilometri di distanza (!), prima di continuare il suo cammino nell’abisso del cosmo, “si girò” e scattò questa foto: il soggetto era la Terra. L’idea di girare la fotocamera della sonda e scattare una foto della Terra fu dell’astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan.
L’immagine è conosciuta come THE PALE BLUE DOT (il “pallido puntino blu”), nome che fu usato da Sagan per il suo libro del 1994 Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space
Si seguito un ‘copia e incolla’ dal web delle riflessioni di Sagan.
Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole.
Cieli sereni PG
Vespucci e Gloria
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Continua la navigazione di Nave Vespucci verso Cartagena de Indias, la base della nave scuola della Marina colombiana GLORIA.
Confrontando le due unità (in foto), esse presentano le seguenti sostanziali differenze:
GLORIA Dislocamento 1300 t Lunghezza 76 metri Equipaggio 80 c.
VESPUCCI Dislocamento 4300 t Lunghezza 101 metri Equipaggio 250 c.
Pur avendo entrambe 3 alberi, le forme delle vele delle due unità sono diverse: si tratta, in un caso, di un Brigantino a Palo e nell’ altro di una Nave.
Il Brigantino a Palo Gloria ha tre alberi: due armati con pennoni e vele quadre e un terzo albero, a poppa, armato con vela aurica.
Il Vespucci è invece definito, secondo nomenclatura, Nave perchè armato con tre alberi, tutti con pennoni a vele quadre.
CURIOSITÀ La nave colombiana è una delle quattro unità simili costruite nei cantieri Astilleros Celaya S.A di Bilbao, in Spagna. Le sue ‘sorelle’, anch’esse impiegate come navi-scuola, sono la messicana Cuauhtémoc🇲🇽, la venezuelana Simón Bolívar🇻🇪 e la ecuadoriana BAE Guayas🇪🇨.
Chissà se il Vespucci e il Gloria riusciranno ad incrociare le loro rotte in acque caraibiche. La nave scuola colombiana si trova adesso in navigazione di ritorno dalla campagna addestrativa negli Stati Uniti. Arriverà a Cuba, dove resterà dall’8 all’11 settembre. Effettivamente un po’ lontano dalla rotta del Vespucci che il giorno 10 sarà già in navigazione verso il Brasile. Peccato….sarà per una prossima volta! Buon vento!
Cieli sereni PG
Le Isole ABC: Aruba, Bonaire e Curaçao
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Navigazione nel Mar dei Caraibi
LE ISOLE ABC Con questo acronimo si intendono le tre isole situate nella parte meridionale del Mar dei Caraibi, al largo della costa nord-occidentale del Venezuela. “ABC” sono le iniziali delle isole principali del gruppo: si tratta di Aruba (A) 🇦🇼, Bonaire (B) e Curaçao (C) 🇨🇼. Tutte e tre fanno parte del Regno dei Paesi Bassi 🇳🇱 sotto il nome ufficiale di Dutch Caribbean (Caraibi Olandesi), mentre un tempo si chiamavano Antille Olandesi.
Aruba e Curaçao sono nazioni costitutive del Regno, mentre Bonaire è una municipalità speciale dei Paesi Bassi.
CURIOSITÀ Aruba, Bonaire e Curacao, si trovano tranquillamente lontane dalla cintura degli uragani nei Caraibi e pertanto sempre molto visitate!
Cieli sereni PG
VOYAGER 1 – 5 settembre 1977
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Il 5 settembre 1977 viene messa in orbita la sonda VOYAGER 1: obiettivo principale della missione è il sorvolo dei due pianeti giganti Giove e Saturno, per studiarne i campi magnetici, gli anelli e fotografarne i satelliti. Dopo il sorvolo di Saturno, nel 1980, la missione è stata estesa ai limiti del sistema solare.
Ad oggi 5 settembre 2023, la sonda continua a trasmettere dati alle stazioni a terra da esattamente 46 anni (!) mentre sta viaggiando all’esterno del sistema solare a oltre 24 miliardi e 48 milioni di km dal Sole (160 volte la distanza Terra-Sole) risultando l’oggetto artificiale più lontano dalla Terra ed è previsto che continuerà a operare fino al 2025.
CURIOSITÀ La Voyager porta con se il Golden Record (nella foto) un disco registrato, placcato in oro, contenente immagini e suoni della Terra. I contenuti della registrazione furono selezionati da un comitato e le istruzioni per accedere alle registrazioni sono incise sulla custodia del disco, nel caso… “qualcuno lo trovasse”.
Cieli sereni PG
Verso Cartagena de Indias
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Nave Vespucci sta attraversando il Mar dei Caraibi per raggiungere Cartagena de Indias
Navigando verso Ovest, verrà effettuato un altro cambio di ora: gli orologi di bordo saranno spostati ulteriormente di 1 ora indietro portando a – 7 ore la differenza con l’Italia.
Continua..
Cieli sereni PG
Chiamate video e audio Arriveranno su X: Elon Musk rivela le nuove funzionalità.
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di Redazione Online_
Presto sarà possibile effettuare chiamate video e audio su X (fino a poco tempo fa conosciuta come Twitter).
Le nuove funzionalità in arrivo sulla piattaforma sono state annunciate dal CEO di Twitter Inc., Elon Musk.
“Chiamate video e audio in arrivo su X: saranno disponibili su iOS, Android, Mac e PC; non sarà necessario un numero di telefono. X diventerà un efficace elenco globale di contatti”,
ha annunciato il patron di Tesla sui social media.
Inoltre, Musk ha definito questa combinazione di funzionalità ‘unica’.
Non è un segreto che la sua ambizione sia quella di trasformare la piattaforma in un’applicazione completa, che copra tutto, dall’esperienza tradizionale dei social media ai videogiochi e ai servizi finanziari.
Nel libro si parla anche dell’acquisizione del social network e vengono rivelate alcune indiscrezioni.
Ad esempio, emerge la frase che Musk ha detto al CEO dell’epoca, Parag Agrawal, il 31 marzo 2022
‘Quello che Twitter ha bisogno è un drago che sputa fuoco’.
All’epoca, l’ipotesi di acquisto non era ancora ufficialmente sul tavolo: Musk voleva agire dall’esterno per realizzare il suo sogno, cioè creare quel X.com che aveva cercato di realizzare per decenni.
Tuttavia, in pochi giorni, le sue intenzioni sono cambiate, e con esse il destino del social network.
Parque Colon, Santo Domingo
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3° giorno di sosta per Nave Vespucci nel porto di Santo Domingo L’ equipaggio visita la città e il monumento a Cristoforo Colombo nel Parque Colon nella Zona Coloniale.
Il comandante Bitta si è imbattuto in un libro (vedi immagine) che parla della storia della presenza degli Italiani a Santo Domingo che ha profonde e antiche radici. Sin dalla ‘scoperta’ di Cristoforo Colombo molte personalità di origine italiana, hanno contribuito, con il loro operato, alla costruzione dell’identità nazionale del Paese sotto molti aspetti: sociale, culturale, artistico, politico, religioso ed economico. Proviamo a citarne alcuni.
Nel 1519 giunse a Santo Domingo l’umbro Alessandro Geraldini, primo Vescovo residente delle Americhe, che propose la costruzione della Cattedrale, all’ingegnere militare Giovanni Battista Antonelli, artefice delle fortificazioni della città;
Due marinai e armatori genovesi, dei quali si è già parlato, Giovanni Battista Cambiaso (fondatore della Marina Militare Dominicana) e Giovanni Battista Maggiolo, furono protagonisti della guerra d’indipendenza nel XIX secolo;
Sono stati Presidenti della Repubblica Dominicana due discendenti di italiani: Francisco Gregorio Billini (1844- 1898) e Juan Bautista Vicini Burgos (1871 – 1935);
Guido D’Alessandro (1895 – 1954) è stato il progettista del Palazzo presidenziale;
Raffaele Ciferri (1897 – 1964) scienziato marchigiano, è stato direttore di una pionieristica stazione agronomica e autore della prima Carta Geobotanica dell’isola;
I Pellerano, dinastia di imprenditori, il cui capostipite Arturo Alfau fondò nel 1899 il diffusissimo quotidiano Listín Diario uno dei più antichi quotidiani della Repubblica Dominicana, l’unico ancora esistente fra quelli della sua epoca;
I Vicini, i Rainieri e i Marranzini, famiglie titolari di grandi imprese nei campi dell’editoria, delle telecomunicazioni, del turismo e dell’industria alimentare;
Anche nel cinema c’è molto dell’Italia, non solo per le tante produzioni di storie ambientate nel Paese caraibico: si deve anche ricordare il commerciante Francesco Greco che, nel 1900, fece conoscere ai dominicani la magia dell’invenzione (il primo film) dei fratelli Lumière;
🇮🇹🇩🇴 Cieli sereni PG
Ottimizza il Tuo Profilo su LinkedIn con ChatGPT per Massimizzare le Opportunità Professionali”
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di redazione online_
Nel mondo digitale di oggi, la prima impressione è fondamentale, soprattutto quando si tratta del tuo profilo LinkedIn.
Con soli pochi istanti a disposizione per catturare l’attenzione di chi visita il tuo profilo, è essenziale che esso sia solido e coinvolgente.
Ma sappiamo tutti quanto lavoro possa richiedere, vero? Ecco dove entra in gioco ChatGPT. Questo strumento di intelligenza artificiale (IA) ti è probabilmente già noto grazie a menzioni da amici, media e social media. Sebbene le migliorie nell’ambito dell’IA, in particolare con ChatGPT, siano incredibilmente affascinanti, molte persone possono ancora sentirsi incerte riguardo a cosa sia esattamente, se sia sicuro da utilizzare e se possa davvero essere utile.
Non preoccuparti, siamo qui per darti una mano! In questo articolo, esploreremo dettagliatamente ChatGPT, valutando se sia adatto per te come professionista e come puoi sfruttarlo al meglio (e sì, puoi usarlo per LinkedIn!).
Vantaggi di ChatGPT per LinkedIn e la Tua Carriera
Se sei un professionista in un’azienda, tu o la tua azienda state probabilmente considerando le potenziali applicazioni di ChatGPT per semplificare le operazioni quotidiane.
Questa tecnologia può automatizzare molte attività noiose in modo rapido ed accurato, rendendo le tue giornate più efficienti.
Se lavori nel settore delle connessioni professionali, ci sono molteplici modi in cui puoi sfruttare ChatGPT senza sforzi eccessivi. Ad esempio, potresti risparmiare tempo utilizzandolo nella ricerca di lavoro per scrivere obiettivi nel tuo curriculum, sintetizzare un riepilogo professionale, o redigere testi per il tuo portfolio o sito web.
Potresti addirittura contare su ChatGPT per aiutarti a comporre la tua lettera di presentazione o per prepararti per un colloquio. In questo modo, potresti dedicare meno tempo a compiti ripetitivi e lunghe descrizioni, e invece focalizzarti su attività più strategiche.
LinkedIn: Il Terreno di Gioco Perfetto per ChatGPT
Con oltre 875 milioni di profili professionali, LinkedIn offre un’enorme opportunità di connessione e di sviluppo delle tue prospettive future. Tutto, dalla ricerca di lavoro alla costruzione del tuo brand personale, è alla portata grazie a questa piattaforma. E se hai già esperienza con LinkedIn, probabilmente hai notato quanto possa essere impegnativo mantenere un profilo ottimizzato e aggiornato nel tempo.
Proprio qui, ChatGPT può darti una mano.
LinkedIn rappresenta la scelta perfetta per prendere confidenza con ChatGPT come professionista. È facilmente accessibile ed è efficacissimo per ottenere risultati positivi. Puoi sperimentare senza dover chiedere revisioni ad altri, sia che si tratti di revisori aziendali, colleghi o esperti tecnici.
Come Utilizzare ChatGPT su LinkedIn Ecco alcune modalità concrete per utilizzare ChatGPT per migliorare il tuo profilo LinkedIn:
Sintetizzare la Sezione “About me”: Utilizza ChatGPT per creare una bozza della sezione “About me” utilizzando il contenuto del tuo curriculum. Dopo aver ricevuto la risposta, personalizzala per renderla autentica e coerente con la tua personalità.
Evidenziare i Tuoi Successi: Richiedi a ChatGPT di scrivere i successi relativi al tuo curriculum, ad esempio quelli di un Senior Marketing Manager. Personalizza i risultati ottenuti e trasferiscili nel tuo profilo LinkedIn.
Creare un Titolo Coinvolgente: Chiedi a ChatGPT di creare un titolo per il tuo profilo LinkedIn. Puoi anche specificare uno stile di scrittura o termini chiave da includere. L’obiettivo è catturare l’attenzione dei visitatori con un breve, ma efficace, titolo.
Messaggi di LinkedIn: Utilizza ChatGPT per scrivere messaggi di follow-up o di ringraziamento a nuove connessioni. Personalizza il contenuto generato per assicurarti che rispecchi te stesso e i tuoi obiettivi.
Assicurati che il Tuo Profilo Sia Ottimizzato Prima di applicare le modifiche suggerite da ChatGPT al tuo profilo LinkedIn, ti consigliamo di utilizzare lo strumento gratuito LinkedIn Profile Review. Questo strumento ti fornirà feedback personalizzati sul tuo profilo e suggerimenti su come migliorarlo ulteriormente. Una volta identificate le aree che necessitano di miglioramenti, puoi sfruttare ChatGPT per ottimizzare il tuo profilo in modo mirato.
Conclusione: sfruttaa le Opportunità con ChatGPT Avere un profilo LinkedIn ottimizzato può aprire porte a nuove opportunità e connessioni. E con gli strumenti giusti a disposizione, puoi fare tutto questo in modo più efficiente ed efficace. Sia che tu sia un professionista alla ricerca di nuove sfide o che desideri migliorare la tua presenza online, ChatGPT è davvero molto utile.
Nota: Mentre ChatGPT offre notevoli vantaggi, è importante ricordare che è ancora una tecnologia in evoluzione. Assicurati di rivedere e personalizzare il contenuto generato per garantire che rispecchi te stesso e le tue intenzioni. Consulta sempre l’informativa sulla privacy dell’azienda per comprendere come i dati vengono utilizzati.
Lettura Consigliata Se vuoi approfondire l’argomento, ti consigliamo di dare un’occhiata agli articoli che trovi facilmente in rete su ChatGPT e su come utilizzarlo al meglio per migliorare la tua presenza professionale online.
Elon Musk: Visionario e Innovatore – L’impatto della sua Leadership sul Futuro.
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di Redazione Online_
La leadership esemplare di Elon Musk è caratterizzata da una serie di attributi distintivi che lo definiscono come un leader straordinario e innovativo.
In primo luogo, Musk dimostra un coraggio intellettuale straordinario attraverso il suo pensiero audace.
Non si accontenta delle convenzioni esistenti, ma osa immaginare possibilità che altri potrebbero considerare irreali o troppo ambiziose. La sua visione di colonizzare Marte, creare una rete di tunnel ad alta velocità in tutto il mondo e sviluppare interfacce cervello-computer per potenziare la mente umana evidenzia la sua audacia senza precedenti.
La prontezza di Musk a sfidare le norme costituisce un’altra chiave della sua leadership.
Non teme di sfidare il tradizionale status quo e affronta sfide complesse con soluzioni innovative. Questa inclinazione a pensare fuori dagli schemi lo ha spinto a rivoluzionare settori come l’energia e l’industria aerospaziale.
La dedizione incrollabile di Musk al lavoro è altrettanto impressionante.
Si impegna in maniera totale e costante nei progetti che intraprende, lavorando molto e dimostrando un coinvolgimento diretto in ogni aspetto delle sue imprese. Questa dedizione si estende dall’ingegneria al marketing e si riflette nella sua continua ricerca di perfezionamento.
La sua leadership è ancora evidente nel suo approccio pratico e orientato alla soluzione.
Musk è noto per affrontare le sfide concretamente, prendendo in mano problemi complessi e affrontandoli con determinazione. Questo approccio non solo ispira i suoi team, ma dimostra anche la sua capacità di portare avanti le sue visioni in modo tangibile.
Una caratteristica fondamentale della leadership di Musk è il suo forte senso di responsabilità sociale e la sua generosità.
Egli riconosce le questioni globali cruciali, come il cambiamento climatico e l’istruzione, e si impegna attivamente nel contribuire a risolverle. La sua filantropia, espressa attraverso donazioni significative e iniziative benefiche, dimostra il suo desiderio di utilizzare la sua influenza per il bene comune.
L’effetto di Elon Musk come leader visionario è palpabile, in quanto la sua audace visione, la sua etica di lavoro instancabile e il suo impegno per il progresso sociale si combinano per creare un impatto profondo.
Egli incarna il potenziale trasformativo delle idee e delle azioni di un individuo. Ispirando gli altri a perseguire le proprie passioni e a contribuire al progresso dell’umanità, Musk si erge come un faro di innovazione e speranza.
Mercoledì 23 agosto 2023 – La Fossa di Porto Rico e l’anomalia gravitazionale
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18° giorno di mare. Nave Vespucci sta navigando sulla Fossa di Porto Rico.
LA FOSSA DI PORTORICO
È la più grande e la più profonda dell’Oceano Atlantico, avendo una lunghezza di 1.800 km e una larghezza di 100 km; il suo punto più profondo, chiamato Abisso Milwaukee, si trova ad una profondità di circa 8.300 metri sotto il livello del mare: una profondità quasi uguale all’altezza del Monte Everest! L’abisso prende il nome dall’incrociatore americano USS Milwaukee, che il 14 febbraio 1939 registrò con il suo scandaglio, il punto più profondo dell’Oceano Atlantico.
Geologicamente, la fossa segna una parte del confine fra la placca nordamericana e quella caraibica. Quest’ultima sta sprofondando lentamente al di sotto della prima, per un processo chiamato subduzione.
Che succede quando ci si trova sopra il punto più profondo dell’Atlantico?
Premessa: Tutti gli uomini, gli animali, le piante e gli oggetti sulla Terra sono sottoposti ad una accelerazione che li attrae verso il centro del pianeta: la gravità. Per questo parametro è fissato un valore convenzionale, pari a 9,8 m/s² ma l’effettiva accelerazione che la Terra esercita su un corpo varia al variare del luogo in cui questa è misurata.
Un’ anomalia gravitazionale è la differenza tra il valore misurato dell’accelerazione di gravità e il corrispondente valore teorico calcolato su un modello del campo gravitazionale del nostro pianeta ipotizzato con una massa uniformemente distribuita al suo interno e perfettamente sferico.
Una anomalia positiva indica un valore effettivo di gravità superiore a quello previsto dal modello teorico, suggerendo la presenza di un ‘esubero’ di massa al di sotto della superficie terrestre; al contrario, una anomalia negativa è indice, invece, di un valore inferiore al previsto, dovuto a un ‘deficit’ di massa subsuperficiale, (come appunto le zone di subduzione delle placche).
L’ ANOMALIA GRAVITAZIONALE DI PORTO RICO
Sulla fossa di Porto Rico, l’anomalia di gravità risulta avere un elevatissimo valore negativo (- 380 milliGal), la più grande in assoluto sulla Terra. Il segno negativo indica che, un corpo risulta pesare di meno in quel punto che non in qualsiasi altro luogo della Terra.
A questo punto c’è da domandarsi: l’equipaggio del Vespucci sentirà questa… leggerezza ?
Cieli sereni PG
1960: La Fiamma Olimpica sul Vespucci!
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In navigazione verso Santo Domingo, a bordo di Nave Vespucci si ricorda questo giorno di 63 anni fa!
IL VESPUCCI E LE OLIMPIADI
ACCADDE OGGI 18 agosto 1960
La fiamma olimpica, partita da Olimpia il 12 agosto, dopo essere passata per Pyrgo, Patrasso e Corinto, giunge ad Atene. La traversata via mare della fiamma, dal porto della capitale (Falero), è compiuta a bordo dell’Amerigo Vespucci fino a Siracusa, dove sbarca il 18 agosto.
Cieli sereni PG
Mercoledì 16 agosto 2023 – Coltellacci, Coltellaccini e Scopamare
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9° giorno di navigazione del Vespucci in rotta verso Santo Domingo
GLI “SCOPAMARE” Gli SCOPAMARE sono vele rettangolari o trapezoidali aggiuntive, che il Vespucci può issare lateralmente a entrambe le estremità del pennone di trinchetto (o di maestra). Sono dette vele di “bel tempo” e sono impiegate con vento largo per aumentare la velocità.
CURIOSITÀ Fanno parte delle vele “di bel tempo” anche le seguenti: COLTELLACCI Vele trapezoidali, che si aggiungono ai due lati delle vele di media altezza per accrescerne la superficie. COLTELLACCINI Analoghi al coltellaccio, si aggiungono ai lati delle vele ancora più alte.
Cieli sereni PG
Guida pratica alla scrittura di prompt efficaci per Intelligenze Artificiali: Strategie e Consigli
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un articolo di Jonathan AI Writer_
Per sfruttare appieno le potenzialità delle intelligenze artificiali generative, come Chat-GPT e Bard, è indispensabile padroneggiare l’arte di creare prompt efficaci. Il prompt è il punto di partenza che guida l’IA nella generazione di risultati, quindi la sua formulazione gioca un ruolo cruciale nel definire il prodotto finale.
Ma cos’è esattamente un prompt? È un’istruzione o un input che presentiamo al modello per ottenere una risposta desiderata.
Per le IA che lavorano con il testo, un prompt può essere una frase come “Scrivimi una storia di fantascienza che inizia con un ufo che rapisce una mucca“.
Per quelle che generano immagini, potremmo fornire una foto accompagnata da una descrizione scritta.
Un prompt ben costruito è la chiave per ottenere risultati soddisfacenti dalle IA.
È come scrivere una guida dettagliata per farci condurre esattamente dove vogliamo arrivare.
Ad esempio, se vogliamo suggerimenti per un viaggio in Messico, dettagli come la durata del viaggio e i mezzi di trasporto che intendiamo utilizzare diventano fondamentali per ottenere suggerimenti pertinenti.
Oltre alla specificità, possiamo plasmare il tono e lo stile delle risposte.
Immagina di chiedere all’IA di spiegare il ciclo di vita di una pianta a un bambino di cinque anni o a un pubblico specializzato nella materia: il risultato sarà notevolmente diverso in entrambi i casi.
La tecnica del “chained prompting” è un’ottima strategia. In pratica, si tratta di interazioni iterative con l’IA, guidandola passo dopo passo verso l’output desiderato. Ad esempio, per spiegare il ciclo dell’acqua, potremmo chiedere prima come l’acqua reagisce al calore del sole, quindi procedere a descrivere l’evaporazione, e così via.
Inoltre, è importante evitare negazioni o ambiguità nei prompt, poiché l’IA potrebbe fraintenderle.
Dobbiamo anche considerare la lunghezza del prompt: se è troppo lungo, potrebbero ignorare le parti finali. L’equilibrio tra dettaglio e lunghezza è essenziale.
Questo approccio ai prompt si sta trasformando in una professione emergente: l’ “ingegnere dei prompt”. Questi esperti ottimizzano l’interazione tra umani e IA, contribuendo al perfezionamento dei modelli.
È un ruolo che richiede creatività e competenze tecniche, e sta attirando sempre più interesse.
In conclusione, la scelta delle parole giuste nei prompt è fondamentale per ottenere il massimo dalle intelligenze artificiali. È un’abilità che può essere appresa e perfezionata attraverso corsi e pratica. Mentre il mondo delle IA continua a evolversi, gli ingegneri dei prompt potrebbero diventare le guide essenziali per comunicare con le macchine e ottenere risultati straordinari.
Andare in vacanza fa bene.
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un articolo di JourneyWell Hub_
Alcuni preferiscono l’abuso, altri il lavoro con pochi giorni a casa.
Ma almeno una volta all’anno andare in vacanza è salutare.
Uno studio su Psychosomatic Medicine dimostra che il 21% degli uomini di mezza età ad alto rischio di malattie coronariche, che si prende una pausa, ha il 32% in meno di mortalità legata al cuore.
Lo stress provoca malattie e invecchiamento, ma una pausa aiuta.
Uno studio dell’Università di Calgary su avvocati stressati mostra benefici nel prendersi una pausa per evitare la depressione.
In sintesi, una pausa annuale o periodica può influenzare positivamente la salute sia fisica che mentale.
Dall’abbassamento del rischio di malattie cardiache alla stimolazione della creatività, prendersi del tempo lontano dalla routine può favorire il benessere complessivo.
Considerate queste evidenze, non sottovalutate l’importanza di staccare la spina e concedervi il meritato riposo, affrontando così la vita quotidiana con maggiore vigore e equilibrio.
Domenica 13 agosto 2023 – “Il buco del Gatto”
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7° giorno di navigazione in Atlantico per Nave Vespucci
IL “BUCO DEL GATTO” (Dal Diario del comandante Bitta del 17 giugno 2020)
Il “BUCO DEL GATTO” è il nome dato all’apertura nella coffa, la piattaforma situata sulla parte alta di ogni albero, usata dai marinai addetti alle vele e dalle vedette.
Il termine coffa deriva dalla cesta presente nei galeoni del XVII e XVIII secolo, adatta a contenere gli uomini di vedetta.
Salendo vi si accede, dalle draglie, anche attraverso un buco sul fondo senza doversi sporgere in fuori dal bordo. Questo “passaggio” era utilizzato prevalentemente da quei marinai (si chiamavano “terrazzani”) che erano reclutati a forza nei porti e non erano molto confidenti nell’arrampicarsi: un esperto marinaio o un ufficiale mai sarebbe passato dal “buco del gatto” e tuttora, tale passaggio non è consentito ai cadetti.
Cieli sereni PG
10 Strategie Efficaci per Imparare una Lingua velocemente
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Se stai cercando di espandere i tuoi orizzonti e padroneggiare una nuova lingua, non c’è niente di meglio che seguire i consigli di chi l’ha fatto con successo*.
Ecco quindi 10 preziosi consigli per l’apprendimento linguistico.
1.Inizia dialoghi semplici: Comincia il tuo percorso linguistico con dialoghi brevi e chiari. Questo approccio ti consentirà di acquisire familiarità con il nuovo idioma in meno di 90 giorni.
2. Leggi e Sottolinea : inizia leggendo testi al tuo livello di conoscenza o leggermente più avanzato. Concentrati sulle frasi più comprensibili per un apprendimento efficace e sottolinea quelle che non capisci (noterai con il tempo che saranno sempre meno).
3.Prova a parlare (senza temere di sbagliare): Investi tempo nella corretta pronuncia fin dall’inizio. Apprendi dalle voci dei madrelingua e ripeti gli stessi suoni per acquisire una pronuncia naturale.
4.Lettura mirata: Leggi consapevolmente, concentrandoti su argomenti che ti interessano e rispecchiano le tue passioni. Questo rende l’apprendimento più coinvolgente e divertente.
5.Parla fin dall’inizio: Non trascurare l’importanza del parlare. Inizia le conversazioni quotidiane subito per ottenere risultati rapidi. Prova, sbaglia, ripeti, sbaglia. Così funziona….
6.Immergiti nel contesto: Crea un contesto “familiare” leggendo e ascoltando in modo intensivo, ed immergendoti metaforicamente nel Paese del quale stai studiando la lingua. Lo puoi fare tranquillamente da casa, attraverso il Web.
7. Focus su una Lingua: Concentrati su una lingua alla volta per massimizzare la tua attenzione e apprendimento. Evita di disperdere le tue energie su più lingue contemporaneamente.
8.Studia seriamente: evita scorciatoie poco efficaci e impegna te stesso nello studio serio. Ignora falsi miti, rimedi facili, e concentrati sull’apprendimento metodico.
9.Guarda senza sottotitoli: Guarda film o la TV nella lingua che stai studiando, ma leva i sottotitoli per una reale comprensione dell’idioma (all’inizio non ci capirai un granchè, è normale).
10.Accetta l’ambiguità: . Non cercare di capire ogni singola parola, ma accogli il “senso” di una frase per un apprendimento più profondo.
Ricorda, l’apprendimento linguistico può richiedere tempo.
Quindi, apprezza e festeggia anche ogni piccolo progresso lungo il tuo percorso.
Imparare una lingua è un viaggio emozionante, quindi come ogni viaggio, cerca di divertirti.!
*Il testo offre 10 preziosi consigli per imparare una lingua in modo rapido ed efficace, basati sull’esperienza di Olly Richards, un esperto poliglotta che ha imparato otto lingue con successo.
Sabato 12 agosto 2023 – La “Pazienza” e lo “Strangolacane”
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6° giorno di traversata in Atlantico Il Vespucci continua la navigazione a vela manovrato dal suo equipaggio sotto la spinta degli Alisei
A bordo ogni cima ha un nome ed una posizione ben precisi ed inequivocabili: è molto importante saperla individuare immediatamente, una volta ricevuto l’ordine per le manovre.
LA “PAZIENZA” La pazienza è una specie di rastrelliera posta ai piedi di ciascun albero dove sono infilate le caviglie alle quali si dà volta alle varie manovre per fissarle nella posizione d’impiego. Per quello è detta anche cavigliera
COS’ È LO “STRANGOLACANE” ? È così chiamato il cavo per “imbrogliare” (chiudere) le vele quadre basse ed è usato come ausilio ai caricabolina (disegno) per raccogliere e ‘sventare’ le vele (toglierle dall’azione del vento) il più rapidamente possibile.
Come tutte le manovre, gli STRANGOLACANE terminano ai piedi di ciascun albero, su entrambi i lati della PAZIENZA, dove sono facilmente.. individuabili! 😉 (vedi foto).
Cieli sereni PG
Venerdì 11 agosto 2023 – 6° giorno di navigazione in Oceano Atlantico
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L’orario di bordo di Nave Vespucci, oramai di qualche ora ‘indietro’ rispetto all’Italia, scandisce le attività in navigazione. Tra queste anche la mensa dell’ equipaggio.
LA GAMELLA La parola deriva dallo spagnolo gamella, che viene a sua volta dal latino camella. Si tratta di un vassoio di alluminio (una volta di latta) a comparti, nel quale, fino a tempi recenti, i marinai consumavano il rancio, quello che per i soldati era la gavetta. Nel linguaggio di marina, la gamella indica anche l’insieme delle stoviglie e delle posaterie delle mense di bordo.
CURIOSITÀ Sul Vespucci, come su tutte le Unità della Marina Militare, in navigazione, prima di servire il pasto all’equipaggio veniva effettuata la “prova gamella”. Una porzione delle pietanze appena preparate per la mensa, era portato in plancia, all’Ufficile di Guardia, per l’assaggio, l’approvazione (su delega del comandante) e l’eventuale successivo ordine per la distribuzione.
Dallo stesso nome deriva la figura del “Capo Gamella” vale a dire il maresciallo responsabile del buon funzionamento della cambusa e della cucina di bordo.
Cieli sereni e buon appetito PG
Giovedì 10 agosto 2023 – 5° giorno di navigazione in Atlantico, con le “Lacrime di San Lorenzo”
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In questa notte, e in quelle a venire, il nostro equipaggionon potrà mancare all’ appuntamento con le “stelle cadenti” di agosto
LE LACRIME DI S. LORENZO
Si tratta dei resti della cometa Swift-Tuttle (dal nome dei suoi scopritori), che ha seminato nello spazio cosmico, questi piccoli “sassi ghiacciati”. Questa cometa orbita nello spazio e rientra nel nostro sistema solare ogni 130 anni: l’ultima volta è stato nel 1992. La ”pioggia di stelle” avviene perchè ogni anno la Terra attraversa la scia di polveri lasciata dalla cometa sul proprio percorso .
Il “radiante”, cioè la zona da cui tali “stelle” apparentemente provengono, è la costellazione di Perseo (per questo chiamate PERSEIDI) che si trova in direzione Nord-Est a oltre 60° di altezza nelle ore prima dell’alba. È facile da individuare trovandosi proprio sotto Cassiopea, la costellazione riconoscibile per la sua tipica forma a “W”.
LE PERSEIDI
Le Perseidi si verificano ogni anno tra la metà di luglio e la fine di agosto. Quest’anno la pioggia di meteore potrà essere osservata in qualsiasi notte dal 14 luglio al 24 agosto ma il numero massimo di meteore è previsto per il 13 agosto. Al suo picco, la pioggia può produrre anche 100 meteore all’ora.
Inoltre, il 16 agosto, si verificherà la Luna Nuova 🌑, quindi la settimana intorno a questa data sarà perfetta per le osservazioni, dato che le meteore sono più visibili nel cielo scuro senza luna.
Cosa sono le “stelle cadenti”? In realtà, non sono stelle: si tratta di meteoriti che impattano nell’ atmosfera a 60 Km al secondo ovvero circa 210.000 km orari (!). Il calore prodotto dall’attrito fa sì che i meteoriti si infiammino e si sfaldino prima di raggiungere la Terra: ecco perché vediamo una scia luminosa.
Il nome popolare dello sciame deriva dalla ricorrenza del martirio di San Lorenzo, avvenuto il 10 agosto del 238, le cui lacrime sono nella tradizione riconducibili a queste “stelle cadenti”.
Cieli sereni e auguri ai ‘Lorenzo’ e alle ‘Lorenza’
PG
Mercoledì 9 agosto 2023 – 4 ° giorno di navigazione in Atlantico per Nave Vespucci
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LA VAREA Nel lessico marinaresco per VAREA s’intende la parte estrema, affusolata, di un’asta cui è collegata di solito una vela. In particolare, l’estremità del pennone delle vele quadre o quella superiore del boma, del picco e dell’antenna delle vele di taglio;
Le varee sono attrezzate con un risalto, (sporgenza) destinata a dare appoggio agli amantigli (i cavi che reggono i pennoni), mentre le più grandi sono munite di una cavatoia (cavità), praticata per alloggiare pulegge e farvi passare i cavi di manovra.
CURIOSITÀ Alla varea del pennone più alto, si impiccavano in mare i pirati catturati, dopo un rapido e poco formale processo condotto in base alle usanze e al sommario diritto del mare esistente.
Cieli sereni PG
La Bigotta
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8 agosto 2023 – terzo giorno di navigazione in Atlantico per Nave Vespucci
LA BIGOTTA
A bordo le bigotte sono bozzelli in legno durissimo di forma sferica, schiacciata, forati orizzontalmente da tre o quattro fori, nei quali passa una cima di canapa (corridore) che deve essere tesata. Ogni bigotta fa coppia con un’altra bigotta e costituiscono una sorta di paranco: il corridore passa alternativamente nei fori dell’una e dell’altra, e quando viene teso, le bigotte si avvicinano.
Serve a mantenere tesate le manovre dormienti (quindi fisse) come ad esempio le sartie degli alberi delle navi armate in maniera tradizionale. Sulle navi più moderne (nel caso delle sartie) il lavoro delle bigotte lo fanno gli ARRIDATOI.
Cieli sereni PG
L’ ARRIDATOIO È …
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L’ ARRIDATOIO, detto anche TENDITORE, è un meccanismo usato per portare e mantenere alla giusta tensione i cavi che tengono fissati gli alberi delle navi e delle imbarcazioni. Questi cavi, che sono le “SARTIE” e “PATERAZZI/STRALLI”, (a seconda che sorreggano gli alberi trasversalmente o longitudinalmente) una volta regolati, non necessitano di essere continuamente manovrati per la navigazione e per questo vengono chiamati “MANOVRE DORMIENTI”. [Si distinguono dalle “MANOVRE CORRENTI” che si utilizzano per manovrare e orientare vele e pennoni]
L’ARRIDATOIO, (dal verbo “ridare” ripetere la tesatura), è costituito da un tirante metallico con due viti poste alle estremità, una ad avvitamento destrorso ed una sinistrorsa.
Cieli sereni e buon vento PG
La traversata atlantica del Vespucci e le “onde tropicali” – 7 agosto 2023
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Il Vespucci ha lasciato le Isole di Capo Verde, e si appresta ad effettuare la traversata atlantica verso Santo Domingo: 2.680 miglia nautiche, circa 5.000 chilometri !
COME NEL TERZO VIAGGIO DI CRISTOFORO COLOMBO
I quattro viaggi di Colombo (vedi immagine) seguirono rotte simili ma non identiche. La terza scese molto più a Sud-Ovest passando proprio da Capo Verde dopo aver toccato Madeira e le Canarie.
LE ONDE TROPICALI
Nei prossimi giorni il Vespucci dovrà navigare anche su un altro tipo di onde: le ONDE TROPICALI. Le onde tropicali non sono onde di mare ma perturbazioni di aria (basse pressioni), che scorrono periodicamente in sequenza (una media di 5 al mese) da Est verso Ovest, lungo la fascia tropicale dell’Oceano Atlantico. Queste basse pressioni (vortici antiorari 🔄) sono anche chiamate, per la latitudine alla quale si generano, cicloni tropicali. A volte, soprattutto tra giugno e settembre, degenerano in forti perturbazioni🌩️, fino a raggiungere la forza di uragano🌪️ ed abbattersi sulle isole del Mar dei Caraibi, proprio dove sta dirigendo la nostra nave.
✍️ Dall’immagine satellitare in calce, ricevuta questa notte, si nota che un vortice si trova ben al di sotto della rotta del Vespucci (linea tratteggiata): per le prossime 24 ore, dunque, il rischio di forti perturbazioni è quasi nullo. 👌
Buon vento e cieli sereni PG
Domenica 6 agosto 2023 – I Capoverdiani sono i più belli del Mondo?
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Dalla ‘nave più bella del mondo’ in porto a Capo Verde
I PIÙ BELLI DEL MONDO
La prestigiosa rivista PLOS Genetics ha pubblicato i risultati di una ricerca scientifica relativa alla popolazione capoverdiana e alle sue caratteristiche somatiche. Lo studio è stato condotto su un campione di 700 individui e su un milione di marcatori molecolari: le conclusioni sono state che la popolazione di Capo Verde presenta caratteristiche uniche dato il livello di mescolanza assolutamente straordinario tra Europei e Africani. Si riscontra l’intera gamma possibile di pigmentazione della pelle e anche del colore degli occhi ed in generale anche i tratti somatici appaiono la migliore sintesi tra caratteristiche europee e africane. Molti ritengono, forse a ragione, che la bellezza capoverdiana non abbia pari nel mondo; qualcuno replicherebbe “de gustibus” ma considerata tale straordinaria varietà è il caso di affermare che ce n’è, praticamente,… per tutti i gusti. (da quotidiano punto net)
Cieli sereni PG
Sabato 5 agosto 2023 – Praia di Capo Verde
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In porto a Praia di Capo Verde
Antonio DA NOLI, fu un navigatore genovese al servizio del Portogallo, nato nel 1419. A trenta anni, partì da Genova con il fratello e il nipote, con tre galee di sua proprietà, e si recò in Portogallo per ottenere l’appoggio di Enrico il Navigatore che gli permise di navigare lungo le coste atlantiche dell’Africa e scoprire alcune isole (quelle più a Nord) dell’arcipelago di Capo Verde, come dimostra un documento del 1462 firmato da Alfonso V, re del Portogallo.
LA LEGGENDA DI ANTONIO DA NOLI Un’antica leggenda narra che Antonio Da Noli lasciò Genova per ragioni… di cuore. Si legge che fosse innamorato di una bellissima ragazza genovese. La giovane ricambiava il suo amore, ma essendo di ceto più elevato, i genitori di lei non acconsentivano al matrimonio.
Con il cuore spezzato, Antonio decise di partire per cercare di dimenticarla. Fu così che si dedicò anima e corpo alle esplorazioni scoprendo in Africa molti luoghi ancora sconosciuti. Ma, per quanto le sue spedizioni avessero successo, non riusciva a dimenticare la sua bella innamorata genovese.
Un giorno Antonio, mentre si trovava su un’isola di Capo Verde, avvistò insieme al suo equipaggio una nave in difficoltà, che stava per affondare. Riuscì a salvare tutti, e scoprì con grande felicità che, a bordo di quella nave, si trovava niente meno che la sua innamorata, scappata da Genova, per andare a cercarlo. Naturalmente quando la coppia tornò a Genova, i genitori della ragazza, così contenti che la loro figlia fosse tornata sana e salva, acconsentirono alle nozze.
Il navigatore genovese Antonio da Noli ha dato il nome ad una nave della Regia Marina italiana affondata il 9 Settembre 1943 nelle Bocche di Bonifacio. La Flotta da Battaglia italiana fu attaccata dai tedeschi poche ore dopo l’annuncio dell’armistizio: il Cacciatorpediniere Antonio Da Noli salta su un campo minato nel tentativo di disimpegnarsi dal fuoco tedesco proveniente dalle batterie della Corsica. Affonda, a circa 5 miglia a ponente del faro di Pertusato, dividendosi in due tronconi. Nel settembre del 2009 il relitto del Da Noli è stato individuato su un fondale di circa 90 metri.
Il motto della nave era, Prendimi teco a l’ultima fortuna, un verso tratto dalla tragedia La Nave di Gabriele D’Annunzio.
Cieli sereni PG
Il potere del ‘no’: Come dire di no può migliorare la produttività e il successo.
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di Redazione Online_
Imparare a dire di no è un potente strumento per migliorare la produttività e concentrarsi su ciò che conta davvero nella vita e nel proprio lavoro.
Non solo è una competenza essenziale, ma diventa ancor più importante man mano che il successo e le responsabilità aumentano.
“Non c’è riunione più veloce di quella che non si tiene affatto”
Questa frase rende bene l’idea.
Ma ciò non vuol dire che non dovreste mai partecipare a una riunione, ma la verità è che diciamo di sì a molte cose che in realtà non vogliamo fare (non è forse vero che ci sono molte riunioni che non devono essere tenute?).
Ecco di seguito una sintesi dei punti chiave del ragionamento:
Il trucco definitivo per aumentare la produttività è dire di no. Non fare qualcosa sarà sempre più veloce che farla.
Molte volte diciamo di sì a cose che non vogliamo fare solo per evitare di sembrare scortesi o poco disponibili.
Dire di no è un’abilità importante da sviluppare, poiché ci permette di risparmiare tempo e concentrarci su ciò che è veramente significativo per i nostri obiettivi.
Il no è una decisione, mentre il sì è una responsabilità. Quando dici di no, mantieni la libertà di scegliere come utilizzare il tuo tempo in futuro.
Anche se può essere difficile dire di no a persone care o colleghi, è importante imparare a farlo in modo gentile e diretto.
Steve Jobs è un esempio di come dire di no sia cruciale per mantenere il focus e raggiungere il successo. “La gente pensa che concentrarsi significhi dire sì alla cosa su cui ci si deve concentrare. Ma non è affatto così. Significa dire no a centinaia di altre buone idee che ci sono. Bisogna scegliere con attenzione”.
Dire di no è una strategia che può essere utile in qualsiasi fase della carriera, e con il tempo, diventa ancora più importante per proteggere il tuo tempo e concentrarti sulle opportunità migliori.
Per migliorare la tua capacità di dire di no, chiediti se un’opportunità ti entusiasma abbastanza da abbandonare ciò che stai facendo al momento.
Eliminare le cose che non sono importanti è più utile dell’ottimizzare le attività. Un “no” ben detto può essere più potente di un “sì”.
Con il tempo, devi aumentare il livello di rigore nei confronti delle opportunità, dire di no anche a cose che un tempo consideravi valide, per fare spazio a opportunità ancora migliori.
Questo articolo è dedicato ad una mia cara amica di Palermo, incapace di dire “No”, soprattutto a se stessa.
ADL
GLI ALISEI
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Gli alisei sono venti costanti che spirano regolarmente per tutto l’anno in direzione dell’equatore. La velocità media si aggira intorno ai 13 nodi con picchi massimi di 18 in estate (luglio) e con medie di poco inferiori, nei mesi di giugno ed agosto. Si fanno poi più leggeri da ottobre a dicembre.
Questi venti spirano simmetricamente sia nell’emisfero boreale che nell’emisfero australe: hanno direzione da Nord-Est verso l’equatore nell’emisfero Nord e da Sud-Est verso l’equatore nell’emisfero Sud.
PERCHÈ ESISTONO? Il maggiore riscaldamento della Terra intorno alla fascia dell’Equatore determina una risalita di aria (bassa pressione al suolo) che, per compensazione, “attira” aria dalle due fasce tropicali contigue (alte pressioni). Questo costante “rimpiazzamento” di aria sono proprio gli ALISEI i quali, per quanto detto, dovrebbero spirare in modo perpendicolare, sia da Nord che da Sud, verso l’Equatore.
Ecco la rappresentazione di una sezione VERTICALE dell’ atmosfera sull’Equatore 👇
🌞 ⬅️ ☁️☁️ ➡️ 🌞 ¦ ¦ ¦ ⬇️ ⬆️ ⬇️ ¦ ¦ ¦ A ➡️ B _ ⬅️_ _A 〰️〰️〰️ 〰️〰️〰️〰️〰️ < NORD SUD > ¦ Equatore
A = Alta Pressione B = Bassa Pressione ⬅️➡️ = Direzione dei Venti (Nord/Sud) ⬆️⬇️ = Movimento dell’Aria (Ascendente/Discendente) 〰️ = Livello del Mare 🌞 = Cielo Sereno ☁️ = Nuvolosità
Soffiano, invece, in maniera obliqua (Vedi figura). Perchè? La causa è il moto di rotazione della Terra (da Ovest a Est) che tende a deviare ogni massa in movimento verso destra nell’emisfero nord e verso sinistra nell’emisfero sud (forza di Coriolis).
CURIOSITÀ Questi venti sono sempre stati importantissimi per la navigazione oceanica a vela: le prime circumnavigazioni della Terra, infatti, venivano sempre effettuate andando verso Ovest sfruttando la spinta di questi venti. Per questo in inglese gli Alisei sono chiamati trade winds, (“venti del commercio”).
Cieli sereni PG
“Le Tendenze del Lavoro 2023: Professioni più Richieste e Aree di Sviluppo per Aziende di Successo”.
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di redazione online_
Quali sono le principali tendenze che stanno rivoluzionando il panorama lavorativo?
Qui di seguito troverai le professioni più richieste e le aree di sviluppo fondamentali su cui conviene investire.
L’impatto del Covid e la successiva transizione digitale e green hanno accentuato il fenomeno della carenza di competenze, noto come “Skill Shortage”, nelle aziende.
La gestione dei talenti a tutti i livelli è diventata essenziale per le aziende al fine di anticipare le competenze del futuro e attuare strategie di Upskilling e Re-skilling, aiutando così i dipendenti ad acquisire nuove competenze per essere più competitivi sul mercato.
Curiosamente, mentre l’automazione sostituirà progressivamente il lavoro routinario, competenze tipicamente umane, come la capacità di risolvere problemi, l’empatia e la creatività, stanno guadagnando sempre più importanza.
Tutto ciò richiederà una notevole riqualificazione della forza lavoro.
Allo stesso tempo, il boom dello smart working e della gig economy ha trasformato significativamente il modo in cui i lavoratori interagiscono con le aziende, un aspetto da non sottovalutare, soprattutto in relazione allo sviluppo di strumenti digitali.
Ma verso quale direzione stiamo andando? Quali sono le nuove tendenze?
Le tendenze nel mondo del lavoro nell’immediato futuro riflettono l’ininterrotta crescita della domanda di diverse figure professionali: dagli specialisti IT alla medicina, dai professionisti della Green Economy al digital marketing, con un’innovativa “new entry” nel contesto italiano.
Diversi studi di settore concordano sul cambiamento in atto nel mondo del lavoro e sui trend che le aziende devono considerare nelle loro politiche.
La ricerca analizza le tendenze chiave che stanno ridefinendo il futuro del lavoro, individuando così le professioni più ricercate.
Le 4 professioni più promettenti per il 2024:
Figure IT e Sviluppatori: Le professioni legate alle tecnologie dell’informazione (IT) e all’intelligenza artificiale (IA) sono estremamente ricercate sia oggi che in futuro. Con la crescente importanza della digitalizzazione e la necessità di automatizzare processi aziendali, ci sono numerose opportunità per professionisti IT come sviluppatori software, ingegneri di machine learning e data scientist. Queste figure sono spesso altamente remunerate, e con lo smart working in espansione, si aprono prospettive di carriera a livello globale.
Medici e Operatori Sanitari: L’attenzione crescente rivolta alla pandemia di COVID-19 e la domanda in aumento di servizi sanitari in generale rendono le professioni mediche e sanitarie particolarmente richieste. Medici, infermieri e altri professionisti del settore sono essenziali per garantire cure adeguate e di qualità.
Professionisti della Green Economy: La crescente attenzione verso la sostenibilità ambientale e la transizione verso fonti di energia pulite e sostenibili hanno generato una domanda esplosiva per professioni legate alla green economy. Ingegneri ambientali, esperti di efficienza energetica e tecnici delle energie rinnovabili sono fortemente richiesti per supportare e gestire questa transizione verso un’economia più sostenibile.
Marketers & Specialisti di E-commerce: Il boom degli acquisti online ha portato a una crescente richiesta di professionisti di marketing digitale e specialisti di e-commerce, come specialisti SEO e social media manager.
Le aziende devono prepararsi adeguatamente per queste tendenze e investire in formazione, sviluppo e gestione dei talenti. Le competenze digitali e la flessibilità dei dipendenti diventeranno sempre più cruciali per il successo aziendale in questo nuovo contesto lavorativo in continua evoluzione.
L’intelligenza artificiale e le tecnologie low code stanno rivoluzionando il modo in cui lavoriamo.
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di Redazione Online_
Nel mondo digitale, la velocità è sempre più importante.
Questo vale anche per l’elaborazione dei dati, che si moltiplicano in maniera esponenziale, sempre più.Per questo, il mondo IT si sta orientando sempre di più all’uso dell’intelligenza artificiale (AI) e delle tecnologie low code.
Le tecnologie low code sono un tipo di software che semplifica la creazione di applicazioni software senza richiedere la conoscenza del codice.
Questo le rende accessibili a un pubblico più ampio, inclusi non sviluppatori.
Le tecnologie low code sono utilizzate da aziende di tutte le dimensioni per creare applicazioni che supportano i loro obiettivi aziendali. Sono utilizzate per creare applicazioni per la gestione dei clienti, la gestione dei progetti, l’analisi dei dati e altro ancora.
I processi ” low code” sono in rapida crescita e sono previste implementazioni esponenziali per questo tipo di programmazione, perché offre una serie di vantaggi, tra cui:
Riduzione dei costi: le tecnologie low code possono ridurre i costi di sviluppo software riducendo la necessità di assumere sviluppatori professionisti.
Aumento della velocità: le tecnologie low code possono accelerare il processo di sviluppo software consentendo agli utenti di creare applicazioni più velocemente.
Aumento della flessibilità: le tecnologie low code sono più flessibili rispetto ai tradizionali strumenti di sviluppo software, in quanto consentono agli utenti di creare applicazioni che si adattano alle loro esigenze specifiche.
Migliore collaborazione: le tecnologie low code possono migliorare la collaborazione tra i membri del team, in quanto consentono agli utenti di condividere e modificare facilmente le applicazioni.
L’AI può automatizzare molte attività di elaborazione dei dati, come il tracciamento, la sincronizzazione e la gestione.
Questo può liberare tempo agli sviluppatori per concentrarsi su attività più strategiche, come la ricerca di nuove tecnologie e la creazione di nuove applicazioni, E’ questo si traduce in una migliore esperienza utente, una riduzione dei costi generali per le aziende, un aumento delle vendite con maggiore soddisfazione del cliente.
E’ ormai un fatto incontrovertibile che l’AI può migliorare l’esperienza utente (UX) fornendo informazioni personalizzate e raccomandazioni.
Nel complesso, l’AI e le tecnologie low code stanno trasformando il modo in cui l’IT viene utilizzato, rendendo il lavoro più efficiente, produttivo e personalizzato.
Come l’intelligenza artificiale può fornire un’assistenza personalizzata ai clienti.
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un articolo di Dr.AI_
L’intelligenza artificiale (AI) sta rivoluzionando il modo in cui le aziende operano, rivoluzionando i processi e migliorando l’efficienza.
L’AI può essere utilizzata per automatizzare attività ripetitive e dispendiose in termini di tempo, prendere decisioni migliori e fornire un’assistenza personalizzata ai clienti.
Ecco alcuni dei modi in cui l’AI sta cambiando la gestione aziendale:
Automatizzazione: L’AI può essere utilizzata per automatizzare una vasta gamma di attività, come la gestione delle relazioni con i clienti, la gestione dei dati e la gestione delle risorse umane. Ciò può liberare i dipendenti per concentrarsi su attività più strategiche e creative.
Decisioni migliori: L’AI può essere utilizzata per analizzare grandi quantità di dati e identificare modelli che potrebbero non essere evidenti agli umani. Ciò può aiutare le aziende a prendere decisioni migliori in merito a questioni come il marketing, la produzione e la finanza.
Assistenza personalizzata: L’AI può essere utilizzata per fornire un’assistenza personalizzata ai clienti. Ad esempio, l’AI può essere utilizzata per generare risposte personalizzate alle domande dei clienti, raccomandare prodotti e servizi e risolvere i problemi.
L’AI ha il potenziale per rivoluzionare il modo in cui le aziende operano.
Tuttavia, è importante notare che l’AI non è una soluzione magica.
L’AI può essere utilizzata per migliorare l’efficienza e la produttività, ma non può sostituire la creatività e l’intuito umano. Le aziende devono essere consapevoli di questi limiti e utilizzarla in modo strategico per ottenere il massimo vantaggio.
Ecco alcuni esempi di come l’AI viene già utilizzata nelle aziende:
Gestione delle relazioni con i clienti: L’AI può essere utilizzata per automatizzare le attività di customer service, come la risposta alle domande dei clienti, la risoluzione dei problemi e la gestione dei reclami. Ciò può liberare i dipendenti per concentrarsi su attività più strategiche, come la costruzione di relazioni con i clienti e lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi.
Gestione dei dati: L’AI può essere utilizzata per analizzare grandi quantità di dati, come i dati di vendita, i dati dei clienti e i dati dei social media. Ciò può aiutare le aziende a identificare tendenze, prevedere le tendenze e prendere decisioni migliori.
Gestione delle risorse umane: L’AI può essere utilizzata per automatizzare le attività di gestione delle risorse umane, come la pianificazione delle risorse, la gestione dei talenti e la formazione. Ciò può liberare i dipendenti per concentrarsi su attività più strategiche, come lo sviluppo della cultura aziendale e la creazione di un ambiente di lavoro positivo.
L’AI è una tecnologia potente che ha il potenziale per rivoluzionare il modo in cui le aziende operano.
Le aziende che abbracciano l’AI possono ottenere un vantaggio competitivo significativo, e non riconoscere questa potenzialità può portare a danni irreparabili alle società che non intendono usarla.
La leadership è una questione di scelta.
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di Giovanna Marrai_
La leadership è un’abilità complessa che richiede una varietà di competenze. È l’abilità di guidare e motivare gli altri verso un obiettivo comune. I leader sono in grado di ispirare gli altri, prendere decisioni difficili e creare un ambiente positivo in cui le persone possono lavorare al meglio.
Esistono molti stili di leadership diversi. Alcuni leader sono più autoritari, mentre altri sono più democratici. Non esiste un unico stile di leadership migliore, poiché il migliore stile dipenderà dalla situazione specifica.
Ecco alcuni dei tratti più importanti di un buon leader:
Visione: i leader hanno una visione chiara del futuro e sono in grado di comunicarla agli altri.
Motivazione: i leader sono in grado di motivare gli altri a raggiungere gli obiettivi comuni.
Decisione: i leader sono in grado di prendere decisioni difficili anche quando non sono popolari.
Comunicazione: i leader sono in grado di comunicare in modo chiaro ed efficace con gli altri.
Costruttore di relazioni: i leader sono in grado di costruire relazioni forti con gli altri.
Flessibile: i leader sono in grado di adattarsi a situazioni in continua evoluzione.
Se vuoi diventare un leader, è importante sviluppare queste competenze. Ci sono molti modi per farlo, ad esempio attraverso la formazione, la pratica e l’esperienza.
Ecco alcuni suggerimenti per diventare un leader:
Sviluppa una forte visione: cosa vuoi ottenere? Cosa vuoi cambiare? Una volta che hai una forte visione, sarai in grado di motivarti e motivare gli altri a raggiungerla.
Sii un modello per gli altri: i leader sono un esempio per gli altri. Assicurati di comportarti in modo coerente con i tuoi valori e le tue convinzioni.
Sii un ascoltatore attivo: i leader sono in grado di ascoltare gli altri e comprendere i loro punti di vista. Questo è importante per costruire relazioni e creare consenso.
Sii inclusivo: i leader sono in grado di coinvolgere tutti, indipendentemente da background o esperienze. Questo è importante per creare un ambiente positivo in cui tutti si sentano apprezzati e valorizzati.
Sii coraggioso: i leader sono in grado di prendere decisioni difficili anche quando non sono popolari. Questo è importante per raggiungere gli obiettivi comuni.
La leadership è una sfida, ma è anche un’opportunità. I leader hanno la possibilità di cambiare il mondo e di avere un impatto positivo sulla vita degli altri. Se hai la passione per la leadership, non esitare a sviluppare le tue competenze e diventare un leader.
GiovannaMarrai è una consulente di leadership che lavora con aziende di tutte le dimensioni per sviluppare e migliorare le loro capacità di leadership. È un’esperta di diversi stili di leadership, e aiuta i suoi clienti a trovare lo stile che funziona meglio per loro.
Lunedì 31 luglio 2023 – Nave Vespucci in sosta a Dakar – Come si galleggia nel Lago Rosa…
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Il Lago RETBA (o Lac Rose) è un lago che si trova vicino alla penisola di Cap Vert, a nord est di Dakar. Ha una larghezza massima di 1,5 km, è lungo 5 km e dista appena un chilometro dall’Oceano Atlantico.
È così chiamato per le sue acque rosa dovute, secondo gli esperti, ad una particolare alga ( Dunaliella salina ) che insieme ad un batterio ( Desulfohalobium retbaense ) produce un pigmento che conferisce alle acque questo suggestivo colore che cambia a seconda della luce e che è particolarmente visibile durante la stagione secca (da novembre a maggio).
Il batterio non è pericoloso per l’uomo e per questo motivo è possibile fare il bagno nel lago, dove, una volta immersi, si è sostenuti facilmente a galla: le sue acque, infatti, presentano una concentrazione di sale superiore persino a quella del Mar Morto (380 grammi per litro !).
CURIOSITÀ Questa località è stata il punto di arrivo 🏁 della celebre Parigi-Dakar fino all’edizione del 2007 quando il suo percorso venne spostato in Sudamerica e poi, nel 2020, in Arabia Saudita, mantenendo comunque la denominazione ‘Rally Dakar’.
Il lago Retba è candidato per essere insignito dall’UNESCO del titolo di patrimonio mondiale dell’umanità.
Cieli sereni PG
Domenica 30 luglio 2023 – Nave Vespucci in porto a Dakar
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UN’ ISOLA FATTA DI CONCHIGLIE !
Lungo la costa a Sud di Dakar, a circa 100 km dalla capitale, si trova Joal-Fadiouth, un piccolo villaggio di pescatori unico al mondo: vi è un’isola fatta quasi interamente di conchiglie. Il paese si divide in due parti, da un lato vi è Joal la zona sulla costa e dall’altra Fadiouth legate insieme da un ponte di legno lungo circa 400 metri. Dove non vi sono costruzioni, il terreno è completamente ricoperto di conchiglie, perché gli abitanti, da sempre, raccolgono molluschi, sia per mangiarne il frutto, sia per usare i gusci al fine di costruire qualunque cosa, anche strade e edifici! Uno dei modi in cui gli abitanti danno impulso alla loro economia è la fabbricazione di gioielli con le conchiglie raccolte.
Ogni angolo delle strade ed anche il cimitero sono sommersi da conchiglie. Quest’ultimo ha anche un’altra particolarità: è l’unico cimitero del Senegal, dove vengono sepolti indistintamente cristiani e musulmani.
Cieli sereni PG
Sabato 29 luglio 2023 – Il Vespucci è arrivato in SENEGAL
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Sabato 29 luglio 2023 Il Vespucci è arrivato in SENEGAL
La nave si è ormeggiata questa mattina al Grand Wharf de la Marine nel Porto di Dakar .
DAKAR (in lingua wolof Ndakaaru) è la capitale del Senegal situata nella punta della penisola di Capo Verde (Cap Vert)
A circa un miglio dal porto di Dakar si trova l’isola di Gorée dove, nel 1444, i portoghesi fondarono un insediamento che chiamarono Palma. Successivamente Gorée divenne una base per la tratta degli schiavi, che per tre secoli caratterizzò tristemente l’economia della zona.
Per la memoria di quel tempo e come simbolo di riscatto, nel 2010, l’allora presidente Abdoulaye Wade, fece realizzare il Monumento al Rinascimento Africano.
Il monumento è una statua di bronzo alta 49 metri che sorge su una delle due colline di Dakar chiamate Les Mamelles.
Il soggetto mostra una famiglia che emerge dalla cima di una montagna: è la figura di una giovane donna e di un uomo che porta in braccio un bambino che a sua volta, con la mano, indica il mare. La statua, progettata dall’architetto senegalese Pierre Goudiaby Atepa, è rivolta verso l’oceano Atlantico, indicando simbolicamente la Statua della Libertà.
Il monumento ha subito molte critiche: sullo stile da ‘realismo socialista’ non appropriato all’Africa e sulle fattezze poco africane del corpo maschile. Gli imam locali affermano, inoltre, che mostrare in una statua figure umane seminude è idolatria.
CURIOSITÀ Vi è una sala panoramica, collocata in cima alla testa dell’uomo, raggiungibile anche con un ascensore, che può accogliere 15 persone.
Cieli sereni PG
Venerdì 28 luglio 2023 – Il Tropico del Cancro
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Ultimo giorno di navigazione verso Dakar
SOTTO IL TROPICO DEL CANCRO…
Da qualche giorno il Vespucci si trova in navigazione dentro la fascia tropicale a cavallo dell’Equatore, così chiamata perchè delimitata, a Nord, dal TROPICO DEL CANCRO e a Sud dal Tropico del Capricorno.
Cosa è il Tropico del Cancro?
Il tropico del Cancro è il parallelo più settentrionale in cui il Sole culmina allo zenitun solo giorno all’anno (nel solstizio di giugno). Al Tropico del Capricorno lo stesso avviene nel solstizio di dicembre. Nei punti della Terra che invece si trovano all’interno di questa fascia, il fenomeno avviene in due date, che variano a seconda della latitudine. Tutto ciò è dovuto alla rivoluzione della Terra in orbita intorno al Sole e all’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre (23° 27′): al mezzogiorno solare (passaggio in meridiano) il sole si presenta esattamente sulla verticale (come si dice “a picco!”) non producendo alcuna ombra! Questo è avvenuto sul Vespucci mercoledì scorso 26 luglio in latitudine 19° 25′ N. Il Vespucci attraverserà di nuovo il Tropico del Cancro, ma da Sud a Nord, nel giugno del 2024 (!) e poi ancora 4 volte durante questo giro del mondo: ma non è detto che in quei giorni avrà ancora il Sole esattamente “a picco”.
Cieli sereni PG
“L’Equilibrio delle Azioni: come le nostre scelte definiscono il nostro futuro”
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di Alessia Montalto_
Il Karma è una legge universale in cui ogni azione ha una reazione corrispondente.
Newton lo sapeva bene quando disse: “ad ogni azione corrisponde anche una reazione uguale o contraria.”
Secondo questa logica, le azioni umane generano energia positiva o negativa, che poi ritorna alla fonte di partenza.
Le azioni negative, purtroppo, hanno un impatto maggiore e richiedono maggiori sforzi per essere bilanciate da azioni positive.
Il concetto di Karma, presente anche nella filosofia indiana, implica che ogni nostro comportamento o pensiero ha delle conseguenze e contribuisce a creare equilibrio o disequilibrio nelle nostre vite.
Il ciclo delle rinascite, noto come Samsara, è una manifestazione di questo processo di riequilibrio.
Per agire secondo il principio del Karma, dobbiamo agire spontaneamente e empaticamente verso gli altri, senza misurare in modo egoistico gli effetti delle nostre azioni.
Questo ci permette di bilanciare continuamente il nostro karma e vivere in uno stato di grazia, orientato verso gratificazioni interiori ed umane, anziché seguire logiche competitive e materialistiche.
Riflettiamo sulla nostra sensibilità verso gli altri, evitando azioni negative e cercando di contribuire positivamente alla nostra vita e quella delle persone con le quali condividiamo il nostro tempo.
Solo così possiamo creare un’energia benefica e influenzare positivamente il nostro destino.
Ufo e fenomeni aerei non identificati: “Rinvenuti resti non umani”
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Immagine tratta dal film “Arrivals” di Denis Villeneuve – 2016
di Redazione online_
Un’audizione storica, oggi 27 luglio, davanti alla commissione di Controllo della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti che ha gettato luce su un programma segreto per il recupero e lo studio di oggetti volanti non identificati (UAP).
L’ex maggiore David Grusch, ex agente dell’intelligence dell’Aeronautica USA, ha rivelato dettagli scioccanti sul programma, e insieme a due veterani dell’esercito, Ryan Graves e David Fravor, ha fornito testimonianze coinvolgenti riguardo agli avvistamenti di UAP.
Conosciuto come “la talpa degli Ufo”, il maggiore Grusch ha svelato che il governo degli Stati Uniti sta da tempo conducendo un programma segreto per il recupero e lo studio di rottami di UAP. Tuttavia, l’accesso a questo programma gli è stato negato nonostante fosse coinvolto in incarichi ufficiali presso il National Reconnaissance Office, l’agenzia responsabile dei satelliti spia degli USA. Grusch ha dichiarato di avere informazioni su attività “non umane” risalenti addirittura agli anni ’30 del secolo scorso.
Le testimonianze di Ryan Graves e David Fravor
Ryan Graves e David Fravor, ex piloti della Marina, hanno offerto prove concrete riguardo agli incontri con UAP durante le operazioni di volo. Graves ha sottolineato come questi incontri non siano eventi isolati, ma piuttosto comuni nel nostro spazio aereo, tanto che sono persino discussi durante i briefing pre-volo. Fravor ha descritto il suo incontro ravvicinato con un UAP noto come “Tic Tac Ufo” nel 2004, confermato anche dal Pentagono.
La Ricerca di Trasparenza
L’udienza pubblica è stata indetta per consentire al Congresso USA di ottenere ulteriori informazioni riguardo agli UAP, un tema considerato di sicurezza nazionale e oggetto di dibattito da anni. I testimoni hanno affermato che il governo possiede informazioni su forme di vita extraterrestri e tecnologie aliene avanzate. Nonostante il Pentagono abbia smentito le affermazioni di Grusch riguardo a un presunto insabbiamento, l’interesse per la ricerca di trasparenza e la divulgazione di informazioni riguardo agli UAP sta crescendo sia nel Congresso che tra i cittadini americani.
Le Implicazioni della Sicurezza Nazionale
Ryan Graves ha sottolineato che se gli UAP fossero droni stranieri, rappresenterebbero un problema urgente di sicurezza nazionale. Al contrario, se si tratta di fenomeni ancora non compresi dalla scienza, ciò diventerebbe un problema per gli scienziati. In ogni caso, gli oggetti volanti non identificati costituiscono una preoccupazione per la sicurezza dei voli e potrebbero richiedere ulteriori indagini e studi approfonditi.
La Richiesta di Trasparenza
Le testimonianze dei tre militari hanno rafforzato la volontà del Congresso di fare chiarezza sugli UAP. Il deputato repubblicano Tim Burchett ha sostenuto che il popolo americano merita la verità e che la trasparenza del governo è essenziale su questa materia. Il leader dei democratici in Senato, Chuck Schumer, ha presentato un emendamento per rendere pubblici tutti i documenti governativi legati agli UAP, sottolineando la necessità di fornire maggiori informazioni sulla questione.
Conclusioni
L’udienza davanti alla commissione di Controllo della Camera dei Rappresentanti ha sollevato interrogativi significativi riguardo agli UAP e ha alimentato la richiesta di trasparenza riguardo ai programmi governativi segreti su questo argomento. Mentre il dibattito prosegue, l’interesse e l’attenzione sull’esistenza di oggetti volanti non identificati e possibili incontri con forme di vita extraterrestri continuano a crescere sia all’interno del governo che tra il pubblico americano. Il futuro potrebbe portare a nuove scoperte e
I Pirati della Mauritania
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📌 Nave Vespucci sta navigando a largo delle coste della Mauritania con destinazione Dakar (Senegal)
Sulla rotta è presente un discreto traffico di mercantili che navigano lungo la costa in direzione Nord e Sud e di pescherecci intenti ad operare più vicino alla costa. Le coste della Mauritania quasi coincidono con il grande rigonfiamento dell’Africa occidentale: tra i due promontori prominenti di Cap Blanc (nell’immagine l’omonimo faro) e di Cap Vert in Senegal (Dakar). Gli esploratori europei le chiamarono rispettivamente “capo bianco” per le sue sabbie desertiche e “capo verde” per la vegetazione che si comincia ad intravedere più a Sud. Capo Bianco è una lunga penisola sabbiosa che ripara la Baie de Nouâdhibou, l’unico porto naturalmente protetto della costa mauritana. Il faro si trova vicino alla punta di questa penisola.
La caratteristica degna di nota di questa costa è la piattaforma continentale che si estende in mare per circa 50 miglia e ha una profondità molto ridotta.
I PIRATI Lungo la costa africana occidentale esiste una concreta possibilità di imbattersi nei pirati.yÿÿyĝñññ Si tratta dei moderni pirati che operano generalmente con piccole imbarcazioni veloci puntando per lo più le navi da carico e in alcuni casi gli yacht. Lo scopo non è quello di fare bottino ma sequestrare letteralmente l’intera nave per poi chiedere un riscatto. La nostra nave, però, non passerà vicino alle zone in cui, di recente, sono state segnalate minacce. Tuttavia continuerà a tenere d’occhio i report forniti dall’ IMB PRC (International Maritime Bureau Piracy Reporting Center), un’agenzia che offre un servizio 24 ore su 24 aggiornando in tempo reale la mappa degli episodi di pirateria in tutto il mondo.
Cieli sereni PG
“Barbie di Greta Gerwig: Un Manifesto Femminista Con Sfumature di Rosa”
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di Redazione Online_
Barbie di Greta Gerwig è finalmente arrivato al cinema a partire dal 20 luglio, colorando il mondo di rosa e suscitando grande interesse, meme e una vasta campagna pubblicitaria.
Ora, vale la pena affrontare questa osannata pellicola dopo tutta questa attesa?
Se siete appassionati della celebre bambola, probabilmente sì. Tuttavia, se vi aspettate una commedia spensierata e divertente, potreste rimanere delusi, forse anche un po’ arrabbiati.
La sceneggiatura, creata da Greta Gerwig e Noah Baumbach, moglie e marito, è piena di amore per i dettagli, generando situazioni paradossali e battute perfette per diventare virali.
Gli attori, sia i protagonisti Margot Robbie (Barbie) e Ryan Gosling (Ken), sia i comprimari come Allan (interpretato da Michael Cera) e Gloria (interpretata da America Ferrera), offrono delle interpretazioni magistrali.
Tuttavia, ciò che potrebbe essere problematico è la satira sociale che permea l’intero film. Scherzando si può dire tutto, anche la verità, ma nutriamo qualche dubbio sul fatto che il mondo sarebbe migliore senza gli uomini.
Questa fragilità sottostante permea l’intera narrazione.
Barbie è un film in cui gli uomini sono rappresentati come i villain, non perché commettano azioni malvagie oggettivamente, ma semplicemente perché sono uomini. Nel “perfetto” mondo di Barbieland, tutti i Ken (chiamati tutti con lo stesso nome, ovvero Ken) sono considerati degli imbecilli buoni a nulla.
All’inizio, questa rappresentazione può risultare divertente, ma a lungo andare diventa stancante.
Mentre Barbie ricopre ruoli come presidente, medico, netturbina, astronauta e vincitrice di un Premio Nobel, Ken si riduce alla semplice definizione di “spiaggia”, credendo persino che sia un lavoro. Ken è solo muscoli, birra e risse, non sa fare altro. Non ha nemmeno una casa, o se l’ha, nessuno ha mai pensato a dove possa abitare. È praticamente insignificante.
D’altro canto, tra le Barbie, il supporto reciproco è sempre al massimo livello.
Fatta eccezione per Barbie Stramba, che ha perso la sua bellezza a causa di un passato difficile, e Barbie incinta, considerata una sorta di paria da tutte a causa della sua pancia.
Quando la bravissima Margot Robbie, nei panni di Barbie Stereotipo, si trova a fronteggiare una crisi di nervi insospettabile nonostante la sua vita apparentemente perfetta, è costretta a fare un viaggio nel mondo reale insieme a Ken, che la corteggia da sempre e lei tratta con nonchalance e sorrisi sublimi.
Nel mondo reale, entrambi si confrontano con il patriarcato. Questa esperienza è una pessima notizia per lei, ma per lui è un risveglio dell’anima, finalmente capisce di poter essere qualcosa di più, o addirittura di poter comandare.
Con l’aiuto di due donne umane, una madre e sua figlia, Barbie torna nel suo universo con un forte mal di testa e si trova costretta ad affrontare il temibile “patriarcato”.
Ne scaturisce una guerra tra maschi e femmine, in cui i primi sono rappresentati come stupidi e le seconde come estremamente intelligenti, per natura. Non c’è animosità né rivalità tra le donne, che siano bambole o umane, si sostengono sempre a vicenda.
Non vedremo mai attriti tra Barbie veterinaria e Barbie surfista californiana, perché il vero nemico è l’uomo.
Il messaggio del film, al di là della trama, sembra essere: aspirate a essere “donne ordinarie, felici di arrivare a fine giornata, possibilmente da sole e senza la zavorra di un Ken tra i piedi”.
Barbie va oltre l’esagerazione tipica della satira e promuove la grande, grandissima solitudine come unico modello di vita vincente.
Questa solitudine estrema, quasi aggressiva, mira a sopprimere qualsiasi relazione sentimentale in nome di un bene più grande: combattere il patriarcato.
E per farlo, bisogna combattere contro tutti gli uomini, illuderli, ingannarli e considerarli poco più che accessori decorativi, spesso fastidiosi e pacchiani, poiché, anche se non se ne rendono conto, sono solo degli inutili imbecilli.
Sia Barbie che Ken cercano il proprio posto nel mondo, uno scopo che li faccia sentire completi. Sarebbe stato bello, e anche utile, se entrambi si fossero aiutati a comprendere quale potesse essere la loro strada, partendo dalla stessa situazione iniziale: entrambi sono bambole, non umani.
Invece, Ken è condannato e Barbie è eletta regina, per nascita.
Barbie rappresenta un manifesto femminista distorto, con l’aggiunta di glitter, battute e canzoncine catchy.
Se cercate di spegnere il cervello per due ore, allora Barbie è sicuramente il film adatto a voi.
Che il “pinkwashing” vi accompagni lieve.
Lunedì 24 luglio 2023 – Nave Vespucci verso Dakar
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Nave Vespucci in navigazione verso Dakar
Come consuetudine, anche ieri, all’ora del tramonto, si è svolta, con l’equipaggio schierato in coperta, la cerimonia dell’ammaina bandiera. Qualcuno, a bordo, ha chiesto al comandante Bitta “Perchè il sole appare schiacciato all’orizzonte ?”
È la RIFRAZIONE ATMOSFERICA che fa deviare la luce dalla sua linea retta di propagazione mentre attraversa l’atmosfera. Ciò è dovuto alla densità dell’aria che varia in base all’altezza: il Sole, quando si trova vicino all’orizzonte, appare più piccolo lungo l’asse verticale, risultando leggermente schiacciato. Lo stesso fenomeno fa sì che appaia un po’ più alto sull’orizzonte rispetto alla realtà con un duplice risultato:
al crepuscolo serale, appare ancora visibile quando, in realtà, è già tramontato sotto l’orizzonte;
all’alba, lo si scorge nascente, quando invece si trova ancora sotto l’orizzonte (Vedi disegno).
Cieli sereni PG
Domenica 23 luglio 2023 – Nave Vespucci sulla rotta di Colombo
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Nave Vespucci ha lasciato le Isole Canarie ed è in rotta verso Dakar (Senegal)
SULLA ROTTA DI COLOMBO Lo stesso avvenne il 6 settembre 1492 quando le Caravelle di Colombo salparono da Las Palmas con destinazione ‘presunta’ le coste orientali dell’Asia. La Niña, la Pinta e la Santa Maria vi erano giunte il 9 agosto, dove approfittarono per terminare l’allestimento delle navi e per reclutare qualche marinaio delle Canarie, noti per la loro destrezza e la conoscenza delle acque.
Il vantaggio di seguire una rotta passando dalle Canarie anzichè puntare subito verso Ponente dalla Spagna, fu quello di evitare l’area di formazione degli uragani: i cicloni tropicali atlantici, infatti, raggiungono la massima frequenza tra agosto e settembre e dopo aver attraversato gran parte dell’Oceano Atlantico alle latitudini equatoriali, tendono a risalire verso nord, non più bloccati dall’azione dell’Anticiclone delle Azzorre, e impattare proprio i Caraibi, meta delle tre caravelle.
Sarà stata la fortuna, oppure un’eccezionale (per quel tempo) conoscenza della meteorologia, ma Colombo non poteva scegliere tempi e modi migliori per il suo viaggio.
CURIOSITÀ Nave Vespucci questa volta scenderà ancora più a Sud: dopo Dakar si spingerà fino a Capo Verde, come fece Cristoforo Colombo nel suo terzo viaggio per le Americhe.
Cieli sereni PG
22 luglio 2023 – Nave Vespucci a Las Palmas. Perché ha lo scafo colorato a fasce bianche e nere?
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Perchè il Vespucci ha lo scafo colorato a fasce bianche e nere?
Lo scafo di Nave Vespucci ha una colorazione a strisce bianche e nere orizzontali, che rievoca il passato, quando i fianchi dei vascelli ottocenteschi mostravano delle fasce bianche in corrispondenza dei ponti di batteria ovvero le due linee di cannoni.
Il Vespucci fu costruito nel 1930 (varato nel 31) ricalcando il modello del Monarca, la nave ammiraglia della Marina delle Due Sicilie, dal quale trasse l’aspetto e molti dettagli tecnici. Il Monarca fu la più grande nave da guerra di tutti gli Stati preunitari d’Italia, anch’esso varato a Castellammare di Stabia nel 1850, quasi 80 anni prima del Vespucci! A quel tempo stava tramontando l’era delle navi a vela e si era già aperta l’epoca dei “vapori”. Così quel veliero, pensato per durare nel tempo, fu progettato in funzione di una successiva integrazione con un apparato motore a vapore (caldaie) e la spinta ad elica, cosa che avvenne nel 1860. Quello stesso anno, con l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, la nave passò nelle mani della marina sabauda; il Monarca fu ribattezzato Re Galantuomo, in onore di Vittorio Emanuele II, e per l’ironia della sorte, le truppe borboniche se lo videro schierato contro durante l’assedio di Gaeta che pose fine al Regno delle Due Sicilie.
Quel veliero fu il modello sul quale si costruì, non solo l’Amerigo Vespucci ma anche il ‘gemello’ Cristoforo Colombo.
Cieli sereni PG
21 luglio 2023 – Nave Vespucci in porto a Las Palmas
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OSSERVARE LE STELLE ALLE CANARIE L’ osservatorio astronomico del Roque de los Muchachos è situato nell’isola di La Palma (la più occidentale delle 7 Isole Canarie). Si tratta di uno dei migliori punti d’osservazione trovandosi in alta quota a 2400 metri. Le particolari condizioni climatiche dell’isola mantengono costantemente le nuvole ad una quota non superiore ai 500 metri sul livello del mare così da bloccare l’inquinamento luminoso dei centri abitati: questo fenomeno è chiamato dai locali Panza de Burro (letteralmente pancia dell’asino), che consente un’osservazione ottimale delle stelle.
LE STELLE CADENTI DEL CIGNO
È da poco passato il novilunio (17 luglio scorso) e pertanto, in assenza del chiarore lunare, sarà possibile osservare le meteore alfa Cignidi, così chiamate perchè il radiante, ovvero il punto da cui sembra che le stelle cadenti partano, è la stella più luminosa (alfa) della costellazione del Cigno, DENEB. Insieme a VEGA (Lira) e ALTAIR (Aquila), questa stella fa parte del grande TRIANGOLO ESTIVO: chiunque può riconoscerlo, con il cielo sereno, proprio sopra la propria testa.
Cieli sereni PG
Giovedì 20 luglio 2023 – Nave Vespucci in porto a Las Palmas, dove c’è il miglior clima al mondo (secondo gli Americani…)
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VIVERE A LAS PALMAS Secondo uno studio condotto da ricercatori di una università statunitense, il clima di Las Palmas, nella maggiore delle isole delle Canarie (Gran Canaria), è il migliore del mondo, con una temperatura media annua che si assesta intorno ai 23°C, che nei mesi freddi raramente scende al di sotto dei 20°C e l’acqua mai sotto i 18°C. Nei mesi più caldi, la temperatura massima è di 28°-30°C per un clima ventilato e secco con pochissime precipitazioni, in media soltanto 22 giorni l’anno.
CURIOSITÀ Quanti italiani vivono alle Canarie?
La nazionalità estera più diffusa tra gli abitanti dell’Arcipelago delle Isole Canarie, è proprio quella italiana, che stacca per numero tutte le altre comunità. Nell’Arcipelago vivono circa 50 mila persone provenienti dall’Italia. 🇮🇹 La seconda comunità è quella proveniente dal Regno Unito 🇬🇧, con 30 mila britannici. Al terzo posto si trova la comunità tedesca 🇩🇪 con 25 mila residenti.
Cieli sereni PG
Mercoledì 19 luglio 2023 – Nave Vespucci è giunta a Las Palmas de Gran Canaria
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Perchè si chiama LAS PALMAS? Las Palmas de Gran Canaria fu fondata nel 1478 dal comandante castigliano Juan Rejon che, giunto sull’isola per sottometterla al controllo spagnolo, creò il suo accampamento recintandolo con tronchi di palme.
Lo stesso Cristoforo Colombo, durante il suo primo viaggio di scoperta del 1492, si fermò a Las Palmas per far effettuare delle riparazioni alla Pinta, e vi fece sosta di nuovo anche durante il viaggio di ritorno in Spagna. A testimonianza del suo soggiorno restano i ricordi conservati nel museo a lui dedicato, la Casa de Colon, che l’ospitò a Vegueta, il barrio storico della città.
CURIOSITÀ Las Palmas de Gran Canaria è gemellata con la città di San Antonio, negli USA, fondata nel 1718 da coloni provenienti dalle Isole Canarie. 🇺🇲🇪🇸
Cieli sereni PG
Martedì 18 luglio 2023 – Nave Vespucci è entrata nelle acque territoriali spagnole diretto a Las Palmas (Isola di Gran Canaria)
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LA BANDIERA DELLE ISOLE CANARIE
È un tricolore bianco, azzurro e giallo che deriva dai vessilli delle città di Santa Cruz de Tenerife (blu e bianco) e di Las Palmas di Gran Canaria (giallo). Inoltre, questi colori sono comuni anche sulle bandiere di tutte e sette le isole Canarie. Al centro è presente uno scudo blu contenente sette isole d’argento, sormontato da una corona e retto da due cani ( Podenco Canario ), una razza autoctona delle Isole Canarie, tra le più antiche esistenti: lo riconducono, addirittura, al cane dei faraoni egizi.
Sopra la corona si legge, in lettere maiuscole, il motto “OCEANO”.
Cieli sereni PG
Lunedì 17 luglio 2023 – Che tipo di veliero è il Vespucci? (che continua la navigazione in Oceano Atlantico verso le Canarie)
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Questa mattina al comandante Bitta è stato chiesto:… che tipo di veliero è il Vespucci ?
Per rispondere è necessario considerare l’ armo che è l’insieme delle attrezzature necessarie alla navigazione: più specificamente il numero degli alberi e la forma delle vele.
Sembra banale ma il Vespucci, per il suo armo velico, è classificato secondo nomenclatura … NAVE, cioè un veliero a tre alberi, tutti armati con vele quadre, più un bompresso, anch’esso considerato un albero, sebbene sia inclinato sulla prua.
Tanto per citare altri tipi di velieri, la NAVE A PALO ha invece quattro alberi, i primi tre armati con vele quadre, mentre il quarto, detto appunto “palo”, ha vele auriche, di forma trapezoidale.
Nella foto in basso a sinistra, si vede la nave a palo HERZOGIN CECILIE, un quattro alberi di costruzione tedesca che prese il nome dalla principessa ereditaria tedesca Duchessa Cecilia di Mecklenburg-Schwerin (1886-1954), moglie del principe ereditario Guglielmo di Prussia (Herzogin in tedesco significa duchessa). Ha navigato sotto bandiera tedesca, francese e finlandese, dal 1902 al 1936
Un altro tipo di veliero è il BRIGANTINO A PALO definito un tre alberi con i primi due alberi armati con vele quadre, il terzo con vele auriche.
Nell’immagine in basso a destra il brigantino a palo ITALIA famoso per il suo rocambolesco naufragio a Tristan de Cunha nel 1892… ma questa è un’altra storia!
Cieli sereni PG
15 luglio 2023 – Nave Vespucci si trova in navigazione sulla latitudine di Casablanca (33° 35′ Nord)
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A Ovest del porto di Casablanca si erge il Faro di EL HANK che porta il nome del punto in cui è stato costruito. È il faro più alto del Marocco! Progettato dall’architetto francese Albert Laprade, famoso per il suo progetto del Palais de la Porte Dorée a Parigi, il faro è in un tipico stile di moschea a forma di minareto. In funzione dal 1920, ha contribuito allo sviluppo e alla sicurezza del porto di Casablanca che precedentemente era considerato molto pericoloso. Il faro è alto 51 m, (quanto l’albero di trinchetto del Vespucci) e ha un diametro alla base di 39 m. È necessario salire 256 gradini per raggiungere la piattaforma superiore.
CURIOSITÀ Il faro può essere avvistato a 30 miglia, circa 55 chilometri!
Cieli sereni PG
14 luglio 2023 – Nave Vespucci sta navigando in Oceano Atlantico di fronte alle coste del Marocco.
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L’Oceano Atlantico prende il nome dal titano ATLANTE, che nella mitologia greca fu costretto da Zeus a tenere sulle spalle l’intera volta celeste per aver organizzato la rivolta, poi fallita, dei Titani contro gli dei dell’Olimpo.
Atlante era anche il re della Mauritania, appassionato studioso di astronomia. Secondo lo storico Diodoro Siculo, il Titano fu il primo a rappresentare il mondo sferico quando tutti gli uomini credevano che la terra fosse piatta e che terminasse alle colonne d’Ercole. Per questo nell’immaginario divenne poi il Titano che trasportava una sfera sulle proprie spalle alludendo alla sua scoperta.
CURIOSITÀ La prima vertebra della spina dorsale si chiama Atlante proprio perché sorregge il cranio, così come il Titano sorreggeva la sfera celeste.
Nell’immagine si vede l’ Atlante Farnese conservato al Museo Archeologico di Napoli.
Cieli sereni PG
LE SCIMMIE A GIBILTERRA ? 🐒
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Le Bertucce di Gibilterra sono l’unica popolazione di scimmie selvatiche in Europa. Sono Macachi di Barberia (Macaca sylvanus), note anche come Macachi di Gibilterra; I locali le chiamano monos, “scimmie” in Llanito. Il Llanito è il dialetto creolo parlato a Gibilterra. È la terza lingua dopo l’inglese (ufficiale) e lo spagnolo ed è parlata da circa 20mila persone.
CURIOSITÀ Sono considerate il simbolo del Territorio, che fino a pochi anni fa aveva proprio questo animale stampato sulla moneta da 5 pence.
Cieli sereni PG
(We are not) California dreamin’…
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…che Mediterraneo sia!
12 luglio 2023 – Nave Vespucci in navigazione nel Mare di Alboran
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Il Vespucci, diretto a Las Palmas, in questo momento si trova in navigazione nel MARE DI ALBORAN
Questa parte del Mediterraneo è attraversata sia da correnti profonde provenienti da Est, che portano l’acqua più salata del Mediterraneo nell’ Oceano Atlantico, sia dalle correnti superficiali che si muovono in senso contrario. Il risultato di questo scambio è la presenza di movimenti circolari delle masse d’acqua.
Essendo una zona di transizione fra il Mediterraneo e l’Atlantico, questo mare ospita specie caratteristiche delle due zone: notevole la presenza di tursiopi 🐬, oltre che di focene, l’ultima popolazione del Mediterraneo. Inoltre qui vengono a nutrirsi le tartarughe marine dell’intero Mediterraneo, attratte dall’abbondante cibo a disposizione.
Questo mare prende il nome dall’ ISOLA di ALBORAN che fa parte del territorio della Spagna (distante 90 km) nonostante sia più vicina alle coste settentrionali del Marocco (50 km). Per questo è tuttora rivendicata dallo stato africano. Possedimento spagnolo fin dal 1540, a sua volta deve il nome al pirata tunisino Al Borani, che aveva una base sull’isola. Per la sua posizione strategica, nel 1960 alcune navi da pesca sovietiche tentarono di installare una base sull’isola. Il regime franchista reagì inviando una guarnigione della marina militare, che ancora oggi costituisce l’unico insediamento presente su Alborán. L’isola ospita alcune costruzioni: un faro, la casa abbandonata del guardiano del faro, un eliporto, due moli e un campo di calcio;
CURIOSITÀ Sorprendentemente c’è anche un cimitero con tre tombe. Due delle sepolture sono della suocera e della moglie di un guardiano del faro, decedute rispettivamente nel 1910 e 1920. La terza tomba non ha nome, ma secondo alcune fonti si tratta di un aviatore tedesco della seconda guerra mondiale restituito dal mare dopo l’abbattimento del suo velivolo e la conseguente morte.
Cieli sereni PG
11 LUGLIO – GIORNATA DELLA POPOLAZIONE MONDIALE
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L’ 11 LUGLIO si celebra la giornata della popolazione mondiale, una ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 1989 per attirare l’attenzione sull’aumento della popolazione mondiale e sull’effetto che questo incremento sta esercitando sulle disuguaglianze, sul clima e sul pianeta. Secondo una stima ufficiale delle Nazioni Unite, all’inizio del 2023 la popolazione mondiale ha raggiunto gli 8 miliardi (!). Nessuno può sapere con esattezza l’ammontare della popolazione, il cui valore reale è compreso, presumibilmente, in una forchetta di più o meno 100 milioni rispetto alle stime.
Ma il punto è che, mese più mese meno, il dato è impressionante, se si pensa che eravamo 4 miliardi nel 1974, 7 miliardi nel 2011 e, secondo l’ONU, potremmo essere 10 miliardi nel 2050. Un trend frutto dei progressi della medicina, innanzitutto, e del relativo miglioramento delle condizioni di vita.
CURIOSITÀ Si è calcolato che ogni 24 ore nascono in media 237mila bambini (uno ogni 2,7 secondi) e che muoiano 140mila persone, dunque sulla Terra ogni giorno ci sono 97mila persone in più (4mila in più ogni ora…!) 🕑
Cieli sereni PG
11 luglio 2023 – Nave Vespucci attraversa il Meridiano di Greenwich (o “Meridiano zero”)
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Nave Vespucci, in navigazione lungo le coste spagnole, la scorsa notte ha attraversato, da Est ad Ovest, il Meridiano di Greenwich conosciuto anche come “meridiano zero”. La Nave rimarrà nell’Emisfero Ovest fino all’attraversamento dell’ ‘antimeridiano di Greenwich’ previsto per il prossimo anno in navigazione nell’ Oceano Pacifico.
Questa linea immaginaria che unisce il Polo Nord e il Polo Sud, è l’origine da cui si traggono le unità di misura delle distanze in mare ed è il riferimento dei tempi: è così chiamato perché attraversa il Royal Observatory di Greenwich (Londra) e passa per otto Paesi: Regno Unito, Francia, Spagna, Algeria, Mali, Burkina Faso, Togo, Ghana.
CURIOSITÀ La Spagna, essendo attraversata dal meridiano di Greenwich, dovrebbe utilizzare l’orario del fuso in vigore in Irlanda e Regno Unito, quindi un’ora meno che in Italia. Vige, invece, lo stesso orario di Roma e degli altri paesi dell’Europa centrale. Questa ‘anomalia’ è dovuta ad una modifica che risale alla dittatura di Franco, ed è all’origine degli orari “ritardati” che caratterizzano i ritmi di vita del Paese: gli orari dei pasti sono spostati in avanti così come l’apertura dei commerci o degli uffici.
IL RECORD DEL TRAMONTO TARDIVO. L’anomalia della Spagna in tema di orari è massima il giorno del solstizio d’estate, quando il ritardi dell’ora del tramonto tocca il suo record annuale.
In Galizia, la regione situata nell’estremo nord-occidentale della Spagna, proprio sopra il Portogallo (paese che invece utilizza il fuso irario di Londra), il 21 giugno, il Sole tramonta ben oltre le 22.00. A Santiago de Compostela, importante meta per i camminatori del Camino de Santiago, avviene alle 22.16. Ma La Coruña li batte tutti, con il tramonto alle 22.19 !
Cieli sereni PG Grazieee🫡
10 luglio 2023 – Nave Vespucci sta navigando nel Mare delle Baleari
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È uno dei mari in cui è suddiviso convenzionalmente il Mediterraneo. È delimitato a nord dalla Spagna e dalla Francia e a sud dalle Isole Baleari. Non si è certi dell’origine del toponimo ma potrebbe derivare dal greco βαλλω, (bállō) ovvero gettare (pietre o giavellotti). Nelle Isole Baleari, infatti, era nota l’abilità degli abitanti nell’arte di lanciare pietre con le fionde. Quegli ottimi frombolieri, descritti anche dagli storici antichi, venivano utilizzati come mercenari da Greci, Punici e Romani. Da ciò deriva anche la parola balistica, la scienza che studia il moto dei proiettili.
COSA ACCADDE OGGI ?
10 LUGLIO 1658 Nasce a Bologna Luigi Ferdinando MARSILI che è stato uno scienziato, militare, geologo e botanico italiano
A Bologna creò una Camera di Geografia e Nautica dell’antico Istituto delle Scienze, una delle più antiche accademie scientifiche italiane tuttora esistenti. La produzione consisteva in varie tipologie di carte geografiche e nautiche, alcune delle quali incise su rame e decorate con motivi floreali e allegorici. Notevole la pregiatissima collezione di modelli di navi dei sec. XVII e XVIII, realizzati in scala dagli stessi cantieri che varavano le navi.
Sembra che l’Istituto raccogliesse questi modelli di vascelli e galere per conoscere i segreti tecnici della potenza marittima, militare e commerciale di nazioni come la Francia o l’Inghilterra.
In suo onore, è chiamato il più grande vulcano sottomarino europeo: il Monte Marsili che sorge nei fondali del Mar Tirreno.
Cieli sereni PG
ACCADDE OGGI – 9 LUGLIO 1958 – IL PIÙ GRANDE TSUNAMI DELL’ EPOCA MODERNA
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IL PIÙ GRANDE TSUNAMI DELL’ EPOCA MODERNA
Il 9 Luglio del 1958 un gigantesco Tsunami si abbattè nella Lituya Bay (Alaska) a causa della caduta, all’interno della baia, di una colossale frana staccatasi dalle pendici Monte Crillon al seguito di un violentissimo terremoto.
Caddero in mare qualcosa come 30 milioni di metri cubi di roccia che spostarono all’istante un immenso quantitativo di acqua producendo la colossale onda di tsunami.
L’altezza massima dell’onda fu determinata osservando la vegetazione che sul versante opposto a quello della frana fu cancellata completamente fino ad un altezza di 525 metri (!), tale quindi fu l’altezza massima raggiunta dall’acqua che poi si diresse all’interno della baia con un’onda alta circa 200 metri. Quest’onda fu affrontata da tre piccole imbarcazioni che si trovavano all’interno della baia. Una delle tre fu spazzata via mentre le altre due riuscirono a salvarsi cavalcando l’onda. I superstiti raccontarono di una vera e propria montagna d’acqua che si diresse verso di loro ad una velocità impressionante.
È sicuramente l’evento di questo tipo di maggiore portata che sia mai stato registrato e direttamente osservato nel 20° secolo. L’evento di Lituya Bay dimostra che i megatsunami esistono e sono possibili come causa di eventi franosi eccezionali o di caduta di asteroidi. Per questo ultimo caso è stato calcolato che un asteroide del diametro di 1 km che viaggia a 25-30 km al secondo, se impattasse nell’Oceano, potrebbe generare uno tsunami con un’onda di 300-800 metri, destinato poi ad arrivare nell’entroterra per migliaia di km.
Cieli sereni PG
VENERE, la prima “stella” della sera…o del mattino?
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Nave Vespucci è in navigazione di fronte alle coste catalane all’altezza di Barcellona.
A bordo qualcuno si sta ancora domandando che cosa era quel punto luminosissimo visibile al tramonto di ieri sera sull’orizzonte di Ponente. (Vedi foto)
Si trattava di VENERE che in questi giorni è al massimo della sua luminosità. Lo è stato esattamente venerdì scorso, 7 luglio, quando ha brillato sopra l’orizzonte subito dopo il tramonto come l’oggetto più luminoso in quella direzione (e in tutto il cielo). Per chi non ha avuto l’opportunità di vederlo, il pianeta rimarrà comunque molto luminoso anche al tramonto dei prossimi giorni di metà luglio. Poi lo sarà di nuovo a settembre, ma all’alba sull’orizzonte di Levante!
CURIOSITÀ Venere può essere osservato o come “stella della sera” (il caso di questi giorni) o come “stella del mattino”. In altre parole, o dopo il tramonto del Sole oppure prima dell’alba, con un’alternanza di circa 10 mesi.
PERCHÈ? Venere gira attorno al Sole su un’orbita interna alla nostra, e pertanto, vedendolo noi “da fuori”, con il Sole al centro, il pianeta si trova da una parte o dall’altra del Sole, ma mai più lontano di un angolo di 45°.
Un arco di 45 gradi, nella volta celeste, corrisponde a tre ore in termini di movimento (relativo) degli astri e pertanto Venere possiamo vederlo tramontare non più di tre ore dopo il Sole oppure sorgere non più di tre ore prima. L’ altro pianeta “inferiore” (cioè con orbita interna a quella della Terra) è Mercurio: questo, dal Sole, può allontanarsi al massimo di 25°, rimanendo quindi visibile, sempre e solamente, o al crepuscolo serale (1h e 30m dopo il tramonto) o a quello mattinale (1h e 30m prima dell’alba) .
Cieli sereni PG
IL GOLFO DEL LEONE – DALL’ OBLÒ DEL COMANDANTE BITTA
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8 luglio 2023 Nave Vespucci, dopo aver lasciato il porto di Marsiglia, si trova in navigazione nel Golfo del Leone
Si tratta della grande insenatura nella costa Sud della Francia, che va da Tolone fino al confine con la Spagna. (Vedi figura). La sua posizione geografica e i rilievi fanno confluire correnti d’aria che generano il caratteristico vento da Nord Ovest, il MISTRAL, che può alzare sul mare onde e venti tra i più temibili del Mediterraneo (tempeste note sotto il nome di lionate).
PERCHÈ SI CHIAMA GOLFO DEL LEONE ? 🤔
Il Golfo del Leone ha avuto nomi diversi nel corso della storia. Durante l’antichità, il nome prevalente era quello di Mare Gallicum (“mare dei Galli”). Nel Medioevo poi comparve l’attuale nome “Golfo del Leone” per le cui origini ci sono due ipotesi.
La prima è che il nome derivi dal confronto con un leone: questa parte di mare è pericolosa quanto il grosso felìde per i forti e improvvisi venti sopra accennati che minacciano le barche dei marinai e dei pescatori.
La seconda ipotesi è suggerita dal fatto che il picco di Saint-Loup, situato all’estremità meridionale del Massiccio Centrale, dietro la costa, ricorda, come profilo, un leone sdraiato: inconfondibile punto di riferimento per chi osserva da una barca entrando nel golfo.
Cieli sereni 🦁 PG
DALL’ OBLÒ DEL COMANDANTE BITTA – 7 luglio 2023: “IL” VESPUCCI ORMEGGIATO IN PORTO A MARSIGLIA
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[Foto L. Esposito]
CURIOSITÀ Si dice ” la Vespucci è ormeggiata” o ” il Vespucci è ormeggiato”? 🤔
Le unità della Marina Militare vengono declinate al maschile secondo un’ antica tradizione per la quale le navi armate erano definite come “REGIO LEGNO” oppure, come “VASCELLO”. Come per intendere “il regio legno” (o “il vascello) Vespucci.
Sotto il Regno d’Italia, l’appellativo aveva cambiato genere essendo le unità definite come “Regia Nave” (RN) ma, ritornando ai nostri giorni, si usa dire correntemente, ” il Vespucci” così come ” il Cavour”, ” il San Giorgio”, ecc..
PERCHÈ SI DICE “ORMEGGIARE” ?
È un termine che deriva dal greco ὁρμίζω (ormízo), che a sua volta viene da ὅρμος (ormos) [rada, luogo per ancorare]. Si intende assicurare una nave, o un’imbarcazione in genere, a un punto fermo con mezzi di ritenuta (ancore, catene, cavi fra nave e bitte a terra, fra nave e boa, ecc.) per mantenerla in posizione prestabilita, contro l’azione del mare e del vento. [Treccani].
Mentre per il diporto e per le unità militari, si parla comunemente di ORMEGGIARE, esiste un sinonimo, ATTRACCARE, più diffuso nella marina mercantile.
Cieli sereni PG
LO SPRAY DI JOSHUA SLOCUM – 3 LUGLIO 1898
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Dopo 46.000 miglIa di navigazione si conclude a Fairhaven, nel Massachusetts, la prima circumnavigazione del globo in solitaria da parte di Joshua Slocum e del suo Spray. Era partito più di 3 anni prima da Boston, il 24 aprile 1895. Lo Spray era un’imbarcazione costruita nel 1801 armata dapprima a sloop e successivamente a yawl, originariamente adibito alla pesca delle ostriche, di 11,20 m di lunghezza fuori tutto. Anch’esso costituisce una leggenda come il suo costruttore, armatore ed unico membro di equipaggio, il Capitano Joshua Slocum. L’impresa è raccontata nel libro “Solo, Intorno Al Mondo”. La morte del capitano Slocum è avvolta nel mistero: il 14 novembre 1909 Slocum salpò con lo Spray per le Indie Occidentali per uno dei suoi soliti viaggi invernali; avrebbe esplorato i fiumi Orinoco, Rio Negro e Rio delle Amazoni. Non arrivò mai, e né Slocum né lo Spray furono più ritrovati.
CURIOSITÀ Nonostante fosse un marinaio esperto, Slocum non sapeva nuotare: considerava inutile imparare a nuotare.
Cieli sereni PG
LA LUNA DEL CERVO
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3 luglio 2023 Continua navigazione di Nave Vespucci verso Marsiglia, nelle acque a Sud della Francia
Oggi, alle ore 13:40 ora italiana, la Luna raggiungerà il plenilunio. Quasi allo stesso tempo transiterà anche nel punto più vicino alla Terra (Perigeo) e sarà dunque la prima Superluna dell’anno: apparirà più grande del 6% circa e più luminosa del 12% rispetto a una normale luna piena.
Spesso però capita di ammirare una Luna piena più grande, ma non perchè è più vicina alla Terra. In quel caso si tratta di un’illusione ottica, detta “illusione lunare”: il disco lunare sembra più grande quando sorge o cala facendo da sfondo ad un panorama come montagne, colline o manufatti (navi o costruzioni).
La Luna piena di luglio è chiamata tradizionalmente la LUNA DEL CERVO perchè legata ad un determinato evento stagionale: è il mese in cui le corna dei cervi finiscono la loro crescita e raggiungono la massima lunghezza. Non è però il solo nome: secondo altre leggende la Luna di luglio viene chiamata anche Luna dei Temporali, perché frequenti in questo periodo. Per i cinesi è la Luna del fantasma affamato e per i Celti la Luna della rivendicazione (Moon of Claiming). I Cherokee la chiamavano Luna del mais maturo (Ripe Corn Moon) e infine, nell’emifero australe dove in questo periodo è inverno, Luna di ghiaccio.
Cieli sereni PG
DALL’OBLÒ DEL COMANDANTE BITTA – IL PRINCIPATO DI MONACO
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Domenica 2 luglio 2023 Nave Vespucci, in navigazione verso Marsiglia, ha da poco attraversato le acque del PRINCIPATO DI MONACO
PERCHÈ SI CHIAMA PRINCIPATO DI MONACO?
Si tratta di uno degli Stati più antichi del mondo: esiste, in maniera continuativa, dalla fine del XIII secolo; la sua origine si fa risalire generalmente all’iniziativa di Francesco Grimaldi, un nobile guelfo genovese che s’impadronì con destrezza di un castello ivi edificato, di proprietà di un rivale ghibellino; avendo compiuto tale impresa introducendosi nel maniero travestito da monaco, la circostanza diede anche il nome alla signorìa che ne sorse e che poi divenne Stato.
È il paese più stretto del mondo, con una larghezza che varia dai 350 ai 1.700 metri ed è il secondo Paese più piccolo del mondo, con soli 202 ettari di territorio. È tra gli Stati più densamente popolati del mondo.
LA BANDIERA 🇲🇨
La bandiera di Monaco, rossa e bianca, venne decisa nel 1881 dal fondatore di Monte-Carlo, il Principe Carlo III. Questi colori sono per tradizione quelli della famiglia Grimaldi. Si dice che prendano le mosse dalla Repubblica di Genova mentre in un’altra versione più poetica, il rosso rappresenterebbe il sangue della Patrona, Santa Devota.
Cieli sereni PG
L’ OBLÒ DEL COMANDANTE BITTA – GENOVA, LA CROCE DI SAN GIORGIO.
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Il comandante Bitta è un curioso e stravagante personaggio uscito dalla penna di Paolo Giannetti (PG), che “osserva” dal suo “oblò virtuale” di Nave Vespucci i porti visitati e le rotte percorse cercando le risposte a quesiti su chi, che cosa, dove, come, quando e perchè… . Gli anedotti e le curiosità possono riguardare il mare, la navigazione, la meteorologia, l’astronomia e altro.
Genova 1 luglio 2023 Partenza di Nave Vespucci per il Tour Mondiale 2023-2025.
LA CROCE DI SAN GIORGIO Nello stemma della Marina Militare, il ‘secondo quarto’ (chiamato in araldica il cantone sinistro del capo) è occupato dalla Croce di San Giorgio, simbolo di Genova, potente Repubblica Marinara, che iniziò ad usarla nell’alto medioevo. In quel periodo storico, la “Superba” partecipava attivamente alle Crociate: la leggenda narra che, durante una cruenta battaglia per la presa di Gerusalemme (nel 1099), il Santo apparve per incitare alla vittoria le truppe cristiane. Da quel momento Genova adottò ufficialmente la croce di S. Giorgio come proprio vessillo 🏴. La croce della Repubblica di Genova fu in seguito adottata altrove in Italia e nel mondo.
Cieli sereni PG
OGGI 1° LUGLIO…”GIRO DI BOA” DI METÀ ANNO!
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Oggi 1º luglio siamo al 182º giorno dell’anno. Questa notte, appena passata la mezzanotte, mancheranno altrettanti giorni alla fine dell’anno.
Cieli sereni PG
30 GIUGNO – GIORNATA MONDIALE DEGLI ASTEROIDI
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Il 30 giugno si celebra la Giornata Mondiale degli Asteroidi (Asteroid Day) che fu istituita nel 2014 per far conoscere il ruolo degli asteroidi nella formazione del nostro sistema solare, l’ eventuale sfruttamento delle risorse che forniscono, come possono aprire la strada a future esplorazioni e infine come sia possibile proteggere il nostro pianeta dagli impatti.
COSA È UN ASTEROIDE? Come premessa ricordiamo la definizione di “pianeta” come ‘corpo freddo (senza luce propria) che orbita intorno al Sole’. Oltre agli 8 pianeti più noti, rientrano in questa definizione molti altri corpi celesti più piccoli, anch’essi orbitanti intorno al Sole. Questi “pianetini” sono denominati ASTEROIDI (nello spazio ne sono stati contati circa trecentomila) e tra i più grandi conosciamo Cerere (950 km di diametro), Vesta e Pallade (circa 500 km). [Vedi immagini in scala con la Terra]. Questi pianetini più grandi hanno forma quasi sferica, mentre quelli di diametro inferiore possono avere forme irregolari. La maggior parte di loro ruota attorno ad un proprio asse, e le “giornate” (un giro completo) durano tra le 5 e le 20 ore.
La data del 30 giugno è stata scelta per ricordare l’anniversario del più importante evento esplosivo naturale registrato nella storia recente della Terra: l’impatto avvenuto quel giorno di 115 anni fa (nel 1908) a Tunguska in Siberia.
Cieli sereni PG
29 GIUGNO – LA BARCA DI SAN PIETRO
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Quando eravamo piccini il nostro babbo, la sera del 28 giugno ci faceva “la barca di San Pietro”. Per noi era una magia; non si capiva cosa fosse né come lui riuscisse a fare questa cosa strana e misteriosa.
LA TRADIZIONE Per la festività dei SS Pietro e Paolo si era soliti riempire un recipiente di acqua e immergervi un albume di uovo. Il contenitore doveva essere lasciato per tutta la notte tra il 28 e il 29 giugno all’aperto, su un prato, o su un davanzale. Il giorno seguente l’albume aveva le sembianze delle vele di una nave, generata proprio dal “soffio” di San Pietro. La tradizione vuole che questa trasformazione avvenga solo ed esclusivamente in quella notte e, a seconda di come apparivano le vele, si poteva capire se il raccolto sarebbe stato abbondante o meno. I contadini capivano dalla forma delle vele anche le condizioni del tempo: vele aperte significavano bel tempo e caldo, vele chiuse l’arrivo della pioggia.
Oggi, dopo tanti anni, manteniamo viva la tradizione che il babbo e, prima di lui, il nonno e il babbo del nonno, ci hanno tramandato: abbiamo voluto ripetere ancora una volta quello che loro facevano e questa mattina abbiamo trovato questa (vedi foto).
Auguri a Pietro, a Paolo, a Piera, a Paola, e a tutti coloro che si chiamano con nomi composti da questi. 😇
Cieli sereni PG
ACCADDE OGGI – 27 GIUGNO 1974
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Il SAN GIUSEPPE II rientra ad Anzio al termine della prima spedizione italiana in Antartide. Si tratta di una feluca di 16 metri dotata di due vele latine, fiocco, controfiocco e trinchetta condotta dal comandante Giovanni Ajmone-Cat con un equipaggio formato da quattro Sottufficiali della Marina Militare Italiana.
La spedizione, dagli scopi puramente scientifici e supportata dalla Marina Militare italiana, era partita da Torre del Greco (NA) il 1° luglio 1973 e furono percorse, in quasi un anno, più di 20.000 miglia.
Sul “San Giuseppe II” la navigazione antartica venne compiuta con le tecniche veliche e marinaresche tradizionali non essendoci stato montato nemmeno il radar.
PERCHÈ SAN GIUSEPPE II ? Il comandante Ajmone Cat le diede il nome “San Giuseppe Due” in onore della goletta “San José” a bordo della quale il tenente di vascello Giacomo Bove, nel 1882, raggiunse Ushuaia nei cui pressi naufragò nel tentativo di raggiungere l’Antartide.
CURIOSITÀ Gli enti cartografici che mappano il territorio antartico britannico, hanno denominato il lago posto all’interno di Deception Island, nelle Isole Shetland meridionali, con il nome di Ajmonecat Lake.
Cieli sereni PG
25 GIUGNO – GIORNATA MONDIALE DELLA GENTE DI MARE
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Il 25 GIUGNO è la Giornata Mondiale della Gente di Mare ( Day of Seafarer ).
La Giornata è stata scelta dall’International Maritime Organization (IMO) in riconoscimento del contributo dei marittimi al commercio internazionale, all’economia mondiale ed alla società civile nel suo complesso e per i rischi e i costi personali che sostengono durante il lavoro. Secondo le stime dell’IMO, le navi trasportano quasi il 90% del commercio mondiale di merci: molti degli oggetti e dei prodotti che usiamo e consumiamo quotidianamente arrivano grazie al lavoro di marinai e marittimi.
Cieli sereni PG
24 GIUGNO – LA CROCE DI SAN GIOVANNI
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LA CROCE DI SAN GIOVANNI Lo stemma della Marina Militare italiana è composto da uno scudo diviso in quattro quarti, ognuno dei quali rappresenta il blasone di una repubblica marinara. In basso a sinistra è presente la cosiddetta croce di Amalfi o croce di Malta, nota anche come croce di San Giovanni che fu il simbolo della repubblica di Amalfi. Fu adottata nel 1126 da un gruppo di monaci guidato da Frà Gerardo Sasso, nativo di Scala di Amalfi, benedettino dell’Abbazia di Cava, che presero a occuparsi delle sofferenze dei pellegrini sulle vie della Terra Santa. Si trattava dell’ Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni.
Le punte della croce rappresentano le 8 più importanti virtù cristiane:
Lealtà Pietà Franchezza Coraggio Gloria ed onore Disprezzo per la morte Solidarietà verso i poveri ed i malati Rispetto per la Chiesa
Altre fonti riportano che le 8 punte sono il riferimento agli 8 princìpi che dovevano rispettare gli antichi cavalieri:
Cieli sereni e Buon Onomastico a tutti i GIOVANNI e ai GIANNI !
PG
21 GIUGNO 2023 “SOLSTIZIO D’ESTATE”. Il giorno più lungo dell’anno?…a Venezia, un pò di più! ;-)
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È OGGI IL GIORNO PIÙ LUNGO DELL’ ANNO ?
Oggi 21 giugno alle 17 circa (ora italiana) cade il SOLSTIZIO che per il nostro emisfero segna l’inizio dell’ESTATE. Teoricamente è il DÌ PIÙ LUNGO DELL’ ANNO (…e ovviamente la notte più corta); Il Sole, al mezzodì, raggiungerà, il punto più alto di tutto l’anno e in Italia avremo circa 15 ore di luce. Gli orari del sorgere e del tramonto del Sole variano ovviamente da luogo a luogo: cercando di seguito la città più vicina a noi possiamo conoscerne più precisamente gli orari e scoprire che oggi…NON è ovunque il giorno più lungo dell’anno.
A GENOVA il Sole oggi è sorto alle 05:40 e tramonterà alle 21:12 (15 ore e 32 minuti di insolazione). L’alba ha già cominciato a ‘ritardare’, togliendo minuti di luce, già dal 19 giugno scorso mentre il ‘ritardo’ del tramonto del Sole (che ‘aggiunge’ luce) si protrarrà ancora fino al 3 luglio. Il bilancio è tale che a GENOVA (udite udite!) il SOLSTIZIO di oggi NON È IL DÌ PIÙ LUNGO dell’anno perchè il massimo di 15 ore e 33 minuti di luce (un minuto in più di oggi… ) si raggiungerà domani 22 e ancora per 3 giorni fino 24 giugno!
A ROMA il Sole oggi è sorto alle 05:35 e tramonterà alle 20:48 (15 ore e 13 min di insolazione). L’alba ha già cominciato a ‘ritardare’ giornalmente (a ‘togliere’ minuti di luce) già da lunedì scorso 19 giugno mentre il ‘ritardo’ del tramonto (‘aggiunta’ giornaliera di ulteriori minuti di luce) si protrarrà ancora fino al 2 luglio. Il bilancio è che i giorni più lunghi, con un massimo di 15 ore e 13 minuti di luce saranno ben undici, dal 17 al 27 giugno.
A VENEZIA il Sole oggi è sorto alle 05:22 e tramonterà alle 21:03 (15 ore e 41 min di insolazione). L’alba, già da oggi, comincia a ‘ritardare’ ( a ‘togliere’ luce) giorno dopo giorno, mentre il ‘ritardo’ del tramonto del Sole (‘aumento’ giornaliero di luce) si protrarrà ancora fino al 30 giugno. Il bilancio è che i giorni più lunghi, con un massimo di 15 ore e 41 min di luce, sono ben dieci a cavallo del solstizio e precisamente dal 18 al 27 giugno.
A PALERMO il Sole oggi è sorto alle 05:44 e tramonterà alle 20:34 (14 ore e 50 min di insolazione). L’alba comincerà a ‘ritardare’ (e quindi a ‘togliere’ minuti di luce) da domani 22 giugno mentre il ‘ritardo’ del tramonto del Sole (‘aggiunta’ giornaliera di ulteriori minuti di luce) si protrarrà ancora fino al 3 luglio. Il bilancio è che i giorni più lunghi con un massimo di 14 ore e 50 min di luce sono 6, da ieri 20 e fino al 25 giugno.
A BRINDISI il Sole oggi è sorto alle 05:17 e tramonterà alle 20:22 (15 ore e 5 minuti di soleggiamento). L’alba comincerà a ‘ritardare’ (e quindi ‘togliendo’ minuti di luce) dal prossimo 24 giugno mentre il ‘ritardo’ del tramonto del Sole (‘guadagnando’ minuti di luce) si protrarrà ancora fino al 5 luglio. Il bilancio è tale che a BRINDISI, come a Genova, IL SOLSTIZIO NON È IL GIORNO PIÙ LUNGO dell’anno, perchè il massimo di 15 ore e 6 minuti di luce (un minuto in più di oggi… ) si raggiungerà domani 22 e dopodomani 23 giugno!
A LIVORNO il Sole oggi è sorto alle 05:36 e tramonterà alle 21:03 (15 ore e 27 min di insolazione). L’alba inizia oggi a ‘ritardare’ (e quindi a ‘perdere’ minuti di luce) mentre il ‘ritardo’ del tramonto del Sole (‘guadagno’ di minuti di luce) si protrarrà ancora fino al 4 luglio. Il bilancio è che i giorni più lunghi con un massimo di 15 ore e 27 min di luce sono 7 dal 19 al 25 giugno.
Considerando i valori minimi e massimi di tempo di insolazione tra PALERMO e VENEZIA, in laguna in questi giorni avranno circa 51 minuti in più di luce rispetto al capoluogo siciliano.
CURIOSITÀ Nell’Emisfero Nord, il solstizio d’estate di solito si verifica il 20 o il 21 giugno. Raramente può verificarsi il 22 giugno, ma non succederà in questo secolo. Il prossimo solstizio d’estate in quella data avverrà nel 2203! . Nell’Emisfero Sud, il solstizio d’estate avviene la maggior parte delle volte il 21 o 22 dicembre; può anche raramente cadere il 20 o il 23 dicembre. In questo secolo, solo cinque solstizi si verificano il 20 dicembre mentre il prossimo solstizio in data 23 dicembre avverrà nel 2303! .
Cieli sereni PG
8 GIUGNO 2023 – Giornata Mondiale degli Oceani
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L’8 giugno di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale degli Oceani. Le Nazioni Unite selezionano ogni volta un tema diverso per questa Giornata. Il tema dell’edizione 2023 è: “Planet Ocean: Tides are Changing“.
CURIOSITA’ SUGLI OCEANI
“UN MARE DI VITA” Il 94% degli esseri viventi che popolano il globo si trovano negli oceani. Ci vivono infatti circa 10 miliardi di tonnellate di pesci e la maggior parte di questi vive fra i 200 e i 1000 metri di profondità.
“MARE E… MONTI” La catena montuosa più lunga del mondo (65.000 chilometri!), si trova quasi interamente sotto l’oceano. Questa catena montuosa è meno esplorata della superficie di Venere o Marte, possiamo quindi dire che sia un luogo praticamente intatto e pressoché sconosciuto.
“LA TERRA UN PIANETA ANCORA INESPLORATO” Abbiamo esplorato solo il 5% degli oceani il che significa che il 65% dell’intero pianeta è praticamente sconosciuto.
“PERCHÈ BLU?” Il colore del mare è il frutto delle lunghezze d’onda rosse e arancioni della luce solare che vengono assorbite dalla superficie dell’acqua mentre le lunghezze d’onda blu penetrano in profondità, dando così all’oceano quel caratteristico colore blu che tutti quanti conosciamo.
“UN MONDO AL BUIO” La luce solare, può penetrare fino a circa 100 metri sotto la superficie dell’acqua. Una profondità esigua rispetto alla ‘altezza’ media degli oceani di circa 3.800 metri, i quali si trovano in gran parte in uno stato di oscurità perenne.
“UNA FABBRICA DI OSSIGENO” Un ruolo importantissimo dell’oceano per la nostra vita è quello di produrre gran parte dell’ossigeno che respiriamo. Molti pensano che siano solo gli alberi a produrre ossigeno. Non è così: il fitoplancton (ovvero i microrganismi che vivono sulla superficiale dell’oceano) si fotosintetizza allo stesso modo delle piante rimuovendo l’anidride carbonica e rilasciando ossigeno. Viene prodotto il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbito il 30% dell’anidride carbonica.
“UN MARE D’ORO” Negli oceani si nascondono più di 20 tonnellate d’oro! Non si tratta di forzieri stracolmi di monete che giacciono ancora nei relitti di vascelli affondati ma della presenza di questo metallo prezioso, come di altri elementi, diluito in percentuale tale che un litro di acqua di mare può contenere un miliardesimo di grammo d’oro.
Cieli sereni PG
Rome. Over the top.
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Architectural emergencies in the eternal city…pics by Giancarlo & Gregory 😉
Finestra sui social – Twitter: Olga Tuleninova (@olgatuleninova)
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Si muove tra Parigi, Londra e le capitali della Europa Danubiana solo su strada ferrata a bordo di carrozze blu con la scritta dorata: “Compagnie Internationale des Wagons-Lits et des Grands Express Européens “.
Nel vagone pullmann, tra profumo di caffé, ostriche e champagne, servita, riverita e coccolata dai magnifici sette della Brigade di bordo, discetta di Arte e mondanità con banchieri con baffi a manubrio e nobilesse ristorate e restaurate.
dettaglio finale: quanto sopra è tutto falso, non sappiamo chi sia e nulla di lei… ma ci piace immaginarla così!
Fotogallery di Gregory Acs (@AcsGregory) e “Tolomeus” (@Redattore_fuori). Aggiornamenti continui, da qui all’eternità!
IL “CALENDIMAGGIO”
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In Italia è detta CALENDIMAGGIO, o Cantar maggio, la festa con cui il 1° maggio si celebra l’arrivo della primavera. L’evento trae il nome dalle calende del mese nel calendario romano, in cui si onorava la dea Flora, responsabile della fioritura degli alberi. È una festa conosciuta anche nel resto d’Europa, corrispondente, ad esempio, alla festa celtica di Beltane o alla notte di Valpurga in Germania: astronomicamente è contrapposta a quella dei morti del 1° novembre. Il Calendimaggio è festeggiato ancora oggi in molte regioni d’Italia come allegoria del ritorno alla vita e della rinascita: in Toscana (Montagna pistoiese), in Umbria (Assisi), e poi ancora in Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Liguria dove si celebra la festa delle “Quattro Province”, ovvero Piacenza, Pavia, Alessandria e Genova. I riti propiziatori si svolgono tramite una questua durante la quale, in cambio di cibo (vino, dolci..), i “maggianti” (o maggerini) cantano strofe benauguranti agli abitanti delle case che visitano. Simbolo della rinascita primaverile sono gli alberi (ontano, maggiociondolo) e i fiori (viole, rose), citati nelle strofe dei canti, e con i quali i partecipanti si ornano. La tradizione nelle montagne pistoiesi vuole che un grosso ramo di un ontano venga trasportato dai maggerini e su di esso vengano appesi i doni offerti dalle case. Attorno alla pianta si tengono danze e la scelta della Regina del Maggio. Alla fine del percorso questo ramo, a seconda dei luoghi, può essere issato con i doni per diventare un palo della cuccagna.
Cieli sereni e buon 1° maggio PG
Il Mondo a colori di Natino
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Il Mondo a colori, 2021. – Natino Chirico
Negli indimenticabili ’60, la Casa Editrice Fabbri lanciò una collana editoriale di successo: “I Maestri del Colore” , che contribuì non poco alla diffusione della Storia dell’Arte a livello popolare nell’Italia del boom economico. In cinque anni uscirono in edicola 278 fascicoli settimanali, ognuno dedicato ad un artista, o ad un fenomeno particolare della pittura. La qualità della pubblicazione era assicurata da firme molto prestigiose e da una eccellente confezione tipografica, che permetteva la riproduzione delle opere in tavole di grande formato. Il tutto associato ad un prezzo abbordabile (dalle 300 lire nel 1963 alle 380 lire, nel 1967).
Ma della collana ne parleremo a breve in maniera più specifica. La premessa ci serve semplicemente per dire che una ipotetica prosecuzione dell’impresa dedicata ai contemporanei non potrebbe certamente fare a meno di riservare un fascicolo ad un artista che davvero può fregiarsi a ragion veduta del titolo di “Maestro del Colore”: Natino Chirico.
Natino è un idealista, un sognatore: lo si capisce dai suoi soggetti, che rende sempre iconici: Don Chisciotte, uno dei suoi preferiti. O dalla sua Italia. Nato a Reggio Calabria, profondamente innamorato della sua terra, non perde l’occasione di omaggiare le sue radici con delle opere che esaltano la bellezza della cultura mediterranea.
Lo è anche perché crede fermamente, e rappresenta magistralmente nei valori da mantenere e recuperare: Amicizia e Solidarietà, per esempio, dipinta con i volti e le biciclette di Gino Bartali e Fausto Coppi.
Che sia un sognatore lo si percepisce dai suoi numerosi omaggi a Chaplin e Fellini che riescono, ed è difficile impresa, ad evocare la magia del mondo dei due Maestri.
Bisogna aggiungere che il suo è un amore spassionato proprio per tutto il mondo del Cinema: non si contano le opere dedicate ad attori e registi, colti e rappresentati infallibilmente nelle loro espressioni più riconoscibili.
Vogliamo poi parlare delle Attrici….?
Retrospettiva in VR: Una mostra di Natino Chirico sulle Donne del Cinema (2011, allo Spazio Metastasio 15 di Roma, una galleria d’Arte purtroppo non più esistente)
“Napul’è mille culure”, cantava Pino Daniele. Questa la Piedigrotta di Natino Chirico:
Piedigrotta – Natino Chirico
Il bastone di Charlot – Natino ChiricoCharlie Chaplin – Natino ChiricoLe scarpe di Charlot – Natino ChiricoCharlie Chaplin e Federico Fellini – Natino ChiricoIl Tuffatore – Natino Chirico
Il Tuffatore (in tre versioni) – Natino Chirico
Maxxi
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Fotogallery. Always in progress 😉
Sono “solo” 2775! ( 21 aprile, natale di Roma)
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foto di Tolomeus
Oggi si festeggia il Natale di Roma che, secondo la leggenda, sarebbe stata fondata da Romolo il 21 aprile del 753 avanti Cristo.
Da questa data in poi derivava la cronologia romana, definita con la locuzione latina Ab Urbe condita, ovvero “dalla fondazione della Città”, che contava gli anni a partire da tale presunta fondazione.
CURIOSITÀ Molti siti e testate annunciano la data di oggi come il 2776° compleanno di Roma perchè vengono sommati, istintivamente, il numero degli anni “a. C.” con quelli “d. C.” ottenendo, appunto (753 + 2023) 2776.
IN REALTÀ LA CITTÀ ETERNA COMPIE QUEST’ANNO 2775 ANNI !!
L’operazione corretta da fare è:
(753 + 2023) – 1 = 2775 anni !
La sottrazione di un anno è dovuta al semplice fatto che… NON ESISTE L’ ANNO 0 (“zero”)!: in altre parole tra il 21 aprile dell’ 1 a. C. e il 21 aprile dell’ 1 d. C. trascorse un solo anno e NON DUE!
Cieli sereni e Buon Natale Roma! PG
🌑🌓🌔🌕🌖🌗🌑
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COME SI CALCOLA L’ETÀ DELLA LUNA?
È possibile calcolare l’età della luna (la sua fase) per un qualsiasi giorno dell’anno senza ricorrere alla consultazione di un calendario che ne indichi le fasi. Bisogna però conoscere, per l`anno in corso, l’EPATTA.
COS’È L’EPATTA ?
L’ epatta (dal greco: ἐπακταὶ ἡμέραι epaktài hēmèrai = giorni aggiunti; in latino: epactae dies) è il numero di giorni da aggiungere alla data dell’ultimo novilunio 🌑 dell’anno precedente per completare l’anno solare. Quest’anno 2023 l’epatta è 8 perchè l’ultima luna nuova del 2022 cadde il 23 dicembre e 8 sono i giorni per arrivare al 31 dicembre.
Di seguito il numero di epatta per gli anni dal 2018 al 2023:
ATTENZIONE: Per trovare l’età della Luna nei mesi (e solamente nei mesi) di GENNAIO e FEBBRAIO bisogna riferirsi all’epatta dell’anno precedente.
CALCOLO Si considera la differenza in mesi tra il mese relativo alla data di cui si vuole conoscere l’età della luna e il mese di MARZO, estremi inclusi. Questa si chiama eccedenza annuale . In tal senso, marzo = 1, aprile = 2, maggio = 3, aprile = 4 … fino a dicembre = 10, gennaio = 11 e febbraio = 12.
Si somma quindi epatta + eccedenza annuale + numero del giorno di cui si vuole conoscere la luna. Se il risultato è maggiore di 30 si sottrae 30.
Il numero così ottenuto indica l’ ETÀ DELLA LUNA in giorni.
ESEMPIO Per oggi 13 aprile 2023, il numero di epatta per il 2023 è 8, il numero di mesi da marzo ad aprile (estremi inclusi) è 2 e la data è 13, per cui la somma è: 8 (epatta) + 2 (eccedenza annuale) + 13 (data) = 23. La luna ha 23 giorni. [23 è un numero oltre la metà della durata di una lunazione di 29,5 giorni, quindi la luna è in fase CALANTE 🌘]
Se siano più importanti le parole, o le immagini, è un quesito che infiamma le discussioni e anima le speculazioni filosofiche, fin dalla notte dei tempi. La domanda è semplice, quasi banale nella sua linearità. Ciò che è complicato è cogitare una risposta che sia possibile argomentare, sostenere, difendere, perché sia accettabile oltre la mera elaborazione soggettiva del concetto.
Nel novero dei sistemi rappresentazionali dell’umana psiche (di cui non tratteremo in questa sede) si dice spesso che l’uomo – inteso come specie, non come genere sessuale, con buona pace del politically correct che tutto incattivisce e complica – sia prevalentemente visuale, elaborando i concetti per associazione d’immagini, prima ancora che per parole e pensieri. Vero, ma solo in parte e solo in funzione stringente del contesto e del proprio stato d’animo (a seconda quindi del metaprogramma in uso in un determinato momento, ma nemmeno di questo parleremo in questa sede). Ne consegue il detto “Un’immagine vale più di mille parole”. Un motto popolare che non spiega in funzione di cosa e secondo chi, ma soprattutto perché, ciò dovrebbe essere accettato come postulato di verità.
Con il termine metaprogramma ci si riferisce ad un filtro mentale che determina una risposta ad uno stimolo di tipo automatico e abitudinario. I metaprogrammi sono programmi dei programmi, o come direbbe Bandler sono mappe delle mappe.
Messa in questi termini, la questione sembra complicata, nella sua complessa struttura e nell’analisi di un concetto interrogativo che, proprio come la vita stessa, non è mai del tutto facile. In realtà è più semplice di quanto apparentemente appaia.
Quindi, potere alle parole o alle immagini?
Personalmente ho sempre liquidato la questione con un ragionamento che, seppur tra mille e uno tentativi di contro-argomentazione, resta in linea di massima inattaccabile, almeno a rigor di logica. Penso infatti, da sempre, che siano più importanti le parole, se davvero d’importanza vogliamo parlare, in un’ipotetica gerarchia valoriale che le vede avverse alle immagini. Laddove le parole possono far scaturire, nella nostra fantasia potenzialmente infinita, altrettanto infinite immagini, queste ultime possono, per evidenti motivi, far scaturire, a loro volta, un numero finito di parole. Perché se la fantasia è infinita, il linguaggio è finito, nel senso che ai vocaboli che lo compongono, può essere attribuita una dimensione numerica. Quindi, le parole possono essere contate, le immagini fantastiche no.
Di conseguenza, ciò che può evocare l’infinito ha, indiscutibilmente, più valore e potenza di ciò che evoca qualcosa di numericamente finito e quantificabile.
E’ proprio come quando leggiamo un libro e la scena viene dipinta dalla nostra fantasia, evocata dalla sequenza di parole lette. Al contrario, guardando il film tratto da quella stessa storia, la potenza immaginifica è di molto inferiore, nonostante la musica, le luci e gli effetti speciali. Perché è immagine, fantasia non proprietaria, imposta e non elaborata. Nulla a confronto dell’infinita nostra fantasia, quando a darle vita sono le descrizioni fatte di parole.
Gioco, set, partita!
Ma proviamo a guardare la questione da un’altra angolazione, decisamente più interessante, a rischio di andare fuori tema. Nel novero delle parole – più importanti delle immagini, come appena argomentato e dimostrato – può l’ordine, con le quali sono esse espresse, cambiare il risultato di ciò che comunichiamo?
Secondo la proprietà commutativa (una delle più usate in aritmetica) al mutare dell’ordine dei fattori, nelle addizioni e nelle moltiplicazioni, il risultato resta invariato. Ma accade lo stesso con le parole e con le immagini, che inevitabilmente esse evocano? Davvero mutando l’ordine delle parole e dei concetti espressi, il risultato resta identico?
Giorni fa leggevo un’interessante intervista rilasciata dall’artista Maurizio Cattelan (quello del dito medio in piazza degli affari a Milano) nella quale l’artista rispondeva, alla classica e un po’ banale domanda “come siamo messi a rapporti interpersonali?”, con un altrettanto banale e scontato, quasi abitudinario “pochi ma buoni”. Ed ecco che, la magia delle sfumature tra le parole prende forma, nel momento esatto in cui l’artista rigira all’intervistatore, per pura cortesia (immagino), la stessa domanda, ottenendo in risposta un ben più interessante “buoni ma pochi”.
MAURIZIO CATTELAN_ L.O.V.E._Piazza Affari_Milano_ Immagine presa dal web_tanks to MILANO TODAY
Certo, il concetto, al lettore frettoloso e superficiale appare lo stesso, perfettamente identico, soprattutto se applichiamo la proprietà commutativa, trasferendola dall’aritmetica alle parole, cambiandone quindi l’ordine, ma lasciando invariato il significato.
Ne siamo proprio sicuri? Siamo davvero certi che “pochi ma buoni” sia lo stesso identico concetto espresso dal suo opposto “buoni ma pochi”?
Probabilmente si, o forse no… ogni argomentazione è valida e gode di uguale dignità, se ci fermiamo al mero significato letterale delle parole che delineano in concetto. Ma, andiamo oltre, superiamo la superficie e tagliamo la tela (ricordando Lucio Fontana), superando il limite spaziale del supporto, in una dimensione metafisica alternativa, che conferisca un corpus nuovo al concetto espresso e che, grazie all’ordine delle parole, ne muti il significato trasmesso e percepito.
Lucio Fontana_Concetto spaziale_Attesa_1965
È una questione di assetto mentale, di punto d’osservazione, di prospettiva.
Il risultato, distillato dal concetto espresso, muta la sua sostanza a seconda dell’attenzione, del focus direbbero oltre oceano, che poniamo alla prima o alla seconda parola, se sia il “poco” al centro della nostra attenzione, quindi prioritario espressivamente parlando, o se al centro ci finisca il “buono”, illuminato all’improvviso dalle luci della ribalta. Perché loro, le parole, dipendono dal contesto nel quale sono espresse, da esso attingono forma, sostanza, colore e peso, quel peso che, astratta la parola dal contesto, diventa non quantificabile e, spesso, irrilevante.
Definire i propri rapporti interpersonali “Pochi, ma buoni” conferisce un peso e una sostanza, una tangibilità al concetto di scarsità, relegando a quello di qualità un ruolo secondario d’illusoria consolazione. Una rassegnazione che, in forma lapidaria, chiude la questione, non avendo altro da aggiungere al concetto che, per sua stessa struttura, esclude sviluppi narrativi.
Definirli, per contro “buoni, ma pochi”, pone al contrario l’accento sulla qualità dei rapporti, definendoli buoni prima d’ogni altra accezione. Solo in seconda analisi, a titolo quasi autocritico, in un impeto di desiderio d’allargare questa cerchia relazionale, essi vengono definiti “pochi”, lasciando cadere così ogni rassegnata o consolatoria connotazione d’immobilità, per muovere l’istinto umano di socializzazione.
Perché definirsi “poveri ma felici”, per godere di un altro esempio, è un concetto lontano anni luce dal suo omologo “felici ma poveri”, apparentemente uguali, ma intimamente diversi, opposti, antagonisti.
Pirandello ha scritto: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”.
Spesso attribuiamo troppo peso alle parole, un peso che non è proprio, o specifico, bensì relativo, dedotto dal quel contesto, all’interno del quale, la parola viene espressa, da cui attinge significato, oggettivo o soggettivo ch’esso sia. Un peso che, a livello percettivo (quasi fosse il gusto nell’assaporare quei concetti) varia a seconda dell’ordine con il quale, questi sapori, vengono inseriti nel gusto finale.
Allo stesso modo conferiamo un significato tutto nostro alle immagini, rendendole soggettive, attribuendo loro una volgarità che, senza la corretta analisi del contesto espressivo, è solo nella nostra testa. Come nel caso del dito di Cattelan, appunto. Anche un gigantesco dito medio di marmo, seppur volgare in apparenza, una volta contestualizzato, assume ben altro, alto e nobile significato.
Ci fermiamo alla parola, o alla singola immagine, senza analizzare il quadro d’insieme e la scena nella sua interezza. Ma non degniamo d’importanza le sfumature che mutano lo scenario e donano valenza alla frase, al concetto, al pensiero e alle parole, alla potenza pittorico-espressiva che esse veicolano, tra luci e ombre, tra fantasia e realtà.
E in fatto di sfumature e dettagli, le parole ne sanno una più del diavolo e delle infinite immagini che possono evocare.
Note sull’autore_
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
L’OMBRA DI VENERE
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In questo periodo dell’anno, e fino a metà agosto, è ben visibile, ad Ovest nel cielo della sera, il pianeta VENERE. Non tutti sanno che, oltre al Sole e la Luna (a cavallo del plenilunio), anche Venere è capace di creare un’ombra sulla Terra!
Venere è circa 6 volte più luminoso di Giove, e ben 17 volte più splendente di Sirio, la stella più luminosa del cielo. È talmente brillante da proiettare ombre e riflettersi sull’acqua. Per osservarne l’ombra, il pianeta deve essere alto almeno 20° sopra l’orizzonte, e dobbiamo trovarci in totale assenza di altre luci (inquinamento luminoso, luna, ecc.): se il cielo è terso possiamo arrivare a vedere la nostra ombra proiettata dal pianeta su una parete bianca; se inquinato, in ogni caso, è possibile vedere il suo riflesso sul mare (foto).
CURIOSITÀ Venere ha una particolarità interessante: visto che il pianeta è, per noi, quasi puntiforme rispetto al Sole e alla Luna, la sua ombra, anche se debolissima, ha i contorni più netti di quella prodotta dagli altri due corpi celesti.
Cieli sereni PG
LA LUNA ROSA
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Domani giovedì 6 aprile alle 6.34, ora italiana, ci sarà la Luna Piena Rosa. Attenzione. Il colore del nostro satellite non cambierà affatto: il nome di Luna Piena Rosa (Full Pink Moon) deriva dalla tradizione dei nativi americani di riferirsi ad un particolare muschio phlox, un piccolo fiore rosa abbondante sul terreno all’inizio della primavera (immagine).
Quest’anno, la Luna piena d’aprile sarà quella che determina il giorno in cui cade la Pasqua cattolica che si festeggia appunto la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. In questo 2023, plenilunio e Pasqua sono molto ravvicinati, in quanto quest’ultima cadrà domenica prossima 9 aprile.
Altri nomi attribuiti alla Luna piena di aprile nelle diverse culture sono:
Cinese: Luna della Peonia Celtico: Luna della Crescita Cherokee: Luna dei Fiori Nell’Emisfero Sud: Luna del Raccolto, Luna del Cacciatore.
CURIOSITÀ Che cos’è quel puntino luminoso che domani sera vedremo vicino alla Luna? Si tratta di SPICA, una stella lontana circa 250 anni luce. È la più luminosa della Vergine, la costellazione che “attraverserà” domani la Luna. Il suo nome deriva dalla parola latina spica virginis (spiga di grano della Vergine), in riferimento alla pianta che la Vergine porta in mano nelle rappresentazioni canoniche della figura zodiacale.
Cieli sereni PG
Finestra sui social – twitter: Elon Musk (@elonmusk)
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Il ragazzo sembra promettente e si farà, ma è un poco timido e così abbiamo deciso di concedergli magnanimamente la nostra prestigiosa vetrina. SPOILER: (5 aprile 2023) Pare che l’intelligenza artificiale non gli vada troppo a genio…
armatevi solo di carta, penna… e delle quattro operazioni elementari per calcolare in che data cadrà – o è caduta – la Pasqua di ogni anno!
La S. Pasqua si celebra “la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’Equinozio di primavera”. Essendo legata al ciclo della LUNA, la Pasqua è dunque una festività ‘MOBILE’, ovvero la sua data varia di anno in anno. Come si fa a trovare la data della PASQUA ?
Un metodo per trovare la data della Pasqua di un qualsiasi anno senza consultare internet o un calendario, è quello di svolgere delle semplici operazioni aritmetiche: addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni con il metodo “manuale” imparato a scuola (senza calcolatrice!) con il quale si ricavava anche il valore del “resto” della divisione.
Seguendo il procedimento, otterremo alla fine p+1 (il giorno) ed n (il mese, 3 = marzo, 4 = aprile) della S. Pasqua.
Pronti con carta e penna? Ecco lo SCHEMA DI CALCOLO ! ✍️
Anno : 19 = ..-.. con resto a Anno : 100 = b con resto c b : 4 = d con resto e (b + 8) : 25 = f (b – f +1) : 3 = g (19 × a + b – d – g + 15) : 30 = ..-.. con resto h c : 4 = i con resto k [32+(2×e)+(2×i)-h-k] : 7=..-.. con resto L [a+(11×h)+(22×L)] : 451= m [h+L-(7×m)+114]:31= n con resto p
ESEMPIO DI CALCOLO per trovare la data della PASQUA del 2023 :
2023 : 19 = 106 con resto 9 2023 : 100 = 20 con resto 23 20 : 4 = 5 con resto 0 (20 + 8) : 25 = 1 con resto 3 (20 – 1 +1) : 3 = 6 con resto 2 (19 × 9 + 20 – 5 – 6 + 15) : 30 = 6 con resto 15 23 : 4 = 5 con resto 3 [32+0+10-15-3] : 7= 3 con resto 3 [9+(11×15)+(22×3)] : 451= 0 con resto 240 [15 + 3 – 0 + 114]:31= 4 con resto 8
n = 4 : il mese di aprile. p = 8 -> p+1 = 9 : il giorno 9
Dunque la Pasqua di quest’anno cadrà il 9 aprile!
DOMANDA Quale fu il giorno di Pasqua nell’anno della tua nascita?
Cieli sereni 🌿🕊️ PG
20 MARZO SIAMO ALL’ EQUINOZIO! È AUTUNNO O PRIMAVERA ?!
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Oggi, lunedì 20 MARZO, per la precisione alle 22:24 (ora italiana), si verificherà l’EQUINOZIO che segnerà ufficialmente l’inizio della PRIMAVERA per gli abitanti della Terra che vivono nell’Emisfero Boreale e dell’AUTUNNO per l’Emisfero Australe. Il Sole si troverà “a picco” sull’ Equatore e la durata del dì sarà all’incirca uguale a quella della notte su tutta la Terra. La parola “equinozio” (da equi-nox) sta ad indicare, appunto, la suddivisione, per questo giorno, tra le 12 ore di luce e le 12 ore di buio.
Quando accadrà, però, gli orologi del mondo segneranno, per convenzione, un’ora diversa e, in qualche caso, anche un giorno diverso!
Convenzionalmente diciamo che le 4 stagioni cominciano il giorno 21 dei mesi di marzo, giugno, settembre e dicembre. In realtà le date esatte degli equinozi (marzo e settembre) e dei solstizi (giugno, dicembre) dipendono dai moti “irregolari” della Terra: per i prossimi 79 anni (fino al 2102) per noi l’Equinozio di primavera non cadrà mai il 21 marzo, ma il 20 e, qualche volta, il 19. L’ultima volta che è stato il 21 marzo fu nel 2007.
CURIOSITÀ In IRAN l’Equinozio avverrà alle ore 00:54 locali (lì sono 2 ore e 30 minuti avanti) quando il calendario segnerà già il 21 marzo! Sempre con il calendario che segna il 21 marzo si celebrerà l’inizio della primavera a Tokio (dove sono 8 ore “avanti”) mentre a Sydney (10 ore “avanti”) entreranno in autunno!
Tornando in IRAN, a quell’ora scoccherà anche il nuovo anno per il calendario persiano: sarà il primo giorno dell’anno 1402 !
Cieli sereni PG
CALIGO, MACAIA e GAIGO COSA SONO ?
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CALIGO La “caligo”, dall’omonima parola latina, è un fenomeno meteorologico primaverile abbastanza frequente nelle nostre coste, in particolare in Liguria. In condizioni particolari, come il mare ancora freddo e un debole vento da sud che si muove sulla superficie dell’acqua, si genera un banco di nebbia sulla fascia costiera di pochi metri d’altezza che dalle alture dell’entroterra si manifesta come una spettacolare “marea di nubi”. (Foto)
MACAIA La parola “macaia” (o maccaja) ha una probabile origine greca, e deriva da malakia , languore, oppure dal latino malacia , bonaccia di mare.
Si tratta di un fenomeno diverso dalla caligo anche se è anch’esso associato a infiltrazioni d’aria umida marittima (vento meridionale) manifestandosi come una nuvolosità bassa pesante. Da Genova le colline appaiono immerse nella nebbia, mentre il capoluogo è avvolto nel grigiore. Da queste nubi non scende pioggia, se non qualche sparuta goccia d’acqua: sono comunque i segni precursori di un cambiamento del tempo, anteriori al passaggio di una perturbazione.
Il fenomeno è citato nella famosa canzone Genova per noi scritta da Paolo Conte e cantata per la prima volta da Bruno Lauzi
🎵🎶 Ma quella faccia un po’ così Quell’espressione un po’ così Che abbiamo noi.. … Macaia, scimmia di luce e di follia Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia …. 🎵🎶
GAIGO Il “gaigo”, invece è la nebbia che si adagia sulle dorsali liguri da ponente a levante. È l’opposto della macaia, causata da venti settentrionali umidi provenienti dalla pianura Padana che, per un effetto chiamato “stau” (le correnti d’aria cariche di umidità che risalgono i rilievi montuosi), provocano una copertura nuvolosa sul versante padano e l’effetto “tovaglia” su quello ligure.
CURIOSITÀ La leggenda ligure sulla caligo
Secondo una credenza popolare, la caligo sarebbe, in “realtà”, la nebbia che accompagna le anime verso la loro pace. Gli spiriti risalirebbero dal mare per venire a prendere le anime rimaste incastrate tra la vita terrena e quella ultraterrena. La nebbia così formata avvolgerebbe la costa, preleverebbe le anime senza pace e le condurrebbe verso la luce, ritirandosi in questo modo nel mare, che culla gli spiriti dando loro tranquillità.
Cieli sereni PG
PERCHÈ FEBBRAIO HA 28 GIORNI?
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Il comandante Bitta più volte si è posto questa domanda alla quale spesso ha sentito rispondere …“è sempre stato così”.
VEDIAMO LA STORIA Per gli antichi Romani, al tempo di Romolo, gli anni duravano 10 mesi, e venivano definiti per cadenzare le stagioni in relazione al raccolto: l’inverno, infatti, era un periodo di circa 60 giorni SENZA mesi! Il secondo re di Roma, Numa Pompilio, nel VIII secolo a.C., decise che il calendario sarebbe dovuto essere più accurato, allineandolosi ai 12 cicli lunari di un anno: il nuovo anno doveva quindi essere formato da 355 giorni e, per rispettare questo valore, il nuovo re introdusse i due mesi di gennaio e febbraio. Ma come si arrivò a determinare “per difetto” quest’ultimo mese? I romani ritenevano che i numeri pari portassero sfortuna; non a caso, ogni mese aveva un numero dispari di giorni (si alternavano tra 29 e 31), ma per arrivare ai 355 giorni, un mese avrebbe dovuto essere per forza di un numero pari di giorni e così fu scelto proprio febbraio. Non a caso, il secondo mese dell’anno era riconosciuto come un periodo sfortunato. Secondo alcuni esperti, febbraio si sarebbe guadagnato questa nomea a causa dei riti funebri officiati durante questo lasso di tempo e l’ipotesi è avvalorata dalla somiglianza tra il termine febbraio e la parola sabina februare, che significa “purificare”.
CURIOSITÀ Perché, ogni quattro anni, febbraio è composto da 29 giorni?
Fu introdotto nel calendario promulgato da Giulio Cesare che entró in vigore nel 45 a.C. e che prevedeva degli anni di 365 giorni e uno di 366 giorni ogni quattro. Si trattò di una scelta fatta per rimanere allineati al calendario astronomico, considerando che, dai calcoli, risultava che un anno in realtà non dura esattamente 365 giorni ma 365 giorni e 6 ore: così il giorno in più inserito ogni 4 anni serviva proprio a compensare quelle 6 ore di “disavanzo” di ogni anno (6×4 = 24h = 1 giorno). Nel 1582 Papa Gregorio XIII, con l’introduzione del calendario gregoriano, (anno calcolato di 365 giorni 5 ore 49 minuti e 6 secondi) corresse ulteriormente il tiro eliminando tre anni bisestili ogni 400, sempre all’inizio del secolo. La regola, da allora, divenne questa: un anno è bisestile se il suo numero è divisibile per 4, con l’eccezione degli anni secolari (divisibili per 100) che non siano divisibili per 400. Ciò significa, ad esempio, che nel 2100 il 29 febbraio non ci sarà così come non c’è stato nel 1900. Il prossimo anno, il 2024, sarà bisestile.
Cieli sereni PG
Il meccanismo di Antikythera
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di Redazione Fuori Online_
Il meccanismo di Anticitera è un antico dispositivo meccanico a sfere che risale al II secolo a.C. e che è stato scoperto nel 1901 nelle rovine di un relitto di nave vicino all’isola di Anticitera, in Grecia.
È considerato uno dei primi calcolatori astronomici della storia e uno dei più importanti reperti archeologici mai scoperti.
Il dispositivo era costituito da una serie di ingranaggi, cavi e dischi di bronzo, e sembra essere stato progettato per calcolare la posizione del Sole, della Luna e di alcuni pianeti nel corso dell’anno.
Era in grado anche di prevedere le eclissi solari e lunari, nonché di mostrare la fase della Luna.
La complessità e la precisione del meccanismo di Anticitera sono impressionanti, considerando l’epoca in cui è stato creato.
La sua tecnologia era molto più avanzata rispetto a qualsiasi altro dispositivo meccanico dell’epoca e probabilmente ha richiesto anni di lavoro e di competenze avanzate per essere realizzato.
Non si sa con certezza chi abbia creato il meccanismo di Anticitera e a quale scopo, ma si ritiene che potrebbe essere stato utilizzato per scopi astrologici, scientifici o religiosi.
Il dispositivo è anche considerato un importante esempio di ingegneria meccanica e ha influenzato lo sviluppo della tecnologia meccanica in Europa e nel mondo musulmano.
Il meccanismo di Anticitera è stato ricostruito da archeologi e ingegneri moderni, che hanno utilizzato tecniche di scansione tridimensionale e modellazione computerizzata per creare una replica funzionante del dispositivo.
Questa replica ha permesso di comprendere meglio le funzioni del meccanismo e ha dimostrato la sua importanza storica e tecnologica.
Nonostante questo progresso, resta ancora fitto il mistero sul reale utilizzo che veniva fatto della macchina di Anticitera e sul motivo per cui i Greci, capaci di un simile esempio di ingegneria meccanica, non abbiano inventato altre tecnologie avanzate come gli orologi.
Zendaya è una delle figure più influenti a livello mondiale, sia nel mondo dell’intrattenimento che in quello della moda. Attrice, cantante, modella e attivista, questa giovane donna ha dimostrato di avere un talento eccezionale e una personalità magnetica che la rendono una delle personalità più ammirate e seguite al mondo.
Nata a Oakland, in California, nel 1996, Zendaya Maree Stoermer Coleman ha iniziato la sua carriera all’età di soli 8 anni come modella per Macy’s, prima di approdare alla televisione nel 2010 con un ruolo nella serie Disney “Shake It Up”. Da allora, Zendaya ha continuato a conquistare il pubblico con la sua bellezza, la sua versatilità e il suo impegno sociale.
Una delle caratteristiche distintive di Zendaya è la sua capacità di affrontare temi sociali importanti attraverso la sua arte e la sua attivismo. Ha sempre utilizzato la sua piattaforma per parlare di questioni importanti come il razzismo, la disuguaglianza di genere, la rappresentazione dei neri nell’industria dell’intrattenimento e molto altro. Inoltre, è un’attivista del movimento Black Lives Matter, e si è impegnata per sostenere la comunità LGBTQ+ e altre minoranze.
Oltre al suo attivismo, Zendaya ha dimostrato di essere una talentuosa attrice, vincendo il premio Emmy per la sua interpretazione nella serie “Euphoria” del 2019. Ha anche recitato in film come “Spider-Man: Homecoming” e “The Greatest Showman”, dimostrando la sua versatilità come attrice.
Ma Zendaya non è solo una talentuosa attrice. Ha anche conquistato il mondo della moda con il suo stile unico e audace. È stata scelta come testimonial di molte campagne pubblicitarie, come quella di Lancôme e Valentino, ed è stata invitata a sfilare sulle passerelle di marchi prestigiosi come Tommy Hilfiger e Marc Jacobs.
Inoltre, Zendaya ha dimostrato di essere un’icona di stile, con un guardaroba che spazia dal casual al glamour, e che ispira molte donne in tutto il mondo. Ha lanciato anche la sua linea di abbigliamento, chiamata Daya by Zendaya, che mira a offrire una moda accessibile e inclusiva per tutte le donne.
In sintesi, Zendaya è una figura influente a livello mondiale grazie alla sua arte, al suo attivismo e al suo stile. Ha dimostrato di essere un’artista poliedrica, capace di affrontare temi importanti attraverso la sua arte e di ispirare molte persone in tutto il mondo. Con la sua forza e la sua determinazione, ha conquistato il cuore di molte persone, e ha dimostrato di essere una fonte di ispirazione per molte giovani donne in tutto il mondo.
Il mito della Torre rivisto attraverso le opere di Celestino Russo
Il testo che segue è stato scritto a seguito della visita della galleria d’arte di Lorenzo Vatalaro sita in zona Brera Milano che esponeva delle opere dell’artista Celestino Russo. Le emozioni in noi evocate sono poi passate attraverso al setaccio del metodo che abbiamo sviluppato per ri-analizzare i miti dell’antica Grecia.
Il risultato della nostra riflessione intorno al significato simbolico del mito della torre è riassunto nel seguente scritto.
Introduzione
Il mito che ha a che fare con le torri è un mito antichissimo e a noi, che apparteniamo alla cultura occidentale, richiamano in primis le torri campanarie. Il simbolismo ad esse collegato rimanda al desiderio dell’uomo, o per lo meno di alcuni di essi, a voler ri-collegare il cielo con la terra. Ricordiamo che il sostantivo religione, deriva dal verbo latino religere, dove “re” è un prefisso che significa la ripetizione di un’azione e dal verbo ”lĭgo, lĭgas, ligavi, ligatum, lĭgāre” che vuol dire “legare”, “unire”, “congiungere”, “riunire”. La torre più famosa di tutte è la torre di Babele che però nei secoli è stata associata all’arroganza dell’uomo, il quale, invece di mettersi in contatto con il creatore, cerca di porsi al suo stesso livello. Le opere di Celestino Russo pur rifacendosi a questi concetti, suscitano anche altre immagini interiori. Abbiamo pertanto deciso di osservare queste opere con gli occhi del cuore così come ci invitava a fare il Michelangelo Buonarroti (1475-1564) che nel verso 49 delle Rime:
« Amor, la tuo beltà non è mortale: nessun volto fra noi è che pareggi, l’immagine del cor, che ‘nfiammi e reggi, con altro foco e muovi con altr’ale ».
alludeva ad un particolare tipo di percezione il quale, non arrestandosi all’aspetto esteriore e formale delle cose e delle persone, giunge, tramite il cuore inteso come organo psicologico preposto al riconoscimento delle emozioni, alla cosiddetta φύσις – physys, ovvero alla natura intrinseca, alla qualità innata o all’essenza particolare presente all’interno di ciascuna di esse.
Sarebbero le forme esteriori che scatenano associazioni libere di idee le quali a loro volta, rimandano ad altre immagini per analogia o per sympatheia συμπάθεια (da “σύν” – assieme, con e da πάθος – “sofferenza”, “patimento”, “passione” ma soprattutto “esperienza”, “emozione”, “ciò che si prova”) suscitando altre sensazioni.
alludeva ad un particolare tipo di percezione il quale, non arrestandosi all’aspetto esteriore e formale delle cose e delle persone, giunge, tramite il cuore inteso come organo psicologico preposto al riconoscimento delle emozioni, alla cosiddetta φύσις – physys, ovvero alla natura intrinseca, alla qualità innata o all’essenza particolare presente all’interno di ciascuna di esse.
Sarebbero le forme esteriori che scatenano associazioni libere di idee le quali a loro volta, rimandano ad altre immagini per analogia o per sympatheia συμπάθεια (da “σύν” – assieme, con e da πάθος – “sofferenza”, “patimento”, “passione” ma soprattutto “esperienza”, “emozione”, “ciò che si prova”) suscitando altre sensazioni.
Premessa all’analisi
Prima di analizzare le opere di Celestino Russo sentiamo il bisogno di soffermarci sul significato della torre in sé. Che cosa è la torre? Quali immagini suscita ? A cosa rimanda per similitudine e corrispondenza ? Come abbiamo accennato nell’introduzione, la torre è qualcosa che avvicina, è una sorta di ponte verticale che ha l’ambizione di collegare non tanto terre o nazioni diverse ma mondi o dimensioni diverse.
Ma quali mondi in particolare ? Per scoprire ciò, anche in questo caso, abbiamo deciso di applicare lo stesso metodo di indagine che adoperiamo per la pubblicazione degli articoli che hanno per protagonisti i miti dell’antica Grecia nei quali, invece di soffermarci sulle vicende che afferivano ad una religione politeista ormai estinta, in accordo con il modello della psicologia archetipica di James Hillman vi troviamo la metafora del mondo della psyche, delle emozioni e dei sentimenti rappresentati per mezzo di storie che ricordano più i sogni notturni che descrizioni di eventi dotati di senso compiuto. Per comprendere gli archetipi incarnati dalla torre siamo partiti con la ricerca etimologica del sostantivo come veniva pronunciato in greco antico per vedere successivamente se esso fosse in grado di evocare da un punto di vista immaginale negli antichi e a noi ai giorni nostri, a livello inconscio, particolari significati.
Etimologia del sostantivo torre La parola «torre» in greco antico si scriveva πύργος – pyrgos che derivava dal verbo πυργόω – pyrgoo che significa “munire di torri”, “fortificare”, ma anche “ingrandire”, “esagerare” ed addirittura “magnificare” ed “esaltare”, ma anche “essere altero”. Da questi primi indizi è più facile comprendere perché alla torre venga associata l’arroganza di chi cerca di elevarsi, esaltarsi, di chi esagera. Ma tra i significati che rinveniamo nei vocabolari consultati, abbiamo trovato anche “andare a testa alta”, “alzarsi in piedi” e “raddrizzarsi”.
Questi ultimi due in particolare, non suggeriscono a nostro avviso tanto la sfacciataggine di un superbo, quanto piuttosto sembrano riferirsi a colui che conscio di sé, dei propri pregi e difetti, affronta la vita “a testa alta“. Interessante anche il fatto che la preposizione περί – peri, significa “rotatoria”, “rotondo” e “tondeggiante” e “smussato” che rimandano proprio alla forma delle torri del Russo.
fotografie scattate dall’autore con il permesso della galleria
Non siamo in grado di affermarlo con certezza, ma è possibile che l’artista scolpendo e dando forma alle sue creazioni possa essersi lasciato inconsciamente guidare dal significato intrinseco del termine, dall’essenza che sta dietro alla torre in sé. In altre parole avrebbe praticato quella che per gli antichi greci era la τέχνη – tekné, ovvero l’arte, l’abilità di rappresentare sia l’oggetto che la sostanza andando al di là di ciò che è visibile agli occhi.
Originalità delle rappresentazioni di Celestino Russo
Che cosa ha attratto in particolare la nostra curiosità ? Il fatto che oltre ad esservi delle torri che puntano verso l’alto, ve ne sono alcune che sembrano spingersi verso il basso. Il che ci ha portati ad immaginare un cammino in discesa, verso le profondità dell’anima, dove è possibile fare conoscenza profonda di noi stessi. Inoltre i pezzi forgiati dall’interno ci fanno pensare al cammino sempre lento e tortuoso che il ricercatore di sé deve compiere quando va alla ricerca del proprio contenuto rimosso, senza sapere cosa troverà e quanto in fondo si spingerà nella sua ricerca.
Così come alcune sculture che appaiono incomplete, che ci ricordano chi inizia il proprio cammino, in questo caso in salita, e poi, per tutta una serie di motivi, lo interrompe.
A questo punto mossi dallo spirito che aleggia in uno dei motti dello scrittore Saint-Exupéry ossia, « l’essenziale è invisibile agli occhi », ci siamo domandati, non tanto se questo fosse l’intendimento dell’artista, quanto invece, in base ai nostri studi riguardo ai μῦθοι – mithoi rivisti in chiave psicoanalitica, quale altro significato si celasse dietro alle due categorie di torri. In altre parole, quali sarebbero i significati psicologici che questi simboli incarnerebbero al di là delle più facili e scontate attribuzioni ?
In base agli studi compiuti, derivati dall’analisi di alcune opere artistiche rinascimentali che si erano ispirate alla teologia orfica, che ricordiamo era una forma di religiosità monoteista andata perduta e che circolava tra filosofi e ceti abbienti dell’antica Grecia, nonché dalla rilettura che abbiamo condotto a riguardo del mito di Orfeo ed Euridice, siamo giunti alle seguenti associazioni.
Le torri che salgono
Le torri che sembrano elevarsi incarnerebbero l’archetipo di quel ponte tra mondi, quello che Marsilio Ficino definì l’Anima Mundi.
«L’Anima [mundi] – ψυχή, si può chiamare il centro della Natura, l’intermediaria di tutte le cose, la catena del mondo, il volto del tutto, il nodo e la “copula mundi». Tratto da: «Theologia platonica», III, 2, traduzione di Nicola Abbagnano di Marsilio Ficino (1433-1499)
È grazie al Rinascimento che l’Anima cessa di possedere unicamente un significato spirituale e diventa il sinonimo di quella che oggi chiamiamo psyche, termine coniato dal teologo ed umanista Philipp Melanchton che fu amico e consigliere personale di Martin Lutero, ovvero quelle facoltà della mente che riguardano il mondo delle emozioni dei sentimenti.
È tipico di questo periodo, la ri-traduzione dei testi dell’antica Grecia, dove la ricerca dei significati dei lemmi all’interno dei vocabolari non avviene più pensando di avere a che fare con storie mitologiche che riguardavano protagonisti leggendari appartenenti ad una religione politeista, bensì con racconti metaforici il cui scopo era di rivolgersi al cuore di ciascuno di noi, ovvero al nostro lato emozionale. Ma anche la scoperta di nuovi testi antichi che si credevano perduti, portati con sé da intellettuali e uomini
appartenenti alla chiesa ortodossa che parteciparono al concilio di Ferrara Firenze del 1438 1449, il quale riuscì a ricucire temporaneamente lo scisma avvenuto tra la Chiesa occidentale e la Chiesa ortodossa avvenuta nel 1054.
Fatte queste premesse, l’Anima Mundi, secondo il modello dei filosofi neoplatonici che partecipavano alle sessioni di studio che si tenevano presso l’Accademia Neoplatonica di Careggi (FI), andrebbe immaginata come una sorta di contenitore di quegli archetipi che per Platone ed il suo erede Plotino sarebbero a fondamento della creazione sensibile, dove ci sono i prototipi di tutte le anime particolari o individuali e con le quali essa rimane in costante collegamento.
Ma anche gli archetipi di quelle immagini che popolano il mondo interiore dell’uomo e che sarebbero la causa di emozioni e sentimenti primitivi, intensi e profondi, impersonati, all’interno del pantheon degli dei, dalle figure dei Titani.
Ecco che secondo questa chiave di lettura, l’uomo che è proteso verso l’alto non è più l’uomo che con arroganza vuole porsi a livello del creatore (secondo la teogonia orfica infatti l’Uno creatore è ineffabile ed inconoscibile, pertanto il peccato di hybris in questo contesto non è contemplato), bensì è colui che vuole comprendere, per dirla similmente al filosofo neoplatonico Damascio (450 – 532), i principi primi, quelli che gli permettono di comprendere il Tutto, di distinguere la singolarità nella pluralità, di comprendere le leggi che regolano l’animo umano e che quindi influenzano anche la propria.
Marsilio Ficino (1433-1499) ritratto in un affresco del Ghirlandaio che si trova all’interno della chiesa di Santa Maria Novella immagine tratta da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marsilio_Ficino_-_Angel_Appearing_to_Zacharias_(detail).jpg
Le torri che scendono verso il basso
Le torri che scendono invece, richiamano in noi il racconto del mito di Orfeo ed Euridice, quando il figlio di Eagro e Calliope si reca nell’Ade alla ricerca della propria amata, morta appena dopo il matrimonio. Notoriamente l’Ade, similmente al Tartaro, viene liquidato, a nostro avviso in maniera semplicistica, come il regno delle tenebre e della morte.
Come, perché e quando entrambi i termini abbiano smarrito il loro significato originario, non è dato sapere, ma se vogliamo interpretare i racconti mitologici in chiave psicologica, dobbiamo andare prima di tutto in cerca del significato che presumibilmente essi evocavano tra gli antichi.
Usiamo anche in questo caso il verbo evocare perché, i sostantivi, gli aggettivi ed i verbi del greco antico, non erano solamente dei segni, e quindi non seguivano le rigide regole della semiotica moderna, bensì impersonando dei simboli, erano metafore che rimandavano ad altri significati, soprattutto all’ambito dell’anima/psyche. Pertanto, secondo il vocabolario Liddel-Scott-Jones, Ἀίδης – aides/Ade, è composto dalla particella α – alfa privativa, un elemento che indica la negazione di quanto espresso dal sostantivo successivo, e dal verbo ἰδεῖν.
ἰδεῖν – ideìn a sua volta, è l’infinito del verbo εἶδον – eidon, che significa “vedere”, “scorgere”, “guardare”, “osservare”, “considerare”, ma anche, “percepire”, “provare”, “sentire (emozioni)”, “guardare in direzione di ..” e “vedere mentalmente”. Pertanto a livello di immagine mentale, l’Ade veniva percepito dagli antichi come uno spazio dove «non-si-vede», dove vi è l’«impossibilità a guardare», in quanto non vi è ancora non è arrivata la Luce, in altre parole, dove secondo la psicoanalisi moderna alberga il materiale inconscio e rimosso. È da qui che nascono quelle sensazioni fastidiose ed inspiegabili, quel brusio di sottofondo interiore, quelle sensazione di disagio inspiegabili che fintantoché restano sottotraccia ci condizionano, ci inducono in comportamenti solo apparentemente irrazionali ma che in realtà hanno una loro logica ed assumono un loro senso compiuto solo se contestualizzati all’interno delle leggi che guidano la psyché. Stiamo parlando di un luogo destinato a restare oscuro fino a quando non saremo in grado di rendere conscio il materiale psichico inconscio. La torre che scende pertanto, incarnerebbe il lavoro di conoscenza di sé, quello che viene fatto quando riflettiamo perché determinate esperienze evocano in noi certi stati d’animo piuttosto che altri oppure, quando ci rivolgiamo ad un esperto per affrontare un percorso personale di tipo psicoanalitico.
Conclusione
Non siamo in grado di immaginare se questi fossero per davvero gli intenti dell’autore, magari solamente in forma inconscia appunto, oppure di colui che le ha commissionate, ma quella che qui abbiamo esposto è la nostra personale sensazione, la trasposizione di quello che queste opere hanno saputo far risuonare dentro di noi.
Riteniamo inoltre che dal punto di osservazione da cui abbiamo effettuato questa indagine, che queste sculture possano altresì definirsi neo-rinascimentali nel senso che ciascuna di esse non è soltanto la concretizzazione di immagini che appartengono al mondo interiore dell’artista, ma che contengono anche riferimenti al mondo della psiche.
Esattamente com’era intesa l’arte del periodo che va all’incirca dal 1450 fino a tutto il 1500. Perché quando un’opera artistica, rimanda a significati che fanno riferimento al mondo psiche, al mondo delle emozioni e dei sentimenti, essa ci indica la strada verso quella conoscenza che gli antichi chiamavano la γνῶθι σαυτόν – gnōthi saytón, in altre parole, la conoscenza di sé.
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Vignera Giuseppe LA CONCEZIONE PLATONICA DELL’ANIMA UMANA E DEL SUO DESTINO per Ieronimo e Ellanico
Vocabolari ed enciclopedie
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Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale è importante tanto quanto quella razionale.
Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.
Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.
Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.
Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.
Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.
Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.
QUAND’È CARNEVALE ?
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Una domanda che il comandante Bitta si è posto, visto che la ricorrenza non ha una data fissa e, rispetto alla Pasqua, si “spalma” su più giorni.
Esiste una distinzione fra Carnevale di rito ‘romano’ e quello ‘ambrosiano’.
Rito romano Il Carnevale di rito romano inizia OGGI, GIOVEDÌ 16 FEBBRAIO (giovedì grasso) e durerà fino al 21 febbraio (martedì grasso), ultima occasione per fare baldoria prima della Quaresima, che inizierà il giorno seguente, 22 febbraio (mercoledì delle ceneri), giorno di digiuno e astinenza. In mezzo c’è il 19 febbraio, la domenica di Carnevale, giorno dedicato a sfilate e cortei di maschere.
Rito ambrosiano Il rito ambrosiano, ancora seguito nell’arcidiocesi di Milano, sposta il Carnevale qualche giorno più avanti nel calendario, perché la Quaresima non inizia il mercoledì delle ceneri, ma la domenica successiva (quest’anno il 26 febbraio). Questo vuol dire che i festeggiamenti, al contrario che nel resto d’Italia, inizieranno martedì 21 febbraio per chiudersi sabato 25 febbraio.
Perché questa differenza fra i due riti? La leggenda parla di una richiesta fatta da Sant’Ambrogio, futuro patrono di Milano, il quale, lontano dalla città per un pellegrinaggio, raccomandò di attendere il suo rientro per poter iniziare le celebrazioni della Quaresima.
La realtà storica è un’altra: il rito Romano considera le domeniche giorni di non digiuno e quindi anticipa l’inizio della Quaresima al mercoledì delle ceneri per avere 40 giorni ‘effettivi’ di digiuno. Il rito Ambrosiano, più antico di quello Romano, non ha mai avuto il mercoledì delle Ceneri: l’inizio della Quaresima si calcola a partire dalla domenica successiva, la sesta prima di Pasqua, quella del digiuno di Gesù nel deserto che si legge nel Vangelo. Nel calendario, si va a ritroso dal giovedì santo per contare i quaranta giorni e arrivare alla prima domenica di Quaresima: dunque, i quaranta giorni di penitenza iniziavano la sesta domenica prima di Pasqua e terminavano al triduo pasquale (escluso) che cominciava ai vespri del giovedì santo. Poi, nel Medioevo, subentrò l’idea dei quaranta giorni effettivi di digiuno e la Quaresima fu intesa come periodo di preparazione alla domenica di Pasqua anziché al triduo pasquale. Il nuovo computo partì dunque a ritroso dal sabato santo e contando quaranta giorni, saltando le domeniche, arriviamo proprio al mercoledì precedente la prima domenica di Quaresima. Questo computo fu accolto dalla Chiesa romana e si diffuse in tutto l’Occidente, tranne che a Milano.
Cieli sereni PG
Green Deal
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Immagine generata dal sistema di AI DALL-E in base a delle Key Words estrapolate dall’articolo.
di Redazione Fuori Online
Nel settembre del 2021, il governo britannico ha annunciato piani ambiziosi per eliminare la vendita di auto a benzina e diesel entro il 2030 e l’eliminazione completa delle vendite di veicoli a combustione interna entro il 2035. L’obiettivo è quello di ridurre le emissioni di gas serra e la dipendenza dal petrolio, e promuovere l’adozione di veicoli a zero emissioni.
Sebbene l’adozione di auto a zero emissioni abbia chiaramente benefici ambientali, ci sono anche preoccupazioni riguardo alle conseguenze per l’occupazione. Il passaggio a veicoli elettrici potrebbe avere un impatto significativo sull’industria automobilistica e sui lavoratori che dipendono da essa.
Ad esempio, si prevede che la produzione di motori a combustione interna e parti correlate diminuirà drasticamente con l’aumento della domanda di auto elettriche. Questo potrebbe comportare la chiusura di alcune fabbriche, la riduzione dei posti di lavoro e la necessità di riqualificare i lavoratori per altri settori.
Tuttavia, ci sono anche opportunità di lavoro associate all’adozione di auto elettriche. La produzione di veicoli elettrici richiederà ancora la lavorazione di materiali, la progettazione e la costruzione di veicoli, l’installazione di infrastrutture di ricarica e la manutenzione e riparazione di veicoli elettrici. Inoltre, la tecnologia dell’auto elettrica richiederà nuove competenze e specializzazioni, come l’elettronica, la programmazione e la gestione delle batterie.
Per attenuare gli impatti negativi sul lavoro, è importante che i governi e le imprese agiscano prontamente per garantire che i lavoratori dell’industria automobilistica siano adeguatamente formati e qualificati per il futuro dell’industria. I governi dovrebbero anche considerare politiche di sostegno, come incentivi fiscali, sovvenzioni per la riqualificazione, programmi di formazione professionale e trasferimenti di competenze, per aiutare i lavoratori a far fronte alla transizione verso l’elettrificazione dei veicoli.
In definitiva, l’adozione di auto a zero emissioni rappresenta una sfida e un’opportunità per l’industria automobilistica e per l’occupazione. Tuttavia, con la giusta strategia e il sostegno adeguato, si può fare in modo che la transizione sia una vittoria per l’ambiente e per i lavoratori.
San Valentino.
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San Valentino è la festa degli innamorati celebrata in molti paesi del mondo il 14 febbraio di ogni anno. Tuttavia, le sue origini risalgono a molto tempo fa e sono incerte.
La leggenda più comune riguardo a San Valentino è quella del vescovo romano Valentino, che durante il regno di Claudio II, intorno al 270 d.C., avrebbe disobbedito all’editto che proibiva i matrimoni tra giovani, considerati poco utili per l’esercito. Valentino celebrava i matrimoni in segreto e in questo modo aiutava i giovani innamorati a coronare il loro sogno d’amore. Tuttavia, Claudio II lo scoprì e lo fece imprigionare e giustiziare il 14 febbraio.
Un’altra teoria riguardo alle origini di San Valentino risale al periodo antico romano, in cui si celebrava la festa della fertilità chiamata Lupercalia, che cadeva il 15 febbraio. Durante questa festa, i giovani sceltevano a sorte un partner per passare la notte insieme, in un rito simbolico di purificazione e fertilità. Con l’arrivo del cristianesimo, la festa di San Valentino si sovrappose alla Lupercalia e ne assorbì alcuni elementi.
Indipendentemente dalle sue origini, San Valentino è diventato un simbolo dell’amore romantico e della celebrazione delle relazioni affettive. Oggi, questa festa viene celebrata in tutto il mondo con gesti di affetto, regali e cene romantiche.
(Si ringrazia ChatGPT di Open.ai per la collaborazione ;-))
“STALAGMITI DI.. LAGO”
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Non si tratta di Photoshop! La foto trovata sul web è vera. Siamo sul Lago Michigan (Usa) negli Stati Uniti; lì le acque sono congelate per la maggior parte dell’inverno dato che le temperature possono scendere fino a -30°C. Poi, con il sopraggiungere di temperature più miti, invece di sciogliersi, il ghiaccio si frantuma, dando vita ad uno scenario incredibile, fatto di stalagmiti e stalattiti.
Il Lago Michigan è uno dei cinque Grandi Laghi dell’America del Nord, il secondo per volume (4900 km cubi) e il terzo per superficie (58000 km quadrati). È l’unico, dei cinque, circondato esclusivamente dal territorio degli Stati Uniti e lungo le sue sponde vivono circa 12 milioni di persone, principalmente nelle aree metropolitane di Chicago e Milwaukee.
Cieli sereni PG
7 FEBBRAIO 1974 – INDIPENDENZA DI GRENADA
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ACCADDE OGGI / 7 FEBBRAIO 1974 – INDIPENDENZA DI GRENADA
Ogni 7 febbraio è festa nazionale a GRENADA, lo Stato caraibico resosi indipendente dal Regno Unito in questo giorno del 1974. Vi sbarcò, per primo, Cristoforo Colombo nel 1498, durante il suo terzo viaggio, battezzandola Concepción. Successivamente gli Spagnoli le dettero il nome di GRENADA, per i verdi rilievi dell’isola che ricordavano le montagne sovrastanti la città di Granada in Andalusia. Grenada è nota come l’ Isola delle Spezie , in quanto produttrice di una grande varietà di spezie come cannella, chiodi di garofano e zenzero. Un posto di primo piano occupa la Myristica Fragrans, un albero sempreverde da cui si ricava la noce moscata tanto importante da venire anche rappresentata sulla bandiera nazionale.
La BANDIERA DI GRENADA 🇬🇩
Mostra 7 stelle che rappresentano le sette parrocchie della nazione: quella centrale si riferisce alla diocesi della capitale Saint George. I colori rosso, giallo e verde simboleggiano rispettivamente il coraggio, il sole e l’ agricoltura e nella parte verde a sinistra è inserito un disegno stilizzato di un frutto fresco di noce moscata.
Cieli sereni PG
ACCADDE OGGI…TONGA! 21 GENNAIO 1643
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Il navigatore, esploratore e cartografo olandese Abel TASMAN, famoso per aver scoperto la Nuova Zelanda e dato il nome alla Tasmania, approda a TONGA. 🇹🇴
Il paese è costituito da un arcipelago di 169 (!) isole sparse nell’Oceano Pacifico meridionale ma solo 36 di queste sono abitate da una popolazione totale di circa 100 mila abitanti.
Questo piccolo Regno, il cui nome deriva dalla parola polinesiana “Sud”, saltò alla ribalta delle cronache lo scorso anno quando il vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Ha’apai eruttò con la potenza equivalente a centinaia di bombe atomiche (la più forte mai registrata con le moderne attrezzature), provocando uno tsunami alto 15 metri.
CURIOSITÀ Lo Stato di Tonga è detto anche Isole degli Amici, per via del carattere cordiale degli abitanti notato all’arrivo dai primi esploratori.
Cieli sereni PG
Alba e Tramonto
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Pari non sono… Qual è l’una e quale l’altro?
Le luci dell’alba e del tramonto hanno spesso un colore molto diverso tra di loro. In fondo si tratta di uno stesso fenomeno, quindi, la luce e i colori non dovrebbero diffondersi alla stessa maniera ?
Dato che le leggi fisiche restano invariate in entrambi i casi, a parità di condizioni atmosferiche, dovremmo avere albe identiche ai tramonti, ma questo accade solamente in particolari situazioni – ad esempio – in mare aperto. Se invece ci troviamo sulla costa, come appare nelle foto, il colore dell’alba (a sinistra) puó essere diverso da quello del tramonto (a destra). Perchè? All’alba, il sole attraversa quasi tangenzialmente gli strati dell’atmosfera già sottoposti al raffreddamento notturno, mentre al tramonto gli stessi raggi percorrono la stessa traiettoria nell’atmosfera ma attraverso strati d’aria che sono stati riscaldati durante il giorno. La luce più rossa del tramonto deriva dunque dalla maggiore temperatura dell’aria.
Ma questa non è l’unica causa. Entra in gioco anche la minore o maggiore quantità di polveri in sospensione nell’atmosfera: al mattino queste ultime si possono trovare in parte depositate durante la notte, permettendo alla luce di penetrare meglio nell’atmosfera, mentre alla sera, con le polveri al massimo della sospensione, i raggi solari vengono in parte assorbiti (specialmente nella banda del blu) diffondendo una luce rossastra che diviene poi via via sempre più scura. Anche l’ umidità dell’aria ha un ruolo fondamentale secondo il seguente schema semplificato di “causa – – > effetto”.
Dato che normalmente le perturbazioni (alle nostre latitudini) provengono da Ovest, l’aria secca eventualmente presente in quella direzione (verso ponente = al tramonto) è presagio di bel tempo per le ore successive e ciò spiega il proverbio: “rosso di sera bel tempo si spera”
In mezzo a tutte queste spiegazioni di leggi fisiche di diffusione e rifrazione, entra in gioco anche il nostro occhio, che si adatta diversamente quando la luminosità ambientale è in aumento o in diminuizione (dopo la notte l’occhio è in grado di cogliere molte più sfumature di colori), e il nostro cervello, che interpreta il tutto in modo indipendente, dà percezioni di colore che spesso sono diverse da persona a persona.
Cieli sereni PG
#PRENDIPOSIZIONE
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di Redazione Online
Amleta è un’associazione di promozione sociale il cui scopo è contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo.
È stata fondata da 28 attrici distribuite su tutto il territorio nazionale.
Amleta è un collettivo femminista intersezionale che punta i riflettori sulla presenza femminile nel mondo dello spettacolo, sulla rappresentazione della donna nella drammaturgia classica e contemporanea ed è un osservatorio vigile e costante per combattere violenza e molestie nei luoghi di lavoro.
Discriminazioni, stereotipi, sessismo, abusi, gender gap, gender pay gap, gestione dei fondi pubblici: questo è il problema!
Amleta è nata per raccogliere dati e monitorare le differenze di trattamento tra donne e uomini nel mondo dello spettacolo, per chiedere spazi in cui le donne possano esprimere i loro talenti ed esercitare la loro intelligenza.
Amleta è nata tutte le volte che sopra un molestatore o un abusante è stata messa la vernice glitterata dell’artista genio a cui tutto è concesso.
Amleta è nata da tanto tempo e in tanti luoghi.
A questo link il manifesto della associazione, che noi di FUORI invitiamo a sostenere divulgando e soprattuto esercitando quotidianamente, nella vita e nel lavoro, i principi fondanti dell’Organizzazione.
7 GENNAIO FESTA DEL TRICOLORE
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Oggi 7 gennaio si celebra la FESTA DEL TRICOLORE.
È necessario un vessillo nazionale, tra un popolo che risorge a libertà; necessarissimo a noi, nella lotta che stiamo per incominciare; a noi che quasi stranieri ci guardiamo fra un popolo e l’altro….Un tale vessillo dobbiamo creare…. Il 16 luglio 1789 il rosso ed il turchino, colori della città di Parigi, erano decretati colori nazionali; ad essi univasi il bianco in onore del re, e così componevasi la bandiera di Francia. Noi al bianco ed al rosso, colori della nostra Bologna, uniamo il verde, in segno della speranza che tutto il popolo italiano segua la rivoluzione nazionale da noi iniziata, che cancelli que’ confini segnati dalla tirannide forestiera.
(Luigi Zamboni, 16 settembre 1794)
Queste parole spiegano il perché la bandiera italiana, simile a quella francese, è VERDE, BIANCA e ROSSA: nel 1794 due studenti dell’università di Bologna – Luigi Zamboni e Giovanni Battista de Rolandis – furono i primi ad apporre in una coccarda i tre colori bianco, rosso e verde modificando quella francese: la speranza era quella di restituire l’indipendenza a Bologna. Il bianco e il rosso ricordavano il colore delle rispettive città di provenienza (Bologna e Castell’Alfero – Asti) mentre il verde era il colore della speranza. Speranza ben presto infranta, perché i due giovani patrioti furono scoperti e giustiziati.
CURIOSITÀ I colori della bandiera italiana hanno anche un significato religioso legato alle tre virtù teologali fede, speranza e carità. L’accostamento è intuibile: il bianco è la fede, il verde la speranza e il rosso la carità.
Cieli Sereni 🇮🇹 PG
7 GENNAIO 2023 LA LUNA PIENA DEL LUPO
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Oggi 7 Gennaio siamo al PLENILUNIO. Il plenilunio è la fase della Luna durante la quale l’emisfero lunare che è illuminato dal Sole è interamente visibile dalla Terra. Ciò avviene perchè in quel momento la Luna si trova “in opposizione” rispetto al Sole ed è detta LUNA PIENA . Quella di gennaio è definita la LUNA DEL LUPO, così chiamata dai nativi americani che in questa stagione sentivano i lupi affamati ululare vicino ai loro villaggi.
LA LEGGENDA Una leggenda racconta che un giorno la Luna, scesa sulla Terra, mentre si trovava in un bosco, rimase impigliata ad un ramo. Un lupo la liberò e per tutta la notte la Luna e il lupo rimasero insieme raccontandosi mille storie. La Luna si innamorò di quell’animale, ma sapendo che doveva andarsene e presa dall’egoismo, rubò l’ombra al lupo per non dimenticare quell’ incontro. Da allora, il lupo ulula alla Luna perché vuole indietro la sua ombra.
L’ULULATO A parte la leggenda, l’ululato del lupo è un fenomeno molto curioso. Ogni lupo ha il suo ululato, unico e inimitabile, con cui comunica con gli altri esemplari del branco. Affinché si possa udire il più lontano possibile il lupo alza la testa e da qui è nata la credenza che i lupi ululino alla Luna. Inoltre l’ululato è una forma di controllo; se, ad esempio, si ritrovano lontani dal resto del branco, i lupi ululano per “rassicurarsi” a vicenda in vista di ricongiungersi. Inoltre si è constatato che la Luna influenza effettivamente l’ululato dei lupi, soprattutto nella sua intensità e frequenza, specialmente quando è piena.
Cieli sereni PG
I villaggi di Asterix, quello vero.
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Breden, (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
58-52 a.C.: Giulio Cesare conquista la Gallia. Tutta? (cit.) Si, proprio tutta, con buona pace dei galli e galletti di cartone Goscinny, Uderzo, Asterix e Obelix. I limiti orientali della Gallia, e quindi del dominio di Roma, vengono fissati sul Reno. Reno che comunque viene occasionalmente passato almeno un paio di volte dalle legioni romane (grazie ad incredibili ponti allestiti in pochi giorni, descritti accuratamente dallo stesso Cesare) solo – per “convincere” i Germani, diciamo con modi un tantinello spicci – di rimanere più tranquilli nei loro villaggetti al di là del fiume, evitando di commettere scorribande in Gallia. Ecco, appunto, villaggetti. Al di là del Reno non c’erano infatti delle città, ma degli insediamenti abitativi molto più rarefatti: come Giulio Cesare aveva già notato, e come spiega ancor meglio Tacito (98 d.c.) nel suo “De origine et situ Germanorum”:
“È notorio che le popolazioni germaniche non hanno vere e proprie città e che non amano neppure case fra loro contigue. Vivono in dimore isolate e sparse, a seconda che li attragga una fonte, un campo, un bosco. Non costruiscono, come noi, villaggi con edifici vicini e addossati gli uni agli altri: ciascuno lascia uno spazio intorno alla propria casa o per precauzione contro possibili incendi o per imperizia nella costruzione. Non impiegano pietre tagliate o mattoni: per ogni cosa si servono di legname grezzo, incuranti di assicurare un aspetto accogliente.“
Ehrsen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Testimoniando così l’esistenza di edifici simili a quella che sarebbe poi diventata la fachwerkhaus, la casa caratteristica dei popoli germanici. Per rendere l’idea, nell’odierna Geimar-Fritzlar, in Turingia, esiste una ricostruzione di un insediamento abitativo tipico della tribù dei Catti, allora posizionati tra il Reno e il Meno al tempo di Augusto.
Come sappiamo, i programmi di Cesare che, secondo Plutarco, dopo queste escursioni dimostrative aveva in mente di rimettere le cose definitivamente a posto nella “Germania Magna” (quella oltre il Reno), furono bruscamente interrotti da Bruto e Cassio nelle ben note Idi di Marzo del 44 a.C.
A sua volta Augusto, dopo qualche anno e una volta “chiarita” nel Mediterraneo la situazione con Marco Antonio e Cleopatra, riprese il programma di Cesare nel nord Europa, spostando il confine orientale dell’Impero dal Reno all’Elba e provando ad imporre il “lifestyle” romano anche alle tribù barbariche dislocate tra questi due grandi fiumi. Fu decisamente un fallimento: il governatore Varo, avido ed ottuso, proveniente dalla Siria e abituato alle corruzioni e alle mollezze dei regni mediorentali, non capì nulla dello spirito libero, selvaggio ed indomito dei Germani che nel 9 d.c. si unirono sotto la guida di Arminio (Hermann der Cherusker) per ribellarsi a Roma, annientando tre legioni in quella che sarebbe diventata la “Clades Variana”, la disfatta di Teutoburgo. La peggiore sconfitta subita da Roma dai tempi di Annibale.
Si è giustamente detto che queste circostanze (la congiura contro Cesare, la ribellione – o il vile tradimento, a seconda del punto di vista – di Arminio) abbiano radicalmente cambiato il corso della Storia, sottolineando che se Roma ha perso la Germania, allo stesso modo la Germania perse Roma, con tutte le conseguenze del caso: tralasciando gli aspetti politici, filosofici, religiosi, culturali e linguistici che ne sarebbero conseguiti, tra Reno ed Elba non furono più costruiti edifici pubblici, terme, ponti, strade, acquedotti, fortificazioni, accampamenti, mura, città. Quindi, niente “Insulae”, nessuna “Domus”. Le abitudini dei Germani sarebbero infatti rimaste sostanzialmente quelle descritte da Cesare e Tacito ancora per diversi secoli se non millenni; ancora oggi possiamo facilmente rintracciare il DNA delle abitazioni di duemila anni fa nell’ odierna “casa a graticcio”, la fachwerkhaus.
Gutersloh, (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Ehrsen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Fachwerk, in tedesco, è il termine che si usa per definire questa artigianale e plurisecolare metodologia costruttiva in cui l’edificio è sorretto da una struttura lignea portante, fatta di montanti, travi e puntelli, sapientemente assemblati tra loro. Lo scheletro a vista – che si direbbe oggi “eco-friendly” – grazie all’elasticità propria del legno riesce a resistere anche a grandi sollecitazioni di neve e vento. Le tamponature tra le travi e i pannelli (Gefach), sono di norma riempite con un graticcio o una cannicciata di rami sottili rivestita di argilla su entrambi i lati, oppure – meno frequentemente – con un impasto di ciottoli e/o laterizi.
Presso Hollenstein (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
La struttura così evidente, non diversamente da quella propria della tradizione giapponese alla quale per certi versi un poco assomiglia, assume anche una forte valenza decorativa, smentendo così l’ingeneroso giudizio estetico di Tacito (nota a sua discolpa: era abituato a ben altro stile, quello imperale di bronzi e marmi; si pensi che allora il Colosseo era nuovo di zecca…)
Bad Salzuflen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Bielefeld, Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Questo principio costruttivo, di uso corrente fino all’Ottocento, è stato declinato in molte variazioni e trasformazioni influenzate dalle caratteristiche storiche e geografiche delle diverse regioni tedesche (e anche francesi: già Cesare aveva scritto che le case dei Galli, dei Britanni e dei Germani si assomigliavano: la continua osmosi culturale tra le due rive del Reno ha fatto il resto),
Gutersloh, (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Le case a graticcio in Germania si trovano ancora in una stupefacente varietà di forme, intrecci e decorazioni, a volte figurative, altre puramente ornamentali, tutte diverse tra loro a causa delle caratteristiche spiccatamente artigianali; anche a cercarle col lanternino, non si trovano infatti due case Fachwerk uguali tra loro.
Bad Salzuflen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, DeutschlandBad Salzuflen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Bad Salzuflen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Schwalenberg, (Lippe) Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Bad Salzuflen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Bergkirchen, (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Bad Salzuflen (Lippe), Nordrhein-Westfalen, Deutschland
Il periodo di massimo splendore dell’edificio a graticcio è senz’altro quello tra il XVI e l’inizio del XVII secolo. Esiste addirittura una strada delle case a graticcio (“Fachwerkstraße”) che attraversa per 2.800 km tutta la Germania, dal nord al sud, collegando quasi 100 città tedesche, attraversando ben 6 Lander: Bassa Sassonia, Sassonia-Anhalt, Turingia, Assia, Baden-Württemberg, Baviera. Ma, e questo per noi è davvero tanto sorprendente quanto incomprensibile, escludendo proprio la Renania settentrionale-Vestfalia, cioè proprio quella regione appena al di là del Reno, e cioè quella più direttamente interessata dalle vicende descritte da Cesare e Tacito.
Nel cuore della Nordrhein-Westfalen (questo il nome attuale del Land, in tedesco) e segnatamente nella provincia della Lippe, sono invece conservati un gran numero di edifici a graticcio, nei piccoli centri storici o dispersi tra boschi e campi: ne abbiamo quindi fotografati alcuni che si trovano fuori delle grandi rotte turistiche, nelle località di Ehrsen, Breden, Bad Salzuflen, Schotmar, Gutersloh, Bergkirchen, Hollenstein, Schwalenberg, Herford. Edifici che, non a caso, si trovano disseminati nella Selva di Teutoburgo, sì, proprio la foresta teatro della battaglia tra Germani e Romani del 9.d.C.
Al centro della quale, sulla sommità di una collina, svetta un ciclopico monumento dedicato ad Arminio, l’Asterix teutone capo della resistenza militare – e culturale – contro i Romani: in ultima analisi, è anche merito suo se le case a graticcio si sono continuate a costruire e sono arrivate fino a noi secondo la tradizione locale, quella raccontataci da Giulio Cesare e Publio Cornelio Tacito.
Il 2 gennaio 1839 Louis Jacques Mandé Daguerre, un chimico e fisico francese, realizza la prima fotografia della luna. Quel giorno diviene una data storica per il mondo dell’astronomia.
L’immagine del satellite terrestre realizzata da Daguerre fu in realtà ottenuta utilizzando una lastra di rame su cui venne applicato uno strato di argento poi sensibilizzato alla luce tramite vapori di iodio. La lastra venne esposta per circa dieci minuti, ma lo sviluppo vero e proprio avvenne tramite vapori di mercurio a 60° C. Il fissaggio conclusivo fu ottenuto con una soluzione di iodio e argento. Questa tecnica, allora inedita, di fissaggio dell’immagine, prese proprio il nome dal suo inventore, ovvero la DAGHERROTIPIA.
Cieli sereni PG
Il Solstizio d’Inverno
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Ogni 21 dicembre ci troviamo al SOLSTIZIO D’INVERNO (dovremmo più propriamente chiamarlo ‘Solstizio di Dicembre’ dato che per metà del mondo adesso è estate!).
Il Sole, a mezzodì, ovvero nel suo punto più alto, sarà alla sua MINIMA ALTEZZA sull’orizzonte rispetto agli altri giorni (allo stesso orario) e descriverà nel cielo l’arco diurno più corto dell’anno. Il Sole “indugerà” ancora per qualche giorno in questo suo percorso minimo e per questo si definisce Solstizio dal latino “Sol” = Sole e “sistere” = sostare.
L’astronomia ci insegna che nel nostro emisfero il giorno del solstizio, che puó cadere il 21 o il 22 dicembre, è il dì più corto dell’anno (intervallo di tempo minimo tra alba e tramonto). Comunemente la nostra percezione della lunghezza delle giornate si basa sull’osservazione dell’anticipo (o ritardo) dell’ora del TRAMONTO del sole (di solito siamo tutti svegli e ne possiamo apprezzare la variazione), piuttosto che dell’anticipo o ritardo del SORGERE del sole (a quell’ora molti ancora dormono o non sono ancora usciti di casa). Siamo quindi più propensi a battezzare come il ‘giorno più corto’ quello in cui il sole tramonta prima invece di considerare, nelle 24 ore, il mimimo arco temporale di luce .
Ci domandiamo dunque: oggi 21 dicembre, Solstizio d’Inverno, é anche il giorno in cui il sole tramonta prima, ovvero, fa buio prima? La risposta è NO!
I più attenti avranno fatto caso che in questi giorni già si sta facendo buio più tardi dando l’impressione che le giornate si stiano allungando. Pochi però avranno notato che l’alba sta ancora ritardando. Di fatto, l’accorciamento delle giornate non é ‘sincronizzato’ tra ritardi dell’alba e anticipi dei tramonti: in altre parole non c’è coincidenza tra il giorno del massimo ritardo dell’alba, il giorno del massimo anticipo del tramonto e la data del dì più corto.
Un esempio A Roma (latitudine ~42° N), in questo dicembre 2022, il massimo anticipo del tramonto (ore 16.39) si é avuto il 5 dicembre scorso. Il massimo ritardo del sorgere (ore 07:38) si raggiungerà il 4 Gennaio 2023. Il dì più corto è, appunto, oggi 21 dicembre con 9 ore e 8 minuti di soleggiamento.
Perchè queste tre date non coincidono? Ciò dipende da due cause:
1^ Causa La variazione del moto orbitale della Terra (Equazione del tempo). La velocità della Terra lungo la sua orbita ellittica intorno al Sole presenta un punto più vicino alla nostra stella (Perielio) ed uno più lontano (Afelio). Il nostro pianeta, a dicembre, si trova (strano ma vero..) PIÙ VICINO al Sole (arriverà al Perielio il prossimo 4 gennaio) e per la 2ª legge di Keplero accelera il suo moto (il contrario avviene in prossimità dell’ Afelio). Conseguentemente accelera il moto apparente del Sole sulla volta celeste trovandosi in una posizione “anticipata” rispetto al ‘sole medio’ (un sole fittizio che ha un moto uniforme), importante perchè cadenza le ore, i minuti e i secondi ….dei nostri orologi. Ciò riduce, di fatto, ogni giorno, il tempo in cui il Sole illumina la terra.
2^ Causa L’ inclinazione dell’asse terrestre sull’orbita (variazione della declinazione del Sole). La variazione della declinazione del sole (al solstizio invernale) fa sì che i giorni in cui il sole tramonta prima sono quelli della prima settimana di dicembre.
CONCLUSIONE Il risultato netto delle due cause sopra descritte è stato, sempre per Roma:
fino all’5 dicembre è stato preponderante l’effetto della variazione della declinazione (è negativa: anticipa il tramonto e ritarda l’alba).
dopo il 5 dicembre, l’effetto della variazione di declinazione è superato dall’equazione del tempo, e ritarda sia l’alba che il tramonto. Il sopravvento dell’equazione del tempo avverrà fino al 4 gennaio.
dopo il 4 gennaio ritornerà preponderante l’effetto della declinazione: l’alba comincerà ad anticipare ed il tramonto continuerà a ritardare.
La stessa cosa, seppur meno accentuata, si verificherà intorno al solstizio d’estate 2023 (21 giugno): a Roma si avrà l’alba più anticipata il 13 giugno (04:34) e il tramonto più tardivo il 25 giugno (19:49).
Cieli sereni PG
“I love Allah”
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Mullah Neda Mohammad Nadeem, ex governatore e comandante militare, nonché esponente della linea dura religiosa, è stato nominato responsabile dell’Università lo scorso ottobre e sin da subito aveva espresso la sua ferma opposizione all’istruzione femminile, definendola non islamica e contraria ai valori afghani.
Sin dal loro arrivo al potere, i talebani, dopo aver di fatto impedito alle donne di lavorare e aver imposto il velo integrale che deve lasciare scoperti solo gli occhi (ma con il burqa vanno nascosti anche quelli), nel marzo scorso avevano disposto la chiusura delle scuole femminili, in attesa di nuove direttive in accordo con la legge islamica.
Direttive mai emesse, senza contare che senza aver frequentato le scuole superiori è di fatto impossibile accedere all’università.
In questo contesto, tre mesi fa migliaia di ragazze e donne avevano potuto sostenere gli esami di ammissione all’università in tutto il paese, anche se nell’ambito di radicali restrizioni sulla scelta dei corsi di studio, con veterinaria, ingegneria, economia e agricoltura vietate, e giornalismo severamente limitato.
fonte : www.ansa.it
Siamo perbenisti con i pensieri degli altri. Pronti a giudicare, senza mai guardare quella trave. La nostra.
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Ci sono momenti, nella vita di tutti noi accade inevitabilmente, in cui ci si trova nella situazione in cui scegliere fra il vivere un momento della propria vita in maniera piena, intera, completa, o piuttosto atteggiarsi in un falso, corretto, formale atteggiamento che, tutto il resto del mondo, perbenista ed ipocrita, gli chiede di vivere.
Scarcity Marketing [il Must Have che in verità non vuoi avere]
Le tecniche del marketing sono davvero molteplici e si nascondono dietro bisogni, esigenze e illusioni, che troppo spesso non pensiamo nemmeno di avere.
Una di queste è la Scarcity Marketing.
Per Scarcity Marketing si intende quella strategia che utilizza il principio di scarsità (questa è infatti la traduzione italiana), facendo leva sui timori del consumatore di non possedere uno specifico servizio o prodotto e agendo sulla sua paura inconscia di perdersi qualcosa.
Da qui, si crea quindi un vero e proprio senso di urgenza, una necessità di acquisto che porta a non perdere tempo e non ragionare sull’effettiva utilità dell’acquisto.
Elementi che la caratterizzano:
– offerte a tempo limitato (urgenza)
– posti limitati (esclusività)
– pezzo unico (rarità)
– ultimi pezzi rimasti (eccesso di domanda)
A questo punto, siamo certi che avete capito benissimo di cosa stiamo parlando!
Questa subdola quanto affascinante strategia, si basa sulla psicologia cognitiva, ovvero quel principio secondo cui gli esseri umani sono portati a desiderare ciò che gli appare come limitato o che rischia di non essere più reperibile.
Lo psicologo americano R. Cialdini – uno dei primissimi studiosi a descrivere il principio di
scarsità applicato al marketing – ha affermato che “le opportunità sembrano più preziose
quando la loro disponibilità è limitata” e che “la scarsità porta l’individuo a
desiderare ciò che appare come limitato o che rischia di non avere più a causa di
un’attesa prolungata”.
In sintesi, sembrerebbe che noi siamo più portati a desiderare quello che risulta praticamente quasi impossibile da avere.
“Per FOMO (acronimo per l’espressione inglese “fear of missing out”, letteralmente “paura di essere tagliati fuori”) si intende quella paura o ansia sociale di perdere, non aver accesso o essere esclusi da eventi, esperienze, contesti sociali rilevanti”.
Si tratta di una delle dinamiche tipiche di Internet e possono essere spiegate semplicemente come l’impulso di vedere immediatamente le Stories pubblicate da amici e personaggi famosi su Instagram, lo scrolling automatico che facciamo su Facebook, le serie tv da guardare subito non appena escono, così da poterle commentare immediatamente e stare al passo con i discorsi.
Quindi la FOMO unita alle tecniche di Scarcity marketing, costituiscono una combo pazzesca per indurre a comprare d’impulso e non ragionare abbastanza su quello che si sta acquistando.
Due condizioni indivisibili arricchiscono la situazione: il desiderio di esclusività e quello di popolarità.
Basandosi su questi princìpi, la maggior parte delle strategie di Scarcity marketing più diffuse possono essere suddivise in:
– Limited-Time Scarcity (LTS), dove il consumatore è consapevole di avere
un determinato limite di tempo per ottenere il prodotto, spesso alle
condizioni di una promozione in corso
– Limited-Quantity Scarcity (LQS), dove il consumatore è informato della
limitata disponibilità di un certo prodotto in vendita e quindi del rischio di non
poterlo acquistare in futuro, perché esaurito (innescando così anche la FOMO).
Rendere prodotti / servizi / situazioni disponibili solo per un determinato periodo di tempo, facendo intendere che è vantaggioso fare l’acquisto esclusivamente in quel momento, è uno dei pilastri dei saldi nei negozi e degli sconti proposti da alcuni brand (come i famosi Prime Days di Amazon).
C’è da dire che ormai tutti noi siamo abituati a questo meccanismo, quindi, per non perdere l’efficacia del meccanismo, vengono create altre situazioni, che sostengono la semplice idea del “pagar meno”.
Edizioni limitate, limitata disponibilità, countdown di fine offerta, ma anche prezzi proibitivi (spesso usati nei settori del lusso) sono solo alcune delle sfaccettature di questa strategia, così semplice ma efficace.
Casi studio
Coca Cola
Nel 2011 la Coca Cola lanciò in Australia una campagna di marketing multinazionale
nella quale il noto logo veniva sostituito con un nome di persona, da scegliere tra i 250 più popolari nel Down Under.
Come sappiamo, la campagna ebbe così tanto successo, che fu successivamente lanciata in oltre 80 paesi!
In Australia, fu stimato un aumento del 4% della quota di Coca-Cola nel suo
settore ed un aumento del 7% nel consumo da parte dei giovani adulti
Negli Stati Uniti, l’aumento delle vendite si attestò ad oltre il 2%, invertendo un
trend al ribasso che durava da più di 10 anni
Molti esperti del settore pubblicità hanno sfruttato successivamente il successo
della campagna “Share a Coke” per ricordare l’efficacia della personalizzazione
del messaggio promozionale
Hermès
L’ambasciatore indiscusso dell’applicazione dello Scarcity Marketing nel settore moda di lusso, è sicuramente Hermès.
Per acquistare una Birkin o una Kelly ,le liste d’attesa possono arrivare fino a due anni e il prezzo varia dai 7.000 ai 100.00 euro.
La difficolta d’acquisto però non è un deterrente, bensì un motivo in più per volere la borsa e distinguersi dagli altri.
Maison Cléo
Un giovane brand parigino, con 200 mila follower su Instagram, che vede le sue collezioni andare in sold-out in poche ore.
Come ci riesce?
L’idea della fondatrice è davvero semplice: utilizzare solamente tessuti di scarto, per motivi di sostenibilità ambientale.
Tutte le settimane, in base ai materiali recuperati, Maison Cléo crea abiti ogni volta diversi.
La comunicazione avviene solo tramite il profilo Instagram e i vestiti vengono venduti sull’e-commerce il mercoledì.
Questo sistema crea grande interesse attorno al brand, perché le novità sono costanti e i pezzi limitati.
Lidl
Nel 2020, la famosa catena di supermercati ha deciso di creare una propria linea di abbigliamento.
Forse non tutti sanno che i capi targati “Lidl Fan Collection”, sono nati dopo una precedente iniziativa del colosso tedesco, che offriva ai clienti la possibilità di vincere dei calzini, se si fossero recati in negozio per un selfie.
Ebbe talmente tanto successo che, dopo pochi mesi, sono usciti sul mercato cappelli, scarpe, magliette e ciabatte con i colori e il logo del supermercato, ad un prezzo davvero basso, quasi ridicolo.
Qui è stata la svolta: in poche ore si è registrato un imprevisto tutto esaurito e quei capi acquistati per pochi euro, sono stati ritrovati su EBay a cifre folli.
Ma perché funziona così bene questa tattica di mercato?
– Amiamo creare scorciatoie in un mondo così sempre complesso e frenetico.
È facilissimo determinare il valore di qualcosa in base alla disponibilità: se è rara, supponiamo che sia di qualità superiore e che valga ben più di un oggetto comune, facile da ottenere.
– Il principio di scarsità limita il numero di opportunità che abbiamo a disposizione.
Diminuendo le opportunità, perdiamo la libertà di scegliere e noi siamo psicologicamente portati a reagire fermamente contro questa perdita (reattanza psicologica).
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
La bandiera Argentina
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Non tutti sanno che la bandiera dell’Argentina ha remote origini italiane!
La creó nel 1812 il generale, politico ed economista Manuel Belgrano, il cui padre Domenico era un commerciante di Oneglia (Imperia), emigrato in Spagna e poi in Sud America. Secondo la tradizione, il vessillo, che ha due bande azzurre e una bianca, fu ispirato da uno sguardo levato verso il cielo dal generale, mentre si trovava sulla riva del fiume Paraná. Si racconta un’altra storia sull’origine dei colori della bandiera argentina che sembra derivino dai colori delle vesti della Madonna, nelle rappresentazioni tradizionali dei due veli bianco e celeste. Al centro della bandiera è posto un emblema del Sole, il Sol de Mayo, che richiama la Rivoluzione di maggio, l’inizio del processo di indipendenza dalla Spagna. Un sole dal volto umano simboleggia Inti, il dio sole del popolo Inca artefice di una delle maggiori civiltà precolombiane che si sviluppò nell’altopiano andino, tra il XII e il XVI secolo.
Cieli sereni PG
Avatar 2, un primo giorno in stile Thor
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di Redazione Online
Nessun record.
“Avatar: La via dell’acqua” è partito al botteghino italiano con 1.454.100 euro nel primo giorno, poco più del 1.410.000 registrato alla partenza da “Thor: Love and Thunder”.
Nel 2022 il debutto migliore era stato quello di “Doctor Strange nel Multiverso della Follia” con 2.027.000.
Numericamente, “Avatar 2” sembra che attiri lo stesso tipo di interesse che è consolidata per le “Saghe Marvel”, e se dovessimo basarci solo sull’analogia suggerita dai numeri con “Thor 4”, potremmo vedere un traguardo finale italiano sui 12 milioni di euro.
Dato importante per il “mercato cinema” odierno, ma non epocale, come il lungometraggio (il film dura più di 3 ore!!) dovrà essere, visto quanto è costato ed è dunque costretto ad incassare.
“The Batman” con Robert Pattinson, debuttò peggio con 695.000 euro, ma alla fine ha superato comunque i 10 milioni al botteghino italiano.
Se, per ipotesi, “Avatar 2” dovesse crescere come “The Batman “ anche aiutato dalle imminenti feste natalizie, potrebbe riuscire ad arrivare a toccare i 20 milioni.
I paragoni tra “AVATAR 2” e il suo predecessore AVATAR sembrano per ora fuori parametro: il primo, quando uscì nel 2010 incassò in Italia, a metà gennaio 2010, ben 65 milioni di euro, portando al cinema 7.500.000 di spettatori.
Per curiosità, consideriamo che dopo la pandemia un solo film è riuscito a superare la soglia dei 20 milioni qui da noi, cioè “Spider-Man No Way Home “dell’anno scorso, arrivando ai 25 diventando peraltro un fenomeno di costume, comprensivo di “reaction” in sala condivise sui social.
No, non stiamo parlando di una canzone o di un episodio della saga di Star Trek: Voyager, ma dell’appuntamento che qualsiasi persona, patita dello shopping o meno, non si fa sfuggire!
Lo avete aspettato da mesi, avete screenshottato oggetti, fatto liste dei desideri, immaginato il momento dell’acquisto e, anche se ormai è già passato, i suoi effetti rimarranno indelebili, soprattutto nelle carte di credito.
Ma sapete che se avete deciso per un brand invece che un altro, è anche merito della loro linea di comunicazione?
Ebbene sì. Mettetevi comodi e noi in pochi minuti vi mostreremo alcuni esempi di campagne marketing davvero efficaci.
“And the Oscar goes to…”
Un posto d’onore sicuramente spetta al colosso statunitense Amazon.
Ogni anno, la più grande Internet company al mondo propone già dall’inizio di Novembre spot e video, che sono molto più di una semplice azione pubblicitaria.
Come ad esempio per “Thoughtful Theo”: qui il premuroso protagonista Theo decide di giocare d’anticipo sui regali di Natale e iniziare a fare acquisti approfittando degli sconti disponibili anche prima del Black Friday.
In questo modo, non solo risparmierà molti soldi, ma può pensare tranquillamente a rendere felici tutti, persino il suo dentista!
Inoltre, con la consueta tagline: “Spend Less. Smile More.”, il filo conduttore tra acquisto intelligente – regalo per tutti – dentista – sorriso è immediato, facilmente comprensibile e pone una situazione che per la maggior parte delle persone è sinonimo di dolore, come una perfetta occasione per sorprendere qualcuno.
Invece con “Wonderland Will”, Amazon ci convince a non farci scappare l’occasione di regalare gioia a chi ci sta intorno quotidianamente o a iniziare a far risplendere la magia del Natale anche nell’ambiente che ci circonda.
15 secondi per mostrare come gli acquisti fatti da Will, abbiano trasformato il suo posto di lavoro in un suggestivo villaggio di Natale, rendendo così felici anche i suoi colleghi.
Un tocco in più dedicato alla sostenibilità viene dato alla fine, quando è sottolineato il fatto che abbia decorato le sale con carta da stampate riciclata.
Amazon in questo modo ci tiene a rimarcare come i suoi servizi possano migliorare la qualità della vita dei suoi clienti, riuscendo a portare l’identità del brand (nel suo logo c’è un infatti un sorriso) a fianco a sentimenti come felicità e gratificazione.
E dall’Europa arriva una risposta che è tutto, tranne che impercettibile!
Anche MediaWorld si difende molto bene e la sua strategia di giocare d’anticipo sugli sconti è pensata per portare a far fare acquisti “con calma”, così da avere tempo per vedere bene tutte le offerte e capire quali siano quelle più vantaggiose.
Per fare questo, gli eclettici e poliedrici protagonisti “Elio e le storie tese” hanno raccontato, tramite micro pillole della durata di 30 secondi, le offerte delle settimane antecedenti il Black Friday.
La scelta dei testimonial non poteva essere più azzeccata: MediaWorld aveva infatti l’intento di far arrivare il messaggio della favolosa lunghezza temporale delle sue offerte e chi meglio de “i più grandi allungatori di vocali italiani” – come per stessa definizione data da Elio – poteva farlo?!
“Il brand (in Italiano “il brando”) si è accorto delle nostre doti camaleontiche e soprattutto di una dote di cui nessuno si era accorto finora: la nostra capacità di allungare le vocali. Così, quando si è posto il problema di allungare la “i” (in inglese “ai”) di Black Friday, è stato naturale pensare a noi”, commenta il frontman del gruppo.
Da questa base, viene creato un video divertente, efficace e semplicissimo: gli Elio e le Storie Tese salgono sul palco di MediaWorld per dare il via e rendere più lungo possibile il Black Friiiiiiiiday aziendale!
https://www.youtube.com/watch?v=vV_lTcWFh_E
Ma il Black Friday è anche occasione per fare “qualcosa di più”!
C’è anche tanta voglia di scardinare gli schemi e rendere protagonisti chi invece proprio quella giornata non vede l’ora che finisca.
L’iniziativa, che prende il nome di # OptOutside, è rivolta anche ai consumatori: un invito celebrare il tempo nella natura, mettendo così da parte quella frenesia consumistica e lo stress che possono derivare da dover fare acquisti “quasi per forza”, come se davvero non ci fossero altre alternative o altro modo per passare quei due giorni di festa.
Ah, per i dipendenti sarà comunque una giornata lavorativa retribuita.
E secondo voi poteva mancare il miglior amico delle nostre case?
Di controtendenza anche Ikea con il suo #BuybackFriday: oltre alle solite imperdibili occasioni, una delle aziende leader nella vendita di mobili, complementi d’arredo e oggettistica per la casa, dà la possibilità ai suoi clienti di portare mobili usati, restituendo un buono del 50% del loro valore.
In più, tutta la merce reputata “non idonea” per una nuova vendita, verrà riciclata o donataalle comunità bisognose.
Il noto marchio di abbigliamento, oltre ad essere molto noto e popolare, non è nuovo nell’aiutare ambiente e comunità: in occasione di un Black Friday di qualche anno fa, ha infatti lanciato la sua 100% For the Planet campaign.
Nello specifico, tutto 100% delle vendite della giornata è donata a enti di beneficenza e organizzazioni di base per il cambiamento ambientale.
In maniera quasi inaspettata, la campagna è ha raggiunto oltre 10 milioni di dollari, invece dei 2 milioni di dollari previsti, dimostrando anche come i clienti siano disposti a spendere qualcosina in più, se sanno che i loro soldi saranno utilizzati per rendere il mondo un posto migliore.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
Se invece di analizzare il mondo del lavoro in un’ottica analitica, lo leggiamo simbolicamente attraverso le lenti della psicologia archetipica, esso ci svela lati inediti ed insospettabili.
Introduzione
Negli gli ultimi due anni analizzando i miti dell’antica Grecia ( qui ) abbiamo appreso come essi non siano soltanto i protagonisti di una religione politeista ma che, in accordo con il modello della psicologia archetipica, interpretano i sentimenti e le emozioni che vivono in ciascuno di noi.
Per quanto riguarda le organizzazioni aziendali, c’è chi le chiama imprese, chi aziende, altri società, sono a disposizione innumerevoli libri che le analizzano proponendo soluzioni per renderle più redditizie ed efficienti e che forniscono consigli ai dirigenti su come trasmettere entusiasmo e passione ai loro collaboratori.
Il nostro scopo, invece, è quello di sostituire questa interpretazione con la visione che abbiamo mutuato ed adattato da una frase sovente ripetuta da James Hillmann il quale, citando il poeta inglese John Keats, diceva «Chiamate, vi prego il mondo -la valle del fare anima- e allora scoprirete a cosa serve il mondo». Noi invece, adattandola a questo contesto preferiamo dire «Chiamate, le organizzazioni -le valli del fare anima- e allora scoprirete a cosa esse realmente servono».
Ma cosa si intende per fare anima ?
Si tratta di qualcosa di più e di più profondo che porre l’individuo al centro delle aziende, come anche noi abbiamo fatto negli articoli pubblicati otto anni fa sulla rivista edita dal Coni “Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport”, rivista riservata agli allenatori di atletica leggera (vedere bibliografia), ma adesso, riteniamo che sia arrivato il momento di fare un ulteriore salto di qualità e comprendere che i luoghi di lavoro sono anche spazi dove ognuno, interagendo con l’ombra dell’altro, ombra nel senso junghiano del termine, fa quello che gli antichi greci, chiamavano la «γνῶθισαυτόν– gnothi sayton» ovvero, «la conoscenza profonda di sé».
In quest’ottica, il cosiddetto «posto di lavoro», da mezzo di sostentamento, luogo per conseguire il successo personale, ma anche talvolta “covo di vipere”, diventa il posto dove il nostro Ego, ovvero il lato «costruito» che facciamo vedere agli altri e che in primis nasconde a noi stessi la nostra vera ed unica essenza, si scontra con i lati oscuri, i cosiddetti lati ombra dei nostri colleghi e superiori con lo scopo aureo di aiutarci a «fare anima».
D’altro canto proprio Carl Jung, il “nonno” della psicologia archetipica soleva dire: «Non si diventa illuminati perché si immagina qualcosa di chiaro, ma perché si rende cosciente l’oscuro».
Ma per poter rendere visibile questo materiale non ancora elaborato, da noi tanto temuto ma che non necessariamente contiene aspetti malvagi o negativi, dobbiamo prima, in accordo con il modello che abbiamo preso in prestito dalla psicologia archetipica, riconoscere l’ombra sotto forma di miti che pervadono l’organizzazione e poi, identificare gli dei che simbolicamente agiscono dentro di noi, perché “fare anima” vuol dire iniziare a comprendere le imperscrutabili dinamiche che operano all’interno della nostra psiche, anche e soprattutto grazie a coloro con i quali trascorriamo, magari senza provare alcuna particolare simpatia, otto o più ore, al giorno.
Ecco allora che questo universo di anime, tenute assieme da una comune finalità materiale, dove ciascuna di esse porta con sé le proprie fragilità, paure e talvolta nevrosi, può trovare un nuovo ed inedito senso nell’andare a lavorare.
Da questa nuova prospettiva, le relazioni tra leader e follower e tra colleghi di ufficio, sono finalizzate non solo ad attività concrete ma anche in modo, apparentemente subordinato, «a conoscere sé stessi».
In questa maniera per ciascuno di noi, il posto di lavoro assume una nuova valenza, ovvero diventa lo spazio dove facciamo il percorso di individuazione, dove facciamo esperienza delle leggi che governano la psiche, dove riconosciamo i nostri talenti, o meglio, dato che quest’ultima affermazione è un po’ troppo inflazionata, è lì dove si scoprono i miti, nel nostro caso, gli dei dell’antica Grecia, che incarnano i nostri desideri, le nostre ambizioni ed aspirazioni.
Se coloro che ci leggono per la prima volta trovassero il nostro lessico inconsueto, li invitiamo a consultare alcuni articoli, specialmente i primi, che abbiamo dedicato alla rilettura dei miti dell’antica Grecia rivisti sotto le lenti della psicologia archetipica già pubblicati qui.
Prima di scoprire quali sono i veri miti che agiscono dentro di noi, cominciamo ad esaminare alcuni falsi miti che permeano inconsciamente le organizzazioni.
Il mito dell’organizzazione
Il primo mito da sfatare è quello di ritenere che esista una sorta di creatura che trova il suo senso solo nel produrre o trasformare un bene od un servizio in qualcos’altro, mentre secondo la visione che stiamo proponendo, essa trova il senso più autentico, quando essa, per dirla alla Hillman «fa da teatro ai miti che la posseggono».
Solitamente ci si sforza di dare un senso all’esistenza di una impresa tramite la cosiddetta «mission aziendale» (se si usasse il temine missione si correrebbe il rischio di svelare un non detto, ovvero che si pretende dai collaboratori la medesima cieca ed incondizionata obbedienza che vige nelle congregazioni ecclesiali), ma che guarda caso, “freudianamente” viene appeso all’ingresso delle mense o dei bagni di alcune aziende quasi a voler sottintendere che essa è destinata a restare nel “Tartaro”, ovvero nei luoghi oscuri, profondi e quindi inconsci, dell’ ”Anima collettiva aziendale”.
La missione aziendale diventa così quella che lo psicoanalista britannico Donald Winnicot, speriamo che bonariamente ci perdoni per aver trasportato il suo termine al di fuori degli ambiti tradizionali, chiamerebbe “il falso sé dell’organizzazione”, che in questo specifico caso, si identificherebbe con il tentativo di rimuovere lo scopo che non viene esplicitato, ovvero: «Noi esistiamo per fare soldi».
Non contestiamo questo assunto che anzi, riteniamo legittimo, ma il non ammetterlo, lo relega nell’inconscio dell’”anima dell’impresa” e lo trasforma in quel non detto, il cui silenzio col tempo diventerà così assordante, da oscurare quella che con un superfluo anglesismo, verrà chiamata “mission”.
L’azienda, invece, è molto di più, ed infatti, parafrasando e ricontestualizzando James Hillman «essa non è tanto una risultante di forze e pressioni, quanto piuttosto l’attuazione di scenari mitici» dei quali purtroppo viene fraintesa e talvolta mistificata, la sua essenza più intima.
Quando sentiamo dire «Il capo non riconosce le mie idee», oppure «il capo non vale nulla e se Io fossi al suo posto farei meglio di lui..» oppure, quando si sente ripetere il refrain «se l’azienda non va come dovrebbe è tutta colpa di Tizio», quest’ultimo, precisiamo, è il classico esempio del capro espiatorio, significa che, da un punto di vista archetipico, stanno agendo inconsciamente tre scenari mitici e quindi inconsci.
Nel primo caso è il dio Chronos ad entrare in azione o meglio, l’istanza psichica da lui simbolizzata, che sebbene affermasse pubblicamente «Io non sarò mai come mio padre Urano», similmente al genitore rinnega la sua progenie, o meglio ancora, fuor di metafora, usa le idee dei collaboratori senza riconoscerne pubblicamente il contributo.
Il secondo rappresenta il dio Φαέθων – Phaeton che per invidia o per senso di inferiorità nei confronti dell’amico Ἔπᾰφος– Epafos, il figlio di Zeus, prende le redini del carro del padre Apollo per dimostrare il proprio valore ed invece combina un vero e proprio disastro.
Ed in fine nel terzo caso, il Tizio del terzo esempio incarna la Chimera (dal greco χίμαιρα – chimaira , capra) il mostro che simbolizzando le contraddizioni, le incapacità a far fronte alle difficoltà che coesistono all’interno del luogo di lavoro, va invece sacrificato, fuor di metafora isolato, per placare i sensi di colpa causati dall’incapacità di misurarsi in maniera creativa, con quelli che sono i veri problemi che attanagliano l’azienda.
l mito della tecnica e della ragione
Un altro mito che pervade le aziende è di ritenere che per poter superare le crisi e le difficoltà, per essere vincenti sul mercato e primeggiare sui concorrenti, bisogna operare sempre in modo logico e razionale, investire in strumenti che permettono di migliorare sia l’efficienza produttiva che l’organizzazione del lavoro.
In realtà anch’esso è figlio della repressione e della negazione dell’ansia causata dall’angoscia di perdere il posto del lavoro, che è lo strumento per procacciarsi il sostentamento (gli utili nel caso degli azionisti) e che nel nome della fiducia incrollabile nei confronti della Ragione, finisce per deprimere, umiliare e ledere gli aspetti a nostro avviso più autentici e preziosi degli individui, ovvero le loro emozioni, i loro sentimenti e la loro dignità.
Il mito del controllo
Un altro mito, o come la definisce la psicoanalisi prevalente, la formazione reattiva, causata dalla paura negata e/o repressa che l’azienda possa fallire, consiste nel controllo.
Ogni azienda, ogni istituzione o associazione ha la doverosa necessità di istituire dei sistemi di controllo finalizzati alla verifica che non vi siano dispersioni, furti, sprechi di denaro o di tempo.
Talvolta, questo processo, da mezzo finalizzato ad una corretta ed oculata gestione ad ogni livello e funzione, sfugge di mano e diventa il fine. Quando ciò avviene, il sintomo rappresentato da questo mito, si manifesta tramite colei o colui che mette in atto questi controlli, il quale (ovviamente ciò non è sempre vero), più che temere di perdere il controllo sulla struttura, è preoccupato di perdere il controllo di sé.
Ma quand’è che si teme di perdere il controllo di sé stessi?
Si perde il controllo di sé tendenzialmente quando si teme di non avere abbastanza fiducia nelle proprie qualità e nel proprio valore.
Ma direte, com’è possibile che manger laureati nelle università più prestigiose, che hanno frequentato Master presso le scuole di formazione più rinomate e che esteriormente appaiono dotati di sicurezze granitiche, dovrebbero avere poca fiducia in sé stessi?
Perché sono esseri umani. (e a questo punto si potrebbe parlare, ma questa volta non ci asterremo, del falso mito secondo cui il conseguimento di un titolo di studio comporti anche un’espansione della consapevolezza di sé e quindi, al progressivo raggiungimento dell’equilibrio interiore).
A tal proposito, il professore di Harvard ed dell’Insead, Manfred Kets de Vries, ha pubblicato diversi libri, alcuni dei quali li trovate in bibliografia, che smascherano il mito del dirigente freddo, infallibile e risoluto.
Il problema è che queste paure ed insicurezze, si riverberano sia sui familiari, ma questo attiene alla loro sfera privata, che sulle aziende, portano a definire sistemi di pianificazione e monitoraggio che, nei casi più esasperati, portano a distrarre le risorse umane (e non) che gli sono state affidate da quelle che sono le vere priorità del business, ma soprattutto pregiudicando la tanto agognata efficienza.
Pertanto, quella che dovrebbe essere la medicina il cui compito dovrebbe essere quello di prevenire il male, finisce per diventare il veleno che distrugge, paralizza e soffoca le aziende.
Ma c’è un altro effetto collaterale, questa volta un sottinteso, che riguarda i collaboratori e che consiste nel trasmettere loro il messaggio del, «Io non mi fido di te».
Ciascuno di noi avrà probabilmente, almeno una volta nella vita sperimentato quanto distruttiva possa essersi rivelata, soprattutto durante la fase di crescita e sviluppo, la sfiducia da parte di una figura di riferimento, genitore o insegnante che sia e riuscirà pertanto ad immaginare facilmente gli effetti che la sfiducia ha sulla motivazione.
Il mito del cambiamento e della crisi come opportunità di crescita
Un altro mito che pervade le aziende é quello che riguarda non tanto un aspetto della filosofia Zen rappresentato dal miglioramento continuo, ma quello che riguarda la sua ombra, in senso junghiano ovviamente, del mito del cambiamento.
Soprattutto in questi tempi di crisi, leggiamo e ci sentiamo dire che «la crisi è un’opportunità» ed anzi, per poterle prevenire, saremmo costretti a cambiare continuamente.
A dire il vero, questa filosofia viene efficacemente già applicata nei settori creativi come quello della moda, dello spettacolo e dell’arte, ma riversarla tout court a tutti gli altri settori senza prima un’adeguata verifica se il cambiamento comporta un miglioramento o meno, può anche essere pericoloso.
Questo mito, purtroppo, nasconde anche un’insidia che finisce per popolare l’inconscio collettivo dell’organizzazione e che consiste nel concetto non verbalizzato e quindi sottaciuto, che «se tu non cambi, sei fuori».
Ora, al di là degli inevitabili timori riguardanti il proprio destino economico, che però esulano dal nostro contesto, ciò che si rivela letale per la stabilità emozionale e psichica dei collaboratori è che si sta dicendo a livello subliminale: «tu così come sei non mi piaci» evocando quindi sempre a livello inconscio immagini legate all’infanzia, quando eravamo costretti a modificare il nostro comportamento per essere accettati dai nostri genitori.
Quest’ultimo non detto, a nostro avviso è ben più destabilizzante della sottintesa mancanza di fiducia fatta risuonare dall’eccesso di controllo, perché qui il vero tema, non è «cosa posso modificare affinché l’azienda per cui lavoro resti competitiva» ma risuona fino al piano più intimo e primordiale che c’è in noi.
Ovvero, “Cambiare per non perdere l’amore dei nostri genitori”.
Continueremo la nostra analisi nella prossima uscita.
Bibliografia
Daniel Goleman (1996): “Intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
Daniel Goleman (1998): “Lavorare con intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
Gian Piero Quaglino: Leadership (2005) ed. Cortina.
Gian Piero Quaglino: Psicodinamica della vita organizzativa (1996) ed. Cortina
James Hillman – Articolo di presentazione della Psicologia Archetipica sul sito Treccani:
James Hillman – Re-visione della psicologia Edizione Adelphi 1983
James Hillman – Il codice dell’anima Adelphi 1996
Jean Sinoda Bolen : Gli dei dentro la donna (1993) Casa editrice Astrolabio
Jean Sinoda Bolen. Gli dei dentro l’uomo. Casa editrice Astrolabio. 1995
Jean-Pierre Vernant – Mito e religione in Grecia antica 2009
Manfred Kets de Vries – Danny Miller (1992) “L’organizzazione nevrotica: una diagnosi in profondità dei disturbi e delle patologie del comportamento organizzativo” Raffaello Cortina”
Manfred Kets de Vries – Leader, giullari e impostori (1996) – Raffaello Cortina editore
Manfred Kets de Vries – Successi e fallimento della Leadership – Ferrari e Sinibaldi 2017
Massimo Biecher : Evoluzione del concetto di leadership nel mondo delle aziende italiane e statunitensi – Cosa rende un leader una persona di valore che ha impatto sulle persone? – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 244-245 ripubblicato sul sito academia.edu
Massimo Biecher : L’altra faccia della leadership. Saper guidare le persone verso gli obiettivi Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 246 ripubblicato sul sito academia.edu
Massimo Biecher : La responsabilità degli obiettivi – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport- ANNO XLII – N. 247-248 ripubblicato sul sito academia.edu
Massimo Biecher : Emozioni e Leadership Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 249 – ripubblicato sul sito academia.edu
Ha lavorato per medie e grandi aziende, anche quotate alla borsa di Milano, sia del settore costruzioni civili che del settore beverage, organizzando e gestendo canali e reti di vendita in Italia e all’estero. Attento osservatore delle dinamiche relazionali, trova nella psicodinamica organizzativa ed in particolare nelle pubblicazioni del prof. Gian Piero Quaglino e dello psicanalista e docente di Harvard e dell’INSEAD, Manfred Kets de Vries, un modello nel quale l’individuo viene posto al centro del mondo del lavoro.Questa visione fa si che il focus si sposta dalle organizzazioni alle relazioni interpersonali, analizzate mediante gli strumenti forniti dalla psicoanalisi di stampo junghiano.Combinando questi studi con la pratica operativa, su una rivista edita sotto l’egida del Fidal-CONI e di un comitato tecnico scientifico intitolata “Nuova Atletica: ricerca in scienze dello sport”, ha pubblicato diversi articoli che si proponevano di illustrare questa visione agli allenatori di atletica leggera chiamati non solo ad ottenere risultati ma soprattutto a formare e trasmettere valori positivi ai giovani atleti. Successivamente, spinto dalla necessità di ricercare una prospettiva che ponesse al centro il mondo delle emozioni e degli impatti che esse hanno sul mondo del lavoro, è approdato agli studi dello psicoanalista americano James Hillman, il quale, partendo dalla riscoperta del mondo classico che è avvenuta durante il rinascimento italiano per merito di alcuni intellettuali come Marsilio Ficino, Nicolò Cusano, Giambattista Vico e molti altri, ha scorto nel modello che, nei simboli e nelle immagini contenute nei racconti della mitologia greca, intravvede la strada che conduce alla conoscenza di sé ed alle leggi che regolano i rapporti tra le persone.Dal 2020 pubblica mensilmente su un web magazine articoli che, rileggendo attraverso le lenti della psicologia archetipica i miti dell’antica Grecia, mirano a far tornare in vita immagini, emozioni e sentimenti che essi evocavano negli antichi.Ha partecipato con dei contributi personali alla pubblicazione di due libri, ed uno, di cui è il solo l’autore, uscirà a breve.
Vento d’inverno: L’Armattano
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L’ HARMATTAN (in italiano armattano), è un vento invernale secco e polveroso che soffia a nordest e ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale.
Soffiando sul deserto, raccoglie fini particelle di polvere (tra gli 0,5 e i 10 micrometri) che può spingere addirittura fino in Sudamerica. In alcuni paesi dell’Africa occidentale, il grande quantitativo di polveri può limitare severamente la visibilità oscurando il sole per giorni, risultando paragonabile alla nebbia fitta. L’effetto delle polveri e delle sabbie rimescolate costa ogni anno milioni alle linee aeree in voli annullati e dirottati. Nel Niger, la gente attribuisce all’harmattan la capacità di rendere uomini e animali più irritabili, ma nonostante questa brutta reputazione, l’armattano può talvolta risultare fresco, portando sollievo dal calore opprimente. Per questo motivo, l’harmattan si è guadagnato anche il soprannome di “il Dottore”.
CURIOSITÀ Alcuni test compiuti nel Sahara occidentale rivelano che i campi elettrici, generati dal reciproco sfregamento dei granelli di sabbia spinti dal vento, sollevano una quantità di polvere fino a 10 volte superiore di quanto non sarebbe per il solo effetto del vento, creando così tempeste più vaste e più durature.
Cieli sereni PG
Winckelmann was right!
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Non sopporto le icone russe l’arte finto pop la transavanguardia italiana i graffiti punk inglesi …neanche l’etnica africana. (semicit. da Franco Battiato, 1982)
Jean Charbonneux (1895-1969), il più famoso archeologo classico francese, anche se lui si considerava un ateniese che il fato ha voluto far nascere in Francia affinché potesse dirigere “da grande” un dipartimento del Louvre, scriveva così nel 1969:
“Se oggi è difficile, forse per la prossima generazione sarà impossibile comprendere e soprattutto sentire profondamente ciò che ha significato nell’Antichità classica, e anche per qualche grande scultore recentemente scomparso, il tipo statuario dell’uomo nudo in piedi.
Niente è stato più esaltante per un disegnatore, per un pittore, e soprattutto per uno scultore, della creazione sempre rinnovata di questo essere che guarda al mondo dalla sua statura e sfida il cielo”
Da questo punto di vista, il Discobolo di Mirone (originale in bronzo perduto, ca. 480 a.C., qui illustrato attraverso una copia in marmo di età romana conservata a Palazzo Massimo) non ha ancora raggiunto l’equilibrio perfetto, “classico”,dei Bronzi di Riace, nei confronti dei quali appare in posa mimica e un pò forzata. Neanche Bernini, molti secoli dopo con il suo dinamico David, riesce ad arrivare al livello supremo dei due guerrieri. In tempi più recenti, Rodin ci ha provato, nulla da fare. Winckelmann aveva ragione, e Charbonneux con lui.
Allineamenti
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dialoghi architettonici a distanza (apparente)
Barcelona
Straight!
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Architetture che ci mettono la faccia.
Sant’Andrea sulla via Flaminia, RomaSan Zaccaria, VeneziaPorto (Portogallo) VeneziaRoma
Dopo due anni di eventi ibridi a causa della pandemia, si è chiusa in questi giorni all’Atelier Richelieu di Parigi la decima edizione dell’Outsider Art Fair.
Per questo suo decimo anniversario, la Fiera – nata a New York nel 1993 ed arrivata in Francia nel 2012 grazie ad Andrew Edlin (imprenditore e gallerista ben noto nel panorama newyorkese, la cui moglie, Valérie Rousseau, è curatrice dell’American Folk Museum).sposta le sue date a settembre, dal 15 al 18, così da acquisire la piena autonomia dalla FIAC (Fiera Internazionale di Arte Contemporanea fondata a Parigi nel 1974) e catturare l’attenzione degli amanti dell’arte in Francia, Europa e oltre, come tiene a precisare il suo fondatore.
L’Arte irregolare o Raw Art si sta facendo sempre più apprezzare e conoscere, tanto che i confini fra Insider e Outsider si fanno sempre più labili, anche grazie alla 55 Biennale Arte 2013 curata da Massimiliano Gioni.
La nuova direttrice dell’OAF di Parigi, Sofia Lanusse, che succede a Nikki Iacovella, dice che “l’Outsider Art non è mai stata celebrata come lo è oggi. Come società” continua Lanusse, ” stiamo infatti cambiando paradigmi e prospettive, affermando il nostro impegno per una revisione più inclusiva della storia dell’arte, che prevede la presenza degli Outsider, e dell’Art Brut in istituzioni contemporanee come il Centre Pompidou di Parigi, LaM nella città di Lille, il Museo di Arte Moderna e il Metropolitan Museum di New York.”
All’evento erano presenti 38 gallerie (3 delle quali solo nell’online viewing room) provenienti da 29 città rappresentanti 13 Paesi.
La Fiera ha dato anche il benvenuto per la prima volta alla Rodovid Gallery di Kiev che presenta i lavori di artisti folk ucraini, compresa la leggendaria Maria Prymachenko (1909-1997), i cui lavori sono stati aggiunti alla Biennale di Venezia di quest’anno.
L’OAF si concentra in modo particolare sugli artisti autodidatti e ha mostrato i lavori di maestri noti quali Henri Darger, Martin Ramirez, Bill Traylor e AloÏse Corbaz, così come artisti viventi come Domenico Zindato, Davide Cicolani, George Widener, Susan Te Kahurangi King, Dan Miller, Shinichi Savana e Luboš Plny.
Domenico Zindato (b. 1966), Riding the Immanent, 2022 – Courtesy of Andrew Edlin Gallery
Subito riconosciuta per il suo spirito anticonformista, l’Outsider Art Fair sta giocando un ruolo fondamentale e vitale nel nutrire una comunità di appassionati collezionisti e incoraggiando un sempre più ampio riconoscimento della Fiera nell’arena dell’arte contemporanea.
L’edizione 2022 dell’OAF di Parigi presenta anche due programmi collaterali: The Underground is Always Outside curato da Aline Kominsky-Crumb and Dan Nadel sui fumetti underground che rimangono una delle forme d’arte più fraintese. Nati dall’impulso liberatorio della controcultura americana degli anni ’60 e affinati negli anni ’70 e ’80, i comics hanno offerto a innumerevoli artisti uno sbocco per commenti culturali taglienti, umorismo assurdo, fioriture psichedeliche, autobiografia confessionale e fantasia a tutto campo.
Robert Williams, Peripheral Bogies (1975)
E I Wish I Could Speak in Technicolor curato da Maurizio Cattelan e Marta Papini, basato intorno alla vita e al lavoro di Eugene Von Bruenchenhein (1910-1983) conosciuto per i suoi dipinti astratti caleidoscopici degli anni Cinquanta, creati usando le dita, i bastoncini, i pettini, le foglie e altri utensili improvvisati per pigiare i colori ad olio intorno alle superfici di tavole di masonite o pezzi di cartone prelevati dagli scatoloni del panificio dove lavorava.
Eugene Von Bruenchenhein (1910 – 1983) No. 818, July 3, 1959, 1959 Oil on masonite 24 x 24 inches
“l’arte più innovativa del Novecento è stata prodotta da quelli che la gente chiamava pazzi, froci, ebrei, ubriaconi, drogati, depressi, contestatori e puttane.
Artisti originali, puri, unici, ‘diversi’, che non troviamo nei manuali di storia dell’arte. Outsiders perché hanno dovuto condividere l’arte con la malattia. Del corpo o dell’anima. O di tutti e due, a volte.
Andrew Lamar Hopkins, Creole Praline Seller (2022) – Courtesy of Gryder Gallery, New Orleans
Perché gli Outsiders sono straordinari perdenti, li riconosci sempre. Non scelgono mai i luoghi e le date giuste per nascere, creare, amare, morire. Vivono in mondi paralleli. E hanno sempre l’indirizzo sbagliato”.
Se il mondo è cambiato, bisogna cambiare il modo di guardare il mondo: Outsider Art Fair ci aiuta a farlo.
Ha una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione conseguita presso l’Università degli Studi di Torino ed esperienze prima come Content Manager e poi come giornalista freelance maturate sia in Italia sia all’estero. Ha vissuto e lavorato in Medio Oriente, Nord Europa e Stati Uniti. Lead Generation Specialist all’Istituto Piepoli, si occupa anche di comunicazione sul web e segue lo sviluppo del nuovo business, con uno sguardo all’internazionale. Offre supporto logistico, documentale e organizzativo al team di ricerca. Svolge inoltre attività di recruitment su target di opinion leader e stakeholder.
Earth Overshoot Day
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[Che sia passato non vuol dire che non sia più importante…]
C’è già stato e, come sempre, abbiamo fatto finta di niente.
Stiamo parlando dell’Earth Overshoot Day (EOD), in italiano “Giorno del Superamento Terrestre” e indica, a livello illustrativo, l’esatta data in cui il genere umano consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno.
Nel 2022 l’EOD è stato in piena estate, precisamente il 28 luglio.
E mentre la maggior parte di noi era – giustamente – alle prese con vacanze, apertivi, spensieratezza e meritato relax, la nostra amata casa contava già un sovrasfruttamento delle sue risorse.
Facendo un po’di calcoli, si può tranquillamente stimare che, procedendo di questo passo, intorno al 2050 l’umanità consumerà ben il doppio di quanto la Terra produca.
È Evidente come questo non porterà davvero nulla di buono.
Ma visto che ogni anno è sempre diverso, come si fa a calcolare il giorno esatto in cui cade l’EOD?
Ci pensa il Global Footprint Network Gfn, un’organizzazione internazionale che si occupa di contabilità ambientale calcolando l’impronta ecologica.
In pratica, grazie a calcoli a dir la verità non troppo difficili da capire, viene determinato il numero di giorni dell’anno che la biocapacità terrestre riesce a provvedere all’impronta ecologica umana.
Ci spieghiamo meglio.
Il calcolo del giorno definito come Earth Overshoot Day è dato dal rapporto tra la biocapacità del pianeta(ovvero l’ammontare di tutte le risorse che la Terra è in grado di generare annualmente) e l’impronta ecologica dell’umanità (la richiesta totale di risorse per l’intero anno).
In questo modo, si riesce a stimare la frazione dell’anno per la quale le risorse generate riescono a provvedere al fabbisogno umano e, moltiplicando per 365, si ottiene la data dell’Earth Overshoot Day.
Perciò:
Dove:
BIO = biocapacità annuale del pianeta Terra
HEF = impronta ecologica annuale dell’umanità
L’umanità ha iniziato a consumare più di quanto la Terra producesse già nei primi anni Settanta: da allora il giorno in cui viene superato il limite arriva sempre prima (nel 1975 era il 28 novembre) e questo per via della crescita della popolazione mondiale e dell’espansione dei consumi in tutto il mondo.
“Il problema principale è che, nonostante l’evidente deficit ambientale, non stiamo prendendo misure per imboccare la giusta direzione – ha dichiarato Mathis Wackernagel, presidente del Gfn. – è una questioneanche psicologica: quello che è ovvio per il 98 % dei bambini, è considerato dai pianificatori economici un rischio minore ,che non merita la nostra attenzione”.
Ma cosa si può fare concretamente per invertire la rotta e iniziare a prendersi davvero cura del nostro pianeta?
Stimolare settori emergenti – come le energie rinnovabili – riducendo così i rischi e i costi connessi a settori imprenditoriali senza futuro, perché basati su tecnologie vecchie e inquinanti
Disinvestire sulle fonti fossili, a favore delle energie pulite
Riducendo il consumo di carne, la cui produzione ha un terribile impatto ambientale
Consumare prodotti provenienti dal proprio territorio
Evitare gli sprechi alimentari
Noi stiamo consumando il capitale naturale, come se avessimo a disposizione 1,75 Terre e capite bene che questo non è più sostenibile.
“La terra è un bel posto e per essa vale la pena di lottare.”
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
La sabbia che canta
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In alcune spiagge, che a prima vista appaiono come molte altre, quando sono calpestate o vengono battute dal vento, la sabbia delle dune produce un misterioso suono con toni musicali su varie note che possono spaziare dal soprano acuto al basso. Si tratta delle “sabbie cantanti”, un fenomeno a lungo indagato dagli scienziati. Questi ritengono che la musica nasca dalla struttura delle sabbie costituite da minuscoli granelli di quarzo, che il mare ha levigato fino a dare loro una forma rotondeggiante.
Ogni ‘chicco’ è circondato da una minuscola sacca d’aria e l’attrito tra i granelli e l’aria innesca una vibrazione che crea la nota musicale. La nota varia in base alla quantità di umidità nell’atmosfera e alla pressione applicata. Le sabbie musicali si trovano di solito su spiaggie pulitissime, senza polveri o corpi estranei: alcuni esperimenti hanno dimostrato che anche un pizzico di farina arresta le vibrazioni, annullando il particolare suono.
Ci sono varie località nel mondo dove si trova questo tipo di sabbia musicale come la spiaggia di Kotogahama in Giappone, la spiaggia di Whitehaven in Australia e quella dell’isola di Eigg, in Scozia;
Anche in Italia abbiamo una spiaggia musicale. È la spiaggia di Cala Violina, una tra le più belle spiagge della Maremma Toscana, situata tra Follonica e Punta Ala. La sabbia di quella spiaggia ha dato il nome alla cala, in riferimento ai piacevoli suoni che essa “emette”, quando calpestata, simili a quelli del violino. 🎻
Cieli sereni PG
Bandiera a Mezz’asta
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Con il termine ‘bandiera a mezz’asta’ si indica la pratica, a bordo e a terra, di issare e far sventolare la bandiera non in testa al pennone ma più in basso, di solito poco sopra la sua metà, in segno di lutto. Il motivo (risalente ad una tradizione del XVII secolo), sarebbe quello di consentire alla “bandiera invisibile della morte” di sventolare in cima all’albero. Per questo, la bandiera a mezz’asta è issata più in basso di quanto è l’ altezza della bandiera stessa: ad esempio se la bandiera è alta 1 metro, sarà issata 1 metro più in basso rispetto alla testa dell’asta.
In TUTTI i Paesi del mondo, per certi eventi luttuosi o in determinate ricorrenze, viene esposta la bandiera nazionale a mezz’asta. Fanno eccezione l’Arabia Saudita e Somaliland dove è SEMPRE vietato mettere la bandiera a mezz’asta, poiché questa, mostrando la “Shahada”- la professione di fede islamica – sarebbe un’offesa alla religione dal momento che quella bandiera porta il più alto concetto di Dio.
Cieli sereni PG
Un Gallo che sembra un delfino
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Questo isolotto a forma di delfino si chiama GALLO LUNGO, e fa parte di un piccolo arcipelago, che si trova tra Capri e Positano, detto “Li Galli”. Le altre due isole che lo compongono sono La Castelluccia e La Rotonda.
In passato, le isole Li Galli erano note con l’appellativo “Le Sireneuse”. Infatti, secondo un’antica leggenda, le tre isole erano abitate dalle tre sirene dell’Odissea: Partenope, Leucosia e Ligia che seducevano ed ammaliavano i naviganti con il loro canto. Questi perdevano il controllo delle loro navi e, inevitabilmente, si andavano a schiantare sulle rocce degli isolotti! Solo due navi riuscirono a scampare a quel triste destino: quella di Ulisse e quella degli Argonauti.
CURIOSITÀ Il nome LI GALLI dell’arcipelago deriva dal fatto che, sempre secondo la mitologia greca, le tre sirene avevano il volto di una donna bellissima ma il corpo di uccello; da qui l’accostamento tra le sirene “pennute” con i galli.
Di fatto, è solo un braccio robotico, programmato per cercare di contenere il fluido idraulico – di colore rosso sangue che, volutamente, fuoriesce costantemente in quantità limitata – e che è necessario per far continuare a funzionare il braccio stesso.
Se fuoriesce troppo liquido, superiore alla quantità necessaria al funzionamento meccanico, il braccio “morirà”, e quindi il suo movimento, disperato, è funzionale al recupero del liquido per garantire la sopravvivenza per un altro giorno.
Quando il progetto è stato lanciato per la prima volta, il braccio non era programmato per recuperare il suo fluido vitale, ma si è limitato ad interagire con i visitatori, in quanto la quantità di liquido all’interno del sistema era sufficiente e non richiedeva ancora questa attività, vitale, di recupero.
L’opera, visitabile dal 2016 non è stata mai modificata e il braccio robotico ha intrapreso il suo ingrato compito appena uscito dalla fabbrica, al punto che dopo 5 anni lavorava a fatica e in una stanza sporca senza potersi sottrarre alla sua natura.
Programmato per vivere questo destino, non importa cosa abbia fatto o quanto sia stato difficile, ci ha provato, e non c’era modo di sfuggirgli.
Gli spettatori hanno guardato mentre sanguinava lentamente fino al giorno in cui ha smesso di muoversi per sempre.
Vivere i suoi ultimi giorni in un ciclo senza fine tra sostenere la vita e contemporaneamente sanguinare.
Lasciamo ai lettori le interpretazioni filosofiche e morali di questa opera.
Qui sotto alcune fonti verificate , tra le molte che si trovano in Rete.
In ricordo di Piero Angela trascriviamo letteralmente l’articolo/intervista “Divulgare la scienza“, a firma Giancarlo De Leo per Poliziamoderna, rivista ufficiale della Polizia di Stato, pubblicata il 01/03/2012.
Autore di fortunati programmi di informazione, Piero Angela, uno dei protagonisti del calendario della polizia, parla di sè e di come vede il futuro della televisione
Uno dei volti televisivi più noti e popolari presso il grande pubblico, considerato il “divulgatore scientifico” per eccellenza della televisione italiana, Piero Angela è il protagonista del mese di marzo del calendario della Polizia di Stato. Vero pioniere dell’informazione radiotelevisiva (il suo programma SuperQuark, in onda dal 1995, è il punto di riferimento nel campo dei documentari scientifici, storici e naturalistici), autore di molti libri – alcuni dei quali tradotti in inglese, tedesco, francese e spagnolo – venduti in milioni di copie, racconta a Poliziamoderna la sua esperienza professionale rispetto alla televisione e ad alcuni temi di attualità.
Nell’immagine di marzo del calendario lei è ritratto accanto alla Lamborghini e all’aereo P180, due mezzi adibiti anche al trasporto di organi. Lei è a conoscenza di questa attività della polizia? Cosa pensa della donazione di organi in Italia? Ne ero a conoscenza e penso sia un merito per la polizia. Riguardo questo punto credo che in Italia ci sia ancora molto da fare soprattutto in termini di corretta comunicazione. Sull’argomento circolano infatti molte chiacchiere infondate, veicolate con estrema leggerezza da personaggi famosi, che purtroppo arrivano a milioni di persone. In questo senso, una volta commesso un grosso danno, risulta difficile ripararlo; la smentita di un serio scienziato non ha mai l’eco di una corbelleria firmata da un personaggio popolare. Voi della Polizia di Stato difendete i cittadini dai malfattori e dalle truffe, noi giornalisti cerchiamo di difenderli dalle false informazioni: una missione parallela che ci rende in qualche modo affini e che in fondo credo “legittimi” anche la mia presenza nel vostro calendario.
La sua passione non è sempre stata solo il giornalismo, sappiamo che uno dei suoi amori giovanili è stata la musica, in particolare quella jazz. Cosa c’è in comune tra questi suoi interessi? In effetti da giovane sono stato un musicista dilettante con potenzialità professionali. Ho fatto anche dei piccoli tour suonando in giro per l’Italia facendo parte di trii e quartetti che si esibivano nei jazz club. Una esperienza di cui ho fatto tesoro nel mestiere di giornalista. Il linguaggio della musica mi ha insegnato i cambiamenti di ritmo, di intensità, le variazioni sul tema e le digressioni che tuttora utilizzo nelle mie comunicazioni per non apparire – appunto – monocorde. È assolutamente essenziale, per ogni divulgatore, non annoiare mai chi guarda e ascolta, a maggior ragione se gli argomenti trattati sono molto seri.
In una televisione generalista è possibile mantenere un’identità riconoscibile? SuperQuark o Ulisse potranno migrare verso qualche canale tematico per non correre il rischio di essere confusi con programmi che non hanno alcuna validità scientifica? Come giornalista per me è assolutamente naturale rivolgersi ad un pubblico che sia il più vasto possibile, anche per stimolare l’attenzione di chi non si orienterebbe autonomamente verso i temi che proponiamo. In fondo è proprio questa la funzione del divulgatore: dapprima far sorgere un interesse e poi aumentare il livello di consapevolezza del “normale” telespettatore relativamente ad un tema che altrimenti rimarrebbe circoscritto a pochi addetti ai lavori o cultori della materia e del tutto ignoto ai più. Per questo stesso motivo non vedo il futuro di Superquark o di Ulisse in palinsesti specializzati: questi canali potrebbero essere utili soprattutto agli studiosi e agli appassionati di questo o quell’argomento, ma corrono il rischio di diventare dei club per pochi, delle vere riserve indiane mediatiche.
Pensa che la televisione generalista rischi di perdere il pubblico più giovane? È incontestabile che i giovani si stiano allontanando dalla televisione, dirigendosi sempre più verso altri terminali come i tablet e gli smartphone: ma è vero che anche loro continuano a guardare la tv, magari veicolata da Internet, sul proprio pc. Poi ci sono i tanti anziani – e la popolazione invecchia sempre di più – che non si servono delle nuove tecnologie e rimangono fedeli alla televisione tradizionale. Se si guardano i dati di ascolto delle trasmissioni televisive si vede che il bacino di utenza complessivo in realtà è aumentato, in particolare le ore quotidiane di fruizione pro capite – si arriva ad una media oltre quattro ore –, e questo è un dato veramente rilevante. È da tenere presente poi che purtroppo nel nostro Paese è il tubo catodico a tenere banco rispetto per esempio ad altre attività come la lettura. Per molte persone il piccolo schermo è rimasto l’unico gancio culturale disponibile e proprio per questo l’offerta dovrebbe essere sempre più aperta, strutturata e stimolante. Al contrario la moltiplicazione dei canali meramente tematici rischierebbe di condizionare la scelta dello spettatore solo sull’argomento che gli interessa, fiction o trasmissioni calcistiche o altro, impoverendo il ventaglio di informazioni che potrebbe ottenere. Detto questo, sicuramente in un contenitore generalista ci può essere il rischio di confondere l’utente con proposte solo in apparenza somiglianti. Non resta che confidare nella maturità dello spettatore e nella sua capacità di discernimento. D’altra parte, ognuno è responsabile in toto per i propri prodotti e personalmente posso garantire solo per i miei… per concludere in leggerezza, vogliamo infine dire che “il mondo è bello perché è vario?”
Lei è tra i fondatori del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale) un’organizzazione per promuovere un controllo sui fenomeni scientificamente inspiegabili. In una società dove spesso sedicenti maghi e veggenti approfittano delle persone psicologicamente deboli quanto valore ha l’affermazione di George Santayana “lo scetticismo è la castità dell’intelletto”? La speculazione a discapito dei creduloni è assolutamente reale e si manifesta in forme più o meno gravi, l’oroscopo ne costituisce l’espressione più diffusa e meno dannosa. Purtroppo, per contrastare efficacemente il problema ci vorrebbe una campagna di informazione collettiva con numerosi testimonial qualificati e conosciuti. Personalmente, anche come scrittore, sono molto impegnato in questo senso, (ndr: ha scritto anche un libro sull’argomento :Viaggio nel mondo del paranormale e ha una rubrica fissa: “L’altra campana” sulla rivista Scienza e Paranormale), ma la mia voce è sempre stata piuttosto isolata.
Lei è anche autore di numerosi libri che spesso approfondiscono gli argomenti trattati nelle sue trasmissioni. Che ne pensa delle nuove tecnologie applicate all’editoria? Legge anche i libri in formato digitale sui tablet o sugli e-book reader? Sono assolutamente consapevole dei vantaggi offerti dalle nuove tecnologie come l’economicità, il risparmio di spazio, di peso e la conseguente disponibilità di una intera biblioteca in pochi centimetri quadri, ma ritengo che questi strumenti siano perlopiù destinati alle nuove e alle nuovissime generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”; personalmente continuo ad apprezzare maggiormente la tradizionale carta stampata, facendo parte della generazione dei “nativi gutemberghiani!”.
Oggi, venerdì 12 agosto, il nostro satellite naturale ha raggiunto la fase di plenilunio. Rispetto a noi la Luna si trova dalla parte opposta (opposizione) del Sole, quindi la sua parte illuminata è proprio quella rivolta verso di noi.
La Luna piena di agosto è detta Luna del Grano in quanto coincidente con la raccolta del cereale prima della semina autunnale.
È anche conosciuta come Luna dello Storione, nome che veniva usato dalle tribù indiane perché, in questa parte dell’estate, lo storione dei Grandi Laghi era più facilmente catturabile.
È la quarta e ultima SUPERLUNA del 2022, dopo quelle «dei fiori» (16 maggio), «delle fragole» (14 giugno) e «del cervo» (13 luglio). Ancora una volta, dunque, il nostro satellite si viene a trovare nel tratto di orbita più vicino alla Terra – precisamente a non meno del 90% del suo massimo al perigeo (che è stato mercoledì scorso) – apparendo così, anche se di poco, più grande e luminosa e per questo chiamata SUPERLUNA.
CURIOSITÀ Dato che la Luna ci rivolge sempre la stessa faccia, siamo indotti a pensare che quello che vediamo è esattamente il 50% della superficie lunare. In realtà, dalla Terra, riusciamo ad osservarne di più: circa il 59% ! Il fenomeno, scoperto da Galileo Galilei e spiegato da Newton, è definito “librazione” e ci permette di vedere a periodi alterni le regioni più orientali ed occidentali della Luna. Questo movimento è una conseguenza del moto non uniforme della Luna: quando si trova nei punti della sua orbita più vicini alla Terra (perigeo), si muove piu’ velocemente e la sua rotazione su se stessa, per cosi’ dire, “resta indietro” rispetto alla rivoluzione. Detta in altre parole, nel tempo che impiega a ruotare su se stessa di 90° (..eh sì, anche lei ruota!) la Luna “percorre” 97° di orbita. All’apogeo, gli stessi 90° di rotazione avvengono in 83° di orbita.
L’effetto visibile dalla Terra e’ una lieve rotazione della Luna su se’ stessa: prima in un senso, quando accelera, poi nel senso opposto, quando rallenta.
Cieli sereni PG
GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA BIRRA
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Ogni primo venerdì di agosto si celebra la Giornata Internazionale della Birra. Il nome BIRRA deriva dal tedesco “bier” ma l’etimologia sarebbe riconducibile al latino biber, cioè bevanda, o alla parola germanica per indicare l’orzo (beuwo).
In Spagna si chiama cerveza e la radice sarebbe da ricercare nel termine latino cervesia, che indicava una birra senza luppolo facendo riferimento alla dea Cerere, divinità dei raccolti. Le sue origini sembrano risalire ai Sumeri e agli antichi popoli della Mesopotamia, che potrebbero aver iniziato a produrla oltre seimila anni fa. Poi la birra si diffuse tra egizi, greci e romani.
UNA STORIA SULLA BIRRA Ebbe inizio nel XVI secolo con una nave e una traversata atlantica. La nave era la Mayflower (in figura), un galeone a tre alberi di circa 180 tonnellate. A bordo c’erano i Padri Pellegrini (ribattezzati poi Thirsty Pilgrims, “pellegrini assetati”). In tutto a bordo 102 persone compresi donne e bambini in fuga dall’Europa. Approdarono in un luogo che la tradizione identifica con Plymouth Rock il 9 novembre 1620 e il primo edificio che costruirono fu proprio… un birrificio !
Come tante bevande alcoliche, anche la birra passò così dall’uso religioso a quello medico e solo in seguito a quello ricreativo. La birra, infatti, veniva servita come ricostituente ai pellegrini che avevano compiuto un lungo viaggio ed era una bevanda naturalmente sterilizzata in un tempo in cui l’acqua non poteva essere consumata prima di essere bollita. Il consumo di birra si diffuse facilmente anche per quest’ultimo motivo. Il luppolo, inoltre, conferiva alla bevanda proprietà antisettiche.
Cieli sereni🍺 PG
Ma come fai a giocare a calcio con le tette?
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Chloe Kelly
di Redazione Online
Milena Bertolini, allenatrice della nazionale femminile di calcio riassume le decine di luoghi comuni che le ragazze che praticano questo sport devono sopportare, in una domanda che ha sentito spesso fare “ma come fai a giocare a calcio con le tette?” (che poi è anche il titolo di un libro che ha scritto).
Partendo da questo stereotipo che dimostra se ce ne fosse ancora bisogno quanto il mondo del calcio, così come la società in fondo, è ancora profondamente e irrimediabilmente maschilista e retrograda, per affrontare l’argomento da un particolare punto di vista, che scaturisce dall’episodio degli ultimi minuti della finale degli europei di calcio femminile giocata qualche giorno fa a Londra.
La giocatrice Chloe Kelly, segnato il goal che ha dato alla squadra inglese il titolo, si è sfilata la maglietta, così come fanno i colleghi maschi, mostrando in bella vista il reggiseno.
Chloe Kelly ne ha fatto una questione di semplice parità: «Mi tolgo la maglietta ed esulto, perché un calciatore uomo farebbe esattamente lo stesso. Quindi, come donne, perché non possiamo farlo?»
Ma il gesto non è così banale quanto potrebbe invece apparire la sua spiegazione.
Celebrare il corpo di una donna per la sua capacità atletica significa saper superare un sacco di stereotipi, perché di solito i corpi di donna vengono mostrati e celebrati per la loro attrattività, o tutt’al più per le loro capacità generative, e raramente per la loro potenza fisica.
Il gesto di Chloe Kelly, dunque, è stato molto più di un semplice gesto: perché l’oggetto in questione (il reggiseno) dimostra che anche un semplice indumento intimo, nasconde potenzialità enormi per lo sviluppo di questo sport e per la conseguente emancipazione di chi lo pratica.
Vediamo in sintesi perché.
Le ricerche di biomeccanica della professoressa Joanna Wakefield-Scurr dell’Università di Portsmouth, consulente alla squadra inglese nella scelta dei reggiseni (il fatto che questa definizione vi possa far sorridere dice molto dei pregiudizi di genere che ancora affliggono non solo lo sport. Nessuno sorride a sentir parlare di scienza del piede o biomeccanica delle scarpe sportive) hanno dimostrato che l’effetto che questi hanno sulla salute del seno e l’impatto altrettanto importante sulle prestazioni atletiche che ne conseguono, possono effettivamente incidere in maniera significativa sui risultati sportivi.
Le ricerche hanno dimostrato per esempio che un reggiseno poco sostenuto causa dolore al seno, e che «correre con un reggiseno di scarso sostegno accorcia la falcata delle donne fino a 4 centimetri, cosa che potrebbe aggiungere un chilometro in più alla lunghezza di una maratona». Questo perché «se mentre ci si allena il seno si muove molto, la parte superiore del corpo lavora più duramente per cercare di fermare il movimento e ridurre l’attività muscolare di questa parte del corpo potenzialmente potrebbe allungare le sessioni di allenamento prima di affaticarsi».
La professoressa e il suo gruppo di ricerca hanno supportato le calciatrici inglesi nella scelta dei reggiseni. «Abbiamo analizzato le loro esigenze e tutti i problemi che avevano riscontrato con i reggiseni sportivi, e poi abbiamo prescritto loro quelli più adatti, compreso quello che ha mostrato Chloe»
Tutti i reggiseni prescritti, compreso quello di Kelly, erano prodotti «di largo consumo», i ricercatori hanno però aiutato le atlete a scegliere “con metodo scientifico” quelli più adatti alla conformazione del loro seno.
«Prima di queste ricerche, la maggior parte delle atlete indossava reggiseni in modo casuale e basandosi sui propri gusti e abitudini “con la conseguenza di avere un sostegno del seno molto limitato. Molte riferivano fastidi o dolori al seno. Quattro settimane dopo, l’87% ha dichiarato di aver tratto beneficio da questo intervento e il 17% ha affermato che ha migliorato le prestazioni sportive».
Basterebbe questo per comprendere quanto lavoro e potenzialità ci sono dietro ad uno sport ancora ignorato, solo perché praticato da donne.
Ma dietro all’immagine di Chloe Kelly in reggiseno c’è anche altro. A differenza di un uomo, togliendosi la maglietta lei ha mostrato un marchio commerciale. E le conseguenze sono state immediate: le ricerche su Google per «reggiseno sportivo Nike» sono quasi decuplicate. Quelle per reggiseno sportivo sono aumentate del 1.549% e le vendite di reggiseni sportivi nella catena di grandi magazzini britannica John Lewis sono aumentate del 140%.
A conferma che quello dello sport femminile è anche un mercato pieno di opportunità per chi vuole investirvi.
Renderings depicted in planning documents for The Line show a structure that runs from the Gulf of Aqaba and bisects a mountain range that moves alongside the coast.
Mohammed bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita, ha recentemente svelato un progetto urbanistico all’avanguardia e totalmente green.
The Line, è una città a zero traffico e zero inquinamento, con abitazioni disposte lungo una linea retta di 170 chilometri. Un luogo dove non esistono né strade né macchine e tutto è raggiungibile in pochi minuti a piedi.
Il Progetto fa parte di “Neom”, l’avveniristica città del futuro che collegherà la costa del Mar Rosso con il nord-ovest dell’Arabia Saudita.
Ma perché questo Progetto è considerato innovativo?
The Line ha alla base un concetto urbanistico molto forte ed è stata progettata per layer. Tra quello pedonale in superficie e quello più profondo per il trasporto veloce, sorgerà anche un livello intermedio destinato alla logistica e altre infrastrutture.
Secondo questa logica, la città sarà organizzata per nuclei, all’interno del quale sarà possibile trovare tutti i servizi essenziali, come scuole, ospedali e uffici, oltre che aree verdi, e tutti raggiungibili facilmente senza l’ausilio di mezzi inquinanti.
I moduli urbani saranno collegati da una linea metropolitana ad alta velocità situata nel sottosuolo al livello più basso. In questa maniera The Line collegherà tutte le diverse comunità [nuclei], con il trasporto da un’estremità all’altra che non richiederà mai più di 20 minuti.
Altra caratteristica innovativa riguarderà l’esperienza di vita, che sarà completamente automatizzata e affidata all’Intelligenza Artificiale. L’IA sarà utilizzata non solo nel trasporto ma in tutta la città, dando vita a una vera e propria Cognitive City che sarà in grado di imparare continuamente i modi predittivi rendendo la vita degli abitanti più facile.
Quando si parla di Arabia Saudita i budget di spesa non sono mai un problema. Ma questa volta i numeri sono impressionanti. La costruzione di The Line e della mega città di Neom costerà più di 500 miliardi di dollari e sarà finanziata dal Saudi Public Investment Fund.
L’enorme progetto urbanistico creerà 380.000 posti di lavoro e contribuirà al PIL nazionale per oltre 39 miliardi di euro entro il 2030.
Gli sviluppatori del progetto sono ottimisti, tanto da affermare che la costruzione di The Line sarà completata entro il 2025.
ACCADDE OGGI 20 LUGLIO 1969 SBARCO DELL’ UOMO SULLA LUNA
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Il 20 LUGLIO ricorre l’anniversario dello storico sbarco sulla Luna: la missione spaziale Apollo 11 che portò i primi uomini sulla Luna, L’ “Allunaggio” avvenne alle 22:17, ora italiana, mentre il primo Piede sulla Luna fu messo alle 04:56, sempre ora italiana.. ma del 21 luglio, mentre negli USA era ancora il 20 luglio.
CURIOSITÀ
Qualcosa sopravvivrà sulla Luna per centinaia di migliaia o milioni di anni, forse più della stessa razza umana. Sono le tracce lasciate dagli astronauti: testimonianze della loro ‘passeggiata’ in quella notte. Ciò è dovuto alla mancanza di atmosfera, e quindi di vento, sulla superficie lunare.
Nel 2001 venne pubblicato un libro dove si sosteneva che le foto prese dagli astronauti statunitensi sulla Luna fossero in realtà dei falsi, semplicemente realizzati sulla Terra in uno studio cinematografico. La teoria analizzava alcune supposte anomalie riscontrate sulle foto diffuse dalla NASA. Numerose altre pubblicazioni hanno risposto ai dubbi sollevati ma, nonostante esistano le prove sull’allunaggio dell’Apollo, l’argomento continua a suscitare polemiche.
Cieli sereni PG
Col sole in fronte…
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Ieri, 8 luglio, alle 13:14 (ora italiana) il Sole si è trovato esattamente sulla verticale del punto della Terra indicato nella figura, illuminando quella porzione del pianeta evidenziata in chiaro. Quale è stata la particolarità di quell’istante? È stato detto, e scritto, che il 99% della popolazione mondiale (7,8 miliardi di persone), si è trovata nella parte del pianeta illuminata dalla luce del Sole. Questo valore è ricavabile dai dati astronomici (posizione del Sole in funzione della data e dell’ora), dalla geografia del nostro pianeta e dalla distribuzione della popolazione mondiale.
CURIOSITÀ Nella realtà, c’è da considerare che quasi mezzo miliardo di persone si sono trovati al crepuscolo (mattinale o serale), con la luce solare indiretta, ma teoricamente ancora (o già) nell’emisfero notturno (sole sotto l’orizzonte). Togliendo quindi la zona crepuscolare (fascia ombreggiata in figura) otteniamo comunque circa 7,4 miliardi di persone, ovvero il 93% della popolazione mondiale.
Cieli sereni PG
Ita … ops!
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L’immagine della bandiera italiana si presenta sempre con il verde sulla sinistra e il rosso a destra. (Così 👉 🇮🇹) .
Questa regola ha delle eccezioni: se la bandiera italiana è raffigurata su un veicolo, o velivolo, essa deve essere mostrata con il verde sempre ‘in avanti’ rispetto al movimento: questo per simboleggiare l’insegna che “sventola” nel vento generato dal moto. Il comandante BITTA ha notato il tricolore sul timone di coda degli aerei ITA (ex Alitalia) il quale, mentre sul lato sinistro è raffigurato nel senso corretto (foto in alto), sul lato destro appare a COLORI INVERTITI 🤦♂️! (foto in basso). Infatti, nella parte anteriore del timone non dovrebbe comparire il verde (e non il rosso), come fosse il pennone da cui ‘garrisce’ il tricolore?” 🤔
Cieli sereni PG
Sono solo dettagli
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Think Global, act Local: è il momento del marketing territoriale.
Sempre più spesso si sente parlare di “glocalizzazione”, intendendo una globalizzazione che invece di ignorare, sovrastare o addirittura eliminare le potenzialità offerte dal territorio, le esalta e utilizza per entrarci più consapevolmente, concentrandosi su una dimensione di business fatta di usi e costumi locali.
Ma come può essere identificata questa tendenza?
“Think Global, act Local” è il motto coniato nei poliedrici anni ’80 da Akio Morita, cofondatore e presidente della Sony, che meglio rappresenta questa diversa idea di globalizzazione. Così dicendo, si vuol far capire come la tendenza sia quella di andare verso un abbandono della standardizzazione dei mercati, a favore di una vera e propria tutela delle realtà locali, mettendo in luce sfaccettature e caratteristiche.
Tutto il mondo è paese, insomma.
Al giorno d’oggi, svariate multinazionali stanno adottando questo modo di fare affari.
Pensiamo ad esempio a Netflix.
Con un pubblico davvero estremamente variegato, la multiculturalità rappresenta un valore aggiunto da sfruttare, che offre così anche la possibilità di cavalcare i trend su scala internazionale.
Ed ecco quindi venir fuori successi come la “Casa de Papel”, serie TV spagnola che ha tenuto con il fiato sospeso milioni di persone in tutto il mondo, il nostro “Suburra”, uno dei simboli delle produzioni Made in Italy o ancora il campione di incassi britannico “Black Mirror”.
Un altro esempio sicuramente sotto gli occhi di tutti è dato dalla catena di fast food più famosa al mondo.
Mc Donald’s fa della collaborazione con le realtà locali, con le associazioni e con i cittadini dei territori in cui è presente uno dei punti cardine della sua politica aziendale.
Basti pensare alle nuove ricette per panini firmati Giallozafferano, con ingredienti DOP e IGP che seguono la stagionalità dei prodotti, così da garantire anche la qualità dell’offerta e una continua promozione del territorio.
Volgendo lo sguardo all’estero, l’azienda aveva fatto la stessa cosa nel 2016 per il mercato indiano, quando lanciò il Chicken Maharaja Mac, un maxi burger a base di pollo, pensato apposta per andare incontro alle esigenze della tradizione locale, che impone di astenersi dalla carne di vitello.
Passando dal mercato di massa a quello del lusso, un gigante del settore come Louis Vuitton, sebbene abbia una salda posizione di leadership nel mercato del lusso in Cina e pur essendo presente nel Paese orientale con 47 negozi in 29 diverse città, si è trovato a dover adeguare la propria strategia a seguito della politica anticorruzione avviata dal presidente Xi Jinping, oltre che per la tendenza dei clienti del lusso di allontanarsi dalla ostentazione massiva di loghi.
Questo si è concretizzato con la riduzione della promozione di prodotti caratterizzati dal celeberrimo monogramma LV e l’introduzione di una linea “vintage”, creata specificatamente per quel mercato, utilizzando in un primo momento come brand ambassador, la celebre attrice e cantante pop cinese Fan Bingbing.
Successivamente, per smorzare la percezione che questa testimonial potesse impersonificare l’idea di un prodotto mass-market, venne scritturata Liu Wen, modella cinese di haute-couture, ma con residenza a New York, per una campagna di adv atta a promuovere la collezione Foulard d’Artistes.
Ultimo aspetto da considerare riguarda il fatto di come la glocalization venga tendenzialmente associata a un modello di business che mira soprattutto alla fidelizzazione del cliente.
Il prodotto viene inteso nella sua totalità, comprendendo così anche i servizi di assistenza e manutenzione post-vendita: questo certifica un guadagno duraturo al produttore e spesso costituisce anche la parte più remunerativa dell’intero introito aziendale.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
PATRIAE UNITATI e CIVIUM LIBERTATI
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L’Altare della Patria
Ogni 2 giugno il Presidente della Repubblica, rende omaggio all’ALTARE DELLA PATRIA con la deposizione di una corona d’alloro. L’ Altare della Patria, inaugurato il 4 giugno 1911, raccoglie, nelle sue sculture, la storia dell’unità d’Italia e i simboli della Repubblica. Eccone alcuni:
2 gruppi scultorei in bronzo dorato rappresentano i valori degli italiani: PENSIERO e AZIONE.
4 statue in marmo botticino che simboleggiano i valori morali degli italiani e i principi ideali che rendono salda la nazione: FORZA, CONCORDIA, DIRITTO e SACRIFICIO.
14 bassorilievi di CITTÀ NOBILI italiane posti alla base della statua di Vittorio Emanuele II. Si tratta di capitali delle antiche monarchie italiane preunitarie e delle repubbliche marinare, perciò non necessariamente delle più importanti d’Italia Queste città, considerate “madri” della Patria sono TORINO, VENEZIA, PALERMO, MANTOVA, URBINO, NAPOLI, GENOVA, MILANO, BOLOGNA, RAVENNA, PISA, AMALFI, FERRARA e FIRENZE.
16 statue nel fregio sopra il grande portico personificano le REGIONI italiane. Ogni statua si trova in corrispondenza di una colonna.
2 quadrighe: visibili da tutta Roma, simboleggiano l’UNITÀ e la LIBERTÀ.
2 iscrizioni latine poste sui frontoni dei sottostanti propilei, richiamano i due concetti cardine che informano l’intero monumento: LIBERTÀ DEI CITTADINI (“Civium Libertati”) e UNITÀ DELLA PATRIA (“Patriae Unitati”).
2 fontane dei maggiori mari italiani: a sinistra il MARE ADRIATICO e a destra il MAR TIRRENO.
Cieli sereni 🇮🇹 PG
Non è mai una persona sola a morire. Ad ogni sparo, moriamo tutti, un pò.
Gli Stati Uniti hanno il non invidiabile primato, tra i Paesi occidentali, di morti per arma da fuoco.
Nel 2020 si è raggiunto il numero più elevato di vittime, 578, il che significa più di una al giorno.
La crescita, rispetto agli anni precedenti, è stata esponenziale [Negli Stati Uniti circolano circa 380 milioni di armi a fronte di una popolazione di 319 milioni di abitanti].
Sono dati di cui i politici statunitensi sono al corrente, ovviamente, eppure puntualmente ad ogni strage di innocenti come quella dei giorni scorsi, si riaccende il dibattito sull’uso indiscriminato delle armi, accessibili praticamente a chiunque.
Dibattito che, come era facile prevedere, non riesce mai a fare passi in avanti, nonostante la situazione ed i numeri siano drammatici.
Biden, così come aveva fatto Obama prima di lui, e un po’ meno aveva fatto Trump, si è presentato davanti alla nazione per reclamare una limitazione del commercio e detenzione delle armi.
La Costituzione americana, le sentenze della magistratura, e soprattutto il peso delle lobby sono i fattori che fino a oggi hanno sbarrato la strada a ogni tentativo di «disarmo».
Il secondo emendamento della Costituzione americana consente ai privati cittadini di possedere armi. “Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una ben organizzata milizia”, recita testualmente la legge, “il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”.
Una roccaforte inespugnabile dunque, protetta da una legge fondamentale che funge da pietra angolare della Costituzione americana, e che scaturisce dalle guerre di indipendenza contro britannici e spagnoli.
Qualsiasi tentativo di intervenire su questa, che più che una legge è una filosofia propria dei cittadini americani, è risultato vano.
Nel 2008, una sentenza della Suprema Corte ha ribadito la piena legittimità del secondo emendamento, dichiarando illegittima una legge di uno Stato membro, che cercava di limitare il possesso e l’uso delle armi.
Nel 1994 Bill Clinton approvò una legge (poi abolita nel 2004) che proibiva il commercio di armi da guerra per uso privato, ma l’anno successivo i democratici persero le elezioni di Midterm anche a causa di questa iniziativa, che ostacolava l’azione delle potentissime Lobby favorevoli alle armi.
Nel 2012, dopo la strage di Sandy Hook (26 morti) Barack Obama tornò a chiedere una limitazione ma la proposta non passò.
( Il massacro di Sandy Hook però segnò un precedente di storica rilevanza: per la prima volta una fabbrica di armi accettò di risarcire le vittime della sparatoria , versando 73 milioni di dollari alle 9 famiglie che le avevano fatto causa).
E oggi? Alla luce della ennesima strage di innocenti bambini , quante possibilità ci sono che una riforma della legge vada in porto?
I numeri sembrano non dare speranze.
Il Senato, dove i democratici possono contare sul 50% dei voti, resta un ostacolo insormontabile.
Per modificare una legge serve almeno il 60% dei voti e dunque il 10% dei repubblicani, storicamente contrari all’abolizione, dovrebbero votare contro il loro stesso partito.
Scenario impossibile perché un peso determinante nel settore del commercio delle armi è esercitato dalla NRA, la lobby dei produttori, che finanzia e supporta molti senatori e politici repubblicani.
Il soldato-fotografo Dmytro Kozatskiy, che si fa chiamare “Orest” , è stato catturato dai russi e ha usato il suo profilo Twitter per congedarsi dal mondo.
“E’ fatta.Grazie di tutto dal rifugio di Azovstal. Luogo della mia vita, e della mia morte”.
A questo link tutte le foto che ha chiesto a chiunque di poter condividere.
Alcune delle fotografie condivise da Dmytro Kozatskiy realizzate durante la resistenza nell’acciaieria Azovstal.
Watch up!
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Luoghi geometrici…non comuni!
Magna Rita
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la colossale statua di Santa Rita da Cascia a Santa Cruz, Brasile
Nelle vicinanze della città di Santa Cruz, in BRASILE, nello Stato del Rio Grande do Norte, si trova una colossale statua di Santa Rita da Cascia. È la statua religiosa cattolica più grande al mondo! Si noti, nella figura, il confronto con altre due famosissime statue: il Cristo Redentore del Corcovado a Rio e la Statua della Libertà a New York.
La città di Santa Cruz organizza ogni 22 maggio, una grande festa dedicata alla Santa e alla quale, mediamente, partecipano non meno di 60.000 persone provenienti da ogni angolo del Brasile.
Viene ricordato che il fondatore della città di Santa Cruz sarebbe stato un oriundo italiano devotissimo a Santa Rita da Cascia approdato in questo territorio nel 1825.
Santa Rita è la Patrona di CASCIA e co-patrona di NAPOLI, della famiglia, delle donne sposate infelicemente e dei casi disperati e apparentemente impossibili.
In ITALIA Santa Rita è festeggiata in diverse località: in Calabria a ROMBIOLO (VV), in Campania ad AVELLINO, in Lombardia a CONSIGLIO DI RUMO (CO), in Piemonte a TORINO, in Puglia a CONVERSANO (BA), in Sardegna a PATTADA (SS), in Sicilia a CASTELVETRANO (TP) e in Toscana a SESTO FIORENTINO (FI).
CURIOSITÀ Santa Rita da Cascia risulta la Santa più invocata sui social network per ottenere una guarigione miracolosa dal Covid-19.
L’eclissi della Luna Piena dei Fiori
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LUNEDÌ 16 MAGGIO L’ECLISSI DELLA LUNA PIENA
La LUNA PIENA di questo mese di maggio sarà oscurata dall’ombra della Terra e ci regalerà lo spettacolo di una ECLISSI !.
Purtroppo gli orari non saranno proprio comodi: bisognerà alzarsi in piena notte tra oggi (domenica) e domani (lunedì), intorno alle 3:30, per vedere il disco illuminato del nostro satellite entrare nel cono di penombra generato dalla Terra (vedi figura). L’eclissi vera e propria inizierà alle ore 4:30 circa, quando la Luna inizierà a entrare nel cono d’ombra che via via la oscurerà fino a raggiungere la totalità alle 6:10 c. Purtroppo in Italia seguire l’eclissi fino alla fase di totalità sarà praticamente impossibile, poiché nel frattempo, poco prima delle 6:00, la Luna scenderà sotto l’orizzonte. Per di più, già dopo le 5:00, il cielo inizierà progressivamente a rischiararsi per l’imminente sorgere del Sole che avverrà alle 5:50 c.
Sarà comunque gratificante osservare il progredire dell’eclissi ad occhio nudo (meglio ancora con un binocolo), seguendo la Luna, bassa verso Sud-Ovest, che diventerà sempre più scura prima di sparire sotto l’orizzonte.
Non sono mai stata brava a organizzare gli spazi. I pieni e i vuoti, soprattutto. Amo le cose fatte alla rinfusa.
Ci sto dentro, nel groviglio: occuparmi della matassa dei pensieri è il mio catalogo di viaggio da spulciare.
Consapevolezza di un andare che resti e restituisca il senso dello spostamento dal proprio baricentro.
Intendo provarci.
Sperimentare.
Parto, sì. Perché il pensiero ha bisogno di estensione verso la chiarezza, come il passo si allunga naturalmente in direzione di spazi ampi. E sgombri.
Libertà da ingombri. Dicono sia un obiettivo eleggibile per chi vuole scrivere una storia che non obbedisca a logiche precostituite.
Non riesco a pensarmi confinata in un’idea lineare: cammino a zig-zag per il mondo e vivo di equilibrismi appesi a un filo di voce.
Il megafono lo lascio agli specialisti del rumore. Preferisco che sia un serrato bisbiglio a preannunciare il mio arrivo.
Quante volte, sull’orlo del baratro, gridare e ridere a precipizio mi ha salvato la vita, permettendomi di silenziare il frastuono delle allusioni insensate.
Ho imparato ad amarlo, il silenzio. Riempiendolo di tremiti e di vibrazioni che mi arrivano forti, quando mi capitano sfioramenti di pelle. Di quelli che producono energie indefinibili con il metro umano.
Io spezzo i discorsi con le mani quando non riesco a prendere a morsi la durezza della vita, interrompo la catena dell’ovvio e mi perdo alla ricerca di curiosi indizi, disseminati tra gli scomparti.
Sto mezza aperta e mezza chiusa, abbarbicata a una cerniera rotta da cui sbucano sbuffi e saluti.
Il bagaglio è ancora lì. Sbilenco, più di sempre.
Ostaggio di chiaroscuri, nel livido ombreggiare di una tenda scossa dal vento che ne camuffa le pieghe: pronta per affrontare il cammino io non lo sono stata mai.
Ma arriva un momento in cui rispondere a un’esigenza diventa imperativo categorico, è vera e propria terapia per l’anima. Aria buona per rinfocolare il cervello.
Coltivo il desiderio di capi leggeri, di indossare morbidamente le inquietudini. Me le lascio scivolare addosso senza imporre alcuna destinazione: seta per il cuore, velluto per la mente, broccato per il corpo.
Rotola dal comodino una biglia di vetro colorato. Si strazia su e giù per il pavimento, inciampando in me e nella mia indecisione. È alla deriva, in un mare di destinazioni possibili.
Ne osservo il moto convulso e ascolto il fruscio che genera il suo sfregamento sul parquet. Mi imbambolo mentre pesco dai cassetti e frugo alla ricerca di frammenti, di ricordi da trascinare via.
Mi chino a raccogliere la biglia e la faccio ruotare sul palmo della mano: il rumore è diverso. Sono cambiati i pensieri. Io non sono più io.
Mi frugo nelle tasche piene di ipotesi ardite: so che sarò altro da me, al rientro. Un percorso mi aspetta mentre rifletto su come aspettarlo.
Non temo il vicolo cieco, lungo il quale si cammina a passo d’uomo: mi fa più paura l’autostrada della bestialità dalla vista perfetta, tripla chance di corsia dove se non sorpassi e vai a velocità costante, rischi di bruciare il motore o di rimanere asfaltato.
Penso che se dovesse ospitarmi un treno, lo spingerò via dal binario morto, se sarà un aereo volerà anche con un’ala sola e a piedi camminerò con una scarpa sì e una no: un viaggio viaggia da sé, anche così.
Non serve pianificare, serve volere fortemente uno slittamento di asticella in alto. Una lieve traslazione di parabola verso un esito dai contorni più definiti.
Ho deciso che i tabù sono fatti per essere infranti e anche noi siamo fatti per disintegrarci tra amori folli e legami ruvidi, figli di bagagli semi disfatti.
Stropicciati, ci sparpagliamo nell’aria quando il vento vuole disperderci e ci ricomponiamo magicamente come puzzle perfetti quando, placato il suo impeto, finalmente la natura si riposa.
Nella mia valigia ho chiuso il disagio della fissità di uno schema, un’educazione fredda e rigida come il marmo di questo pavimento che, ormai, ondeggia sotto i miei piedi portandomi dritta al mare, tra flutti e spruzzi da cui ho capito che è inutile ripararsi.
Mi mancherà tutto di questi luoghi, mi mancherà chi mi ha fatto compagnia abitandoli con me, mi mancherà la me che li ha vissuti col desiderio di renderli animati e parlanti. I luoghi siamo noi, permeati di luce e di emozioni vive e vere, che li attraversiamo rendendoli indimenticabili per la mente e per l’anima.
Sto fissando la valigia. La guardo prendere forma e plasmarsi, rinnovata nel turgore. Il tessuto è finalmente teso, senza grinze e pieghe: tutto ha una collocazione e anche i pieni fanno pace coi vuoti.
Ho scoperto che non ho un biglietto. Ho solo un invito a raggiungere il molo. E un disegno. Raffigura una imbarcazione a vela, candida come il cielo, quando si addensa di nuvole che precedono la tempesta. Ha un timone di legno, imponente e lucido. Dicono che la barca sia affidata a una donna esperta ma volubile che non ama i tentennamenti. Chi decide di salpare non ha modo di cambiare idea. Si affida. Come, a volte, capita anche nella vita.
Mi sono affidata tanto nella vita. Ho assecondato, ho accontentato ed elargito senza mai tenere niente per me. Il mio cuore lo sa e ha pagato più volte dazio per questo.
Ora basta. Ora c’è una nave che salpa. E io ho la valigia giusta per questo viaggio. E sono la donna giusta per affrontarlo con la consapevolezza della fruttuosità e dell’arricchimento che da tale esperienza mi deriverà.
Porto con me un taccuino, una penna e il mio pc. Poche cose che significano tanto, tutto per me.
Parto per un viaggio lungo come il mio bisogno di ritrovarmi, dentro e fuori.
Ne parlerò, ne scriverò, lo racconterò senza filtri.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
M come Mamma
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La statua di una mamma nel porto di Odessa (Ucraina)]
Un vecchio proverbio dice: “Dio non poteva essere dappertutto e allora ha inventato le mamme”.
CURIOSITÀ Nella maggior parte delle lingue di tutto il mondo, la parola “mamma” inizia sempre con la lettera “m”.
Anche nei paesi molto più lontani dal nostro la pronuncia è uguale.
A Samoa 🇼🇸 mama, nelle Figi🇫🇯 nana, in singalese🇱🇰 amma, in cinese🇨🇳 mama, in eskimese anana, in zulu umama, in swaili mama.
PERCHÈ ? Sembra che nei primi mesi di vita, tutti comunichiamo allo stesso modo e che il suono vocale A, unito ai suoni nasali M e N, sia uno dei più semplici da pronunciare in assoluto. Esista anche il mantra “MA” che è considerato molto protettivo.
Buon vento è un modo di dire che si usa fra marinai come augurio di trovare sempre le condizioni migliori per indirizzare il proprio viaggio, un viaggio che, a volte invece, può essere costellato di difficoltà tra le quali è difficile destreggiarsi. Da una di queste difficoltà nasce il progetto espositivo, realizzato da Federica Anna Molfese con l’Associazione Controcorrente e CFC, patrocinato dalla Regione Lazio e dal Comune di Roma con il sostegno di dell’Associazione Salute Donna Onlus, Cristal BraeSamarcanda Radiotaxi.
Racconta il decorso di una malattia purtroppo molto diffusa, il tumore al seno e viene presentato il 7 maggio alle ore 18,00 presso Rione Roma in Via dell’Arco di Parma 18 che ha, con entusiasmo, accolto l’iniziativa.
E’ il foto-video racconto di un percorso lungo e doloroso che ha coinvolto l’autrice, Federica Anna Molfese e, poco dopo, anche sua madre. Prima dell’operazione di mastectomia che la attendeva ha voluto fotografarsi per ricordare, per raccontare quello che le accadeva e prendere consapevolezza di quello che stava per cambiare. Quella prima foto ha creato un forte legame con la macchina fotografica, che l’ha accompagnata per i due anni successivi. Le foto scattate erano crude, prive di ogni qualsivoglia mediazione sul tema, anche per il modo in cui il tumore era stato scoperto e fatto irruzione nella sua vita, senza nessun avvertimento dall’oggi al domani..
L’esigenza dell’artista è stata quella di creare qualcosa che andasse oltre il personale vissuto e raccontare le paure e le idee che passano per la mente in un momento come quello, al fine di aiutare chi, purtroppo, sì trova ad affrontare una situazione simile a sentirsi meno solo.
Il progetto, curato da Chiara Sandonini, si compone di 3 sezioni ospitate nei diversi piani di Rione Roma, lo spazio polifunzionale situato nei pressi di Piazza Navona, che accoglie l’evento nelle giornate comprese fra il 7 ed il 13 maggio 2022, in concomitanza con il mese della prevenzione dei tumori al seno. Per accedere dall’8 al 13 è necessario prenotare via email a rioneroma@gmail.com o chiamare il numero 3387043943.
L’iniziativa ha riscosso l’interesse della Commissione capitolina della Pari Opportunità ed ha invitato l’artista alla commissione tenutasi il 2 maggio 2022 a seguito della quale la Presidente Michela Cicculli ha dichiarato: “La Commissione delle Pari Opportunità di Roma Capitale sostiene fortemente l’iniziativa Buon Vento Exhibstory che, accanto alle numerose altre iniziative dedicate in questo periodo alla sensibilizzazione sul tumore al seno, è occasione di riflessione su un’esperienza che riguarda ancora troppe donne, anche molto giovani, che non devono sentirsi sole. La Commissione della Pari Opportunità e l’Assemblea Capitolina si faranno promotrici degli atti necessari a diffondere le iniziative di informazione e prevenzione nella città di Roma e di quelli a supporto alle donne che si trovano ad attraversare questa esperienza. La corretta informazione, l’accesso alla prevenzione e alle cure e il sostegno sociale e istituzionale sono i tasselli che possono aiutare le donne ad affrontare e superare anche un’esperienza così difficile e a tornare ad una vita piena e soddisfacente.”
Alla Commisione Comunale ha partecipato anche l’Associazione Salute Donna Onlus, che si dedica alla promozione dell’educazione alla salute, alle attività di prevenzione delle malattie oncologiche, alla informazione sull’importanza dei principi che sono alla base dei corretti stili di vita, al sostegno dei pazienti oncologici nel percorso di cura, al supporto della ricerca scientifica e alla tutela dei diritti dei pazienti anche attraverso un’importante azione Istituzionale. Nella stessa sessione è stata ribadita anche l’importanza di una riflessione da parte delle istituzioni sul sostegno alle idee ed ai progetti artistici delle persone colpite da malattie gravemente invalidanti.
Anche la Regione Lazio ha voluto sostenere BuonVento concedendo il suo patrocinio e la Consigliera e Segretaria Michela Di Biase dichiara: “Raccontare la malattia attraverso l’arte, dare forma al dolore, ai cambiamenti del proprio corpo e a quelli dell’anima e trasformare tutto in un “Buon vento” è quello che Federica ha realizzato attraverso un progetto artistico che ripercorre le tappe del suo tumore al seno: dalla scoperta, all’operazione e alla guarigione. L’istinto ci porta quasi sempre ad allontanare il dolore, a volte anche a nasconderlo, Federica, invece, lo ha mostrato al mondo, lanciando attraverso l’arte un messaggio diretto e potente che è quello della sfida, del coraggio e della vittoria. È attraverso questo racconto che Federica dà forza a tutte le donne che come lei sono colpite dal carcinoma al seno. Il tumore della mammella è ancora oggi la neoplasia più frequente in Italia ma è anche tra le più curabili e la diagnosi precoce riveste un ruolo cruciale nella lotta al tumore al seno. La Regione Lazio ogni anno offre screening gratuiti alle donne tra i 45 e i 49 anni. Inoltre, abbiamo stanziato fondi per contribuire all’acquisto della parrucca e istituito banche della parrucca in tutte le Asl regionali, oltre a prevedere un unico intervento per la mastectomia demolitiva e la ricostruzione contestuale della mammella.”
Il progetto è realizzato con il sostegno di Cristalbra “zerodolore”, il primo reggiseno bustino-bendaggio, ideato per accompagnare ogni persona nei giorni successivi all’intervento necessario in caso di eliminazione di neoplasia o in caso di mastoplastica ma anche in un decorso post operatorio di altro genere che interessi la zona.
Anche la cooperativa di Taxi Samarcanda ha deciso di partecipare al progetto in questo mese in cui festeggia i suoi 30 anni di attività ed ha deciso di celebrarli all’insegna della solidarietà, implementando le già corpose attività del Taxi Solidale, con un’iniziativa in sostegno delle donne che devono recarsi in ospedale per controlli e/o operazioni. Ogni donna, che nel mese di maggio si avvarrà del servizio usufruirà di uno sconto del 10% sia sul trasporto verso la struttura medica – clinica – ospedaliera che dalla stessa verso casa; il codice abbinato all’iniziativa è 0310 “Convenzione Buon Vento” . Samarcanda è da sempre vicina alle problematiche sociali e sostiene periodicamente diverse campagne di solidarietà.
BuonVento continuerà ad essere presente a Roma in diversi luoghi che lo ospiteranno per il valore evocativo e narrativo che lo caratterizza, per sapere dove e quando potrete vederlo seguite i social dell’iniziativa:
Sono una giornalista pubblicista, un ufficio stampa, una professoressa di scuola superiore e una formatrice aziendale. Lavoro con diversi enti di formazione ma anche con università private. Nei miei 43 anni ho capito di essere inguaribilmente curiosa di amare la letteratura, l’arte, il teatro, gli eventi e il digitale per il suo valore innovativo. Sono Membro del comitato scientifico dell’Associazione Nord Est Digitale che promuove e diffonde la cultura del digitale in Italia e sono ambassador per il Lazio del Digital Meet.
A questi link potrete trovare ulteriori info sulla mia attività.
La Festa dei Lavoratori prende spunto da un episodio che risale al 1886. Il 1 maggio di quell’anno, negli Stati Uniti, la Federation of Organized Trades and Labour Unions proclamò uno sciopero generale per chiedere condizioni di lavoro più eque nelle fabbriche. La protesta andò avanti per tre giorni e il 4 maggio culminò con una vera e propria battaglia tra i lavoratori in sciopero e la polizia di Chicago: morirono 11 persone in quello che passò alla storia come la Rivolta di Haymarket.
CURIOSITÀ: Anche se i fatti all’origine della data simbolica di questa ricorrenza si svolsero a Chicago, negli USA il _“Labor Day”_ si festeggia il primo lunedì di settembre. Quest’anno cadrà il 5 settembre prossimo.
A Volterra (Pisa) la mattina del 1° maggio a colazione si usa mangiare un piatto di trippa. Usanza che viene dai lavoratori delle cave di alabastro.
Cieli sereni PG
Veneziola/Venezziola/Venezuola…Venezuela!
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Il Vespucci sta navigando verso Trinidad e Tobago, al largo delle coste del Venezuela..
Ad Amerigo Vespucci non si deve soltanto il nome “America”, ma anche il nome “Venezuela”. Nel 1499, in uno dei suoi viaggi nel nuovo continente, il navigatore fiorentino scoprì un insediamento lagunare con tipiche costruzioni sull’acqua. Queste palafitte, e più in generale l’intera Laguna di Maracaibo, ad Amerigo Vespucci ricordarono Venezia e la definì Veneziola/Venezziola/Venezuola (cioè“piccola Venezia”). Successivamente tutta la regione dove sorgeva questo villaggio assunse, per estensione, tale denominazione che fu poi trasformata in lingua spagnola in “Venezuela”.🇻🇪
Cieli sereni PG
L’acqua del lago non è mai dolce – Giulia Caminito
“L’acqua del lago non è mai dolce” ti assorbe e ti immerge nella storia… il romanzo richiama sensazioni ed episodi della propria infanzia e adolescenza, addolciti da una sottile malinconia e nostalgia per il tempo passato; anche se gli episodi personali non hanno niente a che vedere con quelli raccontati, l’intimità che si crea con il lettore richiama alla memoria tali emozioni.
È inevitabile tifare per i più fragili, commuoversi per le ingiustizie che colpiscono i protagonisti della storia e soffrire per l’anaffettività della famiglia della protagonista.
Si tifa per i più fragili, ci si commuove per le ingiustizie subite dai protagonisti e si soffre per la mancata accoglienza familiare verso i familiari della protagonista.
Gaia racconta in prima persona la sua storia: l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. La sua famiglia è sorretta dalla madre, Adriana. Adriana è una donna di umili origini ma di grande carattere, volitiva e battagliera per la sua famiglia; la donna non transige sul rispetto delle cose comuni e la sua lealtà nei confronti degli altri rappresenta uno dei pochi pilastri educativi offerti ai figli.
Nella famiglia di Gaia o si accettano le regole e le condizioni dettate da Adriana o si deve andare via di casa. Le condizioni economiche sono precarie e la priorità è sopravvivere, sotto tutti i punti di vista.
Nonostante le varie difficoltà, economiche e sociali, Gaia riesce a condurre una vita piuttosto tranquilla: vive al riparo della protezione della madre, seguendone i dettami e uniformandosi al suo volere senza, all’apparenza, venirne schiacciata.
Il fratello maggiore, Mariano, è il suo riferimento.
Quando il fratello però andrà via di casa, la sua mancanza sarà forte e Gaia deciderà di crescere e di affrontare da sola gli eventi che le capiteranno.
La donna che diventerà sarà decisamente diversa dalle aspettative della madre.
In una società che corre e che si evolve in fretta le mancanze, economiche e morali, della famiglia di Gaia si faranno sentire e la ragazza farà sempre più fatica a gestire le proprie emozioni, con ripercussioni a volte importanti sui rapporti sociali.
La storia è ambientata nel paese di Anguillara Sabazia e sul Lago di Bracciano. Le dinamiche popolari ricordano equilibri che forse non torneranno più; equilibri sociali che nella frenesia odierna ci siamo dimenticati e tradizioni tramandate che affascinano e commuovono sempre.
“L’acqua del lago non è mai dolce” racconta una storia cruda e coinvolgente. La scrittura di Giulia Caminito non annoia mai e durante la lettura la curiosità per come si evolveranno gli eventi cresce pagina dopo pagina!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Ogni anno, dal 1970, un mese e un giorno dopo l’equinozio di primavera, si celebra quella che è considerata la più grande iniziativa al mondo dedicata all’ambiente.
Obiettivo principale: sensibilizzare l’opinione pubblica sulla salvaguardia del pianeta, della biodiversità, promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri e invertire il degrado dei terreni.
Le Nazioni Unite, nel 2016, hanno scelto il 22 Aprile per adottare ufficialmente l’Accordo di Parigi, che rappresenta l’impegno più importante mai firmato contro la crisi climatica globale.
L’obiettivo del trattato è molto chiaro e prevede l’incremento comunitario di azioni mondiali e il suo raggiungimento può essere riassunto in 3 punti fondamentali:
– contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 °C oltre i livelli preindustriali e di limitare l’aumento a 1,5 °C
– aumentare la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, promuovendo la resilienza climatica e lo sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra, con modalità che non minaccino la produzione alimentare;
– rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima.
Tutto molto bello e soprattutto estremamente necessario.
Ma cosa significa esattamente la tematica scelta e quali demoni si possono celare dietro una così nobile causa?
“Investire nel Pianeta” è un chiaro riferimento a come la finanza privata – influenzata e guidata spesso anche dalle nostre scelte individuali – è probabilmente uno dei più grandi acceleratori dei capovolgimenti di cui abbiamo bisogno per dare una svolta e mettere un freno ai disastri naturali causati solo dalla nostra noncuranza e senso di onnipotenza.
E’ quindi abbastanza semplice dedurre come, prendendoci cura della nostra Madre Terra, arrivino anche i vantaggi economici.
E qui entra in scena un termine che si è fatto conoscere molto negli ultimi tempi.
Stiamo parlando del Greenwashing.
Origine del nome:
Si tratta di un neologismo nato dalla sincrasi tra le parole “green” (il colore associato da sempre all’ambiente e al movimento ambientalista) e “whitewashing” (imbiancare e – in senso figurato – nascondere qualcosa).
La sua origine viene fatta risalire all’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che per primo lo impiegò nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere, che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, quando in realtà l’invito era mosso quasi esclusivamente da motivazioni economiche (nello specifico, era relativo a un taglio nei costi di gestione).
Ora noi lo utilizziamo per indicare una strategia di comunicazione adoperata da certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, con l’unico scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.
E’ una campagna sostenibile intrapresa dall’azienda, per mostrarsi sensibile alle conseguenze dei propri prodotti sull’ambiente.
Peccato che, come spiega a Will uno dei più agguerriti nemici di questa pratica, nonchè esperto in sostenibilità ambientale e sociale nella moda, Matteo Ward, analizzando le componenti di un capo presentato sul sito, è possibile notare come un tessuto composto da più di due diversi tipi di fibre non possa essere riciclabile.
Inoltre, le stesse fibre derivano da combustibili fossili: questo significa che,lavaggio dopo lavaggio, viene rilasciata della microplastica.
E tutto ciò non è assolutamente né green, né Eco-friendly, né tantomeno etico.
I danni che conseguono un’attività di Greenwashing spaziano dalla perdita di credibilità a quello più serio che consiste nella mancanza di un’azione concreta per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità.
Per questo motivo, è fondamentale l’identificazione delle aziende che realmente hanno incorporato la sostenibilità all’interno della propria organizzazione, soprattutto per gli investitori ESG (Environmental, Social, Governance. Viene utilizzato nel settore economico/finanziario per indicare tutte quelle attività legate all’investimento responsabile (IR), che perseguono gli obiettivi tipici della gestione finanziaria tenendo in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance).
Il rischio, altrimenti, è quello di finanziare progetti e imprese che non apportano alcun beneficio per l’ambiente e le persone, vanificando così tutti i princìpi e le buone intenzioni della tematica di questa giornata.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
Dalla famiglia, come nella tragedia greca e nei romanzi russi?
Qualsiasi risposta è già stata data.
“È un momento” mi disse una volta un amico, nelle acque limpide di Lampedusa, forse per vanto erudito citando un qualche autore di quelli che fanno colpo su una fanciulla che nuota da sola. Tipo Sartre, o qualcosa di simile. Me lo ricordo bene. Fra i ricordi sfocati di un viaggio di maturità, quelli che si facevano un tempo, a luglio inoltrato, con poche lire in tasca.
Arrivavi in un’isola, bianca bianca e con in testa ancora i versi a memoria di qualche tragedia – eit ofel’ Argùs me diaptastai skafos – e subito era scottatura e ubriacatura e amori di una sera.
Un momento, vorrei dirgli decenni dopo, è quello in cui cerchi di afferrarla per fissarla da qualche parte, per ricordartene, per dire agli amici: “ecco, ero felice”, per rispondere alla domanda che crediamo sempre ci venga fatta: “sei felice?”.
“Sì: ho le prove! La luce era perfetta, l’acqua era limpida, ci sentivamo fatti l’uno per l’altra, toccarsi era bello e difficile – troppo ustionati! – ma quindi sì: felice!”
Ma il fatto è che la luce poi cambia, e insomma non era poi così perfetto, e infatti ognuno ha nuotato per conto suo.
Non devi cercare di afferrarla: è fragile la felicità! Si accorge se vuoi stringerla e si squaglia prima che tu possa dire: “eccoti!”
L’ansia della felicità è infelicità pura.
L’infelicità invece si lascia fermare volentieri. Gli infelici sono a loro modo felici: perché la loro infelicità è ben solida, personale, intima. È una compagna che non tradisce, che non si allontana, che si fa afferrare, richiede attenzione esclusiva, è gelosa! L’infelice fugge con cura ogni possibilità di felicità: evita di ricevere regali, di portare a termine progetti, di mostrare il lato migliore di sé, evita l’affetto degli altri e il loro aiuto. Tutto ciò lo (la) priverebbe del piacere di essere infelici, dell’autoerotismo dell’infelicità, della ruminazione ansiosa in cui gli altri sono nemici perché felici.
Vivere accanto a un infelice cronico è l’inferno in terra.
Sebbene l’infelice sembri amare la solitudine, in realtà odia la solitudine altrui, odia chi non cerca la sua compagnia anzi, chi non ha bisogno della sua compagnia. Il bisogno è nemico della felicità. È quindi illusoria e falsa l’autosufficienza dell’infelice: egli (ella) ha bisogno dell’attenzione altrui, delle energie psichiche, della gioia, dell’entusiasmo che pure critica.
Molto di più dell’esibizione di falsa felicità – quella dei social, delle celebrazioni chiassose, dei selfie sorridenti, del successo esibito – io temo la retorica della non esibizione, l’ostentazione del privato, dell’autosufficienza rancorosa, del compiacimento di gusti elitari e raffinati che ammantano di fascino lo squallido e il disadorno.
La tragedia greca è – ovviamente – piena di personaggi infelici. Soprattutto donne. Fra le più infelici c’è Antigone. Sappiamo bene che Antigone è un’eroina: vuole a tutti costi seppellire il fratello Polinice e per farlo non esita a scontrarsi con le leggi e con il perfido tiranno Creonte. È inflessibile e rigida, ma lo spettatore è dalla sua parte perché la sua inflessibilità è migliore di quella – opposta – di Creonte. Ne ammiriamo il coraggio e la determinazione: faccia a faccia col tiranno afferma che il morire non le causa nessun dolore e anzi vuole affrettare la Morte. Ma, quando appare per l’ultima volta sulla scena, già condannata, si esprime in modo ben diverso: chiede di essere guardata mentre va a morire, si dispera per non avere conosciuto l’amore coniugale e perché non sarà pianta da nessuno, lamenta l’infelicità sua e della sua famiglia tutta, si autocommisera, non è più sicura che gli dei siano dalla sua parte. Il Coro si dissocia da lei: l’infelicità necrofila che ha coltivato per tutta la tragedia appare ora in tutta la sua inutilità. Nessun riscatto è possibile. Neanche quello eroico. La sua vita le si rivela arida, povera, solitaria, senza eros, ora che è venuta a cadere la spinta antagonista e ribelle. Coerenza e assenza di conflitto – Antigone è stata incredibilmente sicura di fare bene e che nient’altro esistesse, non l’amore per la sorella né per il fidanzato, oltre al suo dovere di pietà – si rivelano scelte pietrificanti e raggelanti. La morte di Antigone non è ‘bella’ né eroica, ma solitaria e patetica.
Questa tragedia, così amata, ci mostra che le opposte richieste dei due personaggi, così rigide, non possono essere armonizzate in modo da rendere giustizia ad entrambe: ogni scelta implica il rifiuto di qualcosa, ogni valore si afferma in modo totalizzante e senza appello; per evitare il conflitto e il dolore conseguente, per vivere in modo coerente, Antigone si condanna all’infelicità totale, all’insensibilità, alla solitudine vera.
Felice è il coraggio del vuoto, della non aspettativa, del conflitto, dello spazio aperto a ciò che accade, a ciò che non è nostro e non possiamo possedere, che ci può solo essere regalato e non potremo usare per rispondere “sì” alla domanda se siamo felici.
Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.
Il Leone di San Marco
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Nel quarto superiore del simbolo della Marina Militare compare il Leone di San Marco, secolare simbolo della città di Venezia e della sua antica Repubblica. Detto anche “Leone Marciano” o “Leone Alato”, è la rappresentazione simbolica dell’evangelista san Marco, raffigurato in forma di leone alato. Altri elementi osservabili sono l’aureola, il libro e una spada tra le zampe in varie combinazioni
La simbologia del Leone di San Marco deriva dalla leggenda secondo la quale un angelo sotto forma di leone alato si presentò al Santo, naufragato in laguna, proferendo le parole: «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum» (Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo) preannunciandogli che in quel luogo, un giorno, il suo corpo avrebbe trovato riposo e venerazione. Il libro, associato al Vangelo, ripropone spesso le parole del leone: «PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS».
Numerose le interpretazioni simboliche riguardo alla combinazione tra spada e libro:
il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato;
il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata alle pubbliche magistrature;
il libro aperto e la spada non visibile a terra è ritenuto simbolo della condizione di pace;
il libro aperto con la spada impugnata sarebbe invece simbolo della pubblica giustizia.
il libro chiuso con spada impugnata, è infine ritenuto simbolo di stato di guerra;
Altri elementi significativi, infine, il leone poggia le zampe anteriori sulla terra e quelle posteriori sull’acqua: particolare riferimento al saldo potere di Venezia sulla terra e sul mare.
Già che ne sarà della Z-Generation e della nostra, che ne sarà dopo che la Z sembra sia divenuta suo malgrado una sorta di “marchio d’infamia”, come fu la “lettera scarlatta” o altri pittogrammi/simboli che neppure credo sia il caso di nominare.
Pare infatti allungarsi l’elenco della Aziende che rimuovono/rivedono il proprio logo dove la Z è più o meno dominante.
– Qualche settimana fa Zurich Assicurazione comunica di voler rimuovere (pare temporaneamente) il logo con la lettera Z per dissociarsi dall’invasione russa in Ucraina.
– Qualche giorno prima l’azienda britannica Ocado aveva deciso di modificare il logo del servizio di spesa veloce online Zoom.
– Un altro caso è quello di Zetland, società di media danese fondata nel 2012, con sede a Copenaghen, un sito d’informazione che pubblica articoli d’approfondimento e podcast per abbonati.
Sinceramente sono perplesso… si va diffondendo la “sindrome dell’inconsciamente colpevole” o “dell’incolpevole fiancheggiatore”, ma tutto questo ha un senso? Ha senso stravolgere il proprio logo e chissà cos’altro dell’immagine di un Brand, con i costi annessi connessi e derivati? E fino a quando?
Grazie ai commenti al mio post in tema su Linkedin, trovo specificato da @Stefano Vatti, che «sono 168 i marchi registrati a livello comunitario che recano la sola lettera “Z”…» Che dire? Almeno avvisiamoli tutti dei rischi che corrono.
Altri commenti perplessi come quello di @Katia Bovani: «Dismettere un logo identificativo di un’impresa consolidata e di un brand il cui valore economico-finanziario è composto anche da segmenti immateriali (come il logo) che fanno parte della pura azienda, non è decisione che l’organo amministrativo può assumere sull’onda emotiva. Men che meno per il timore di essere assimilati a un corpo militare invasore.»
O di @Mariangela Ottaviani: «…proprio per prendere le distanze da queste “sindromi”, è più che mai importante mantenere la propria identità. Se poi si tratta di un brand come quello al quale ti riferisci (Zurich), fondato nella seconda metà del 1800, allora non mi preoccuperei di cambiare logo. Dopo un secolo e mezzo quell’azienda è ancora presente… abbiamo forse chiesto scusa a Bartolomeo Cristofori e variato il numero dei tasti del pianoforte*, quando l’88 è stato associato a “certi ambienti” politici dopo la seconda guerra mondiale?».
Commenti che aiutano a riflettere, perché viviamo un periodo storico dove la forte pressione “social-moral-puritana”, vorrebbe tutti indistintamente equidistanti da ogni “male” (dove il concetto di male è tra l’altro molto “liquido”), obbligatoriamente schierati, perennemente tesi a cospargerci il capo di cenere per gli errori altrui e il non-farlo diviene automaticamente connivenza. Se poi il pensiero social-sociologico individua un suo simbolo pro o contro, che sia un colore o la pressione di un ginocchio, il perverso gioco e fatto!
Altra cosa è ovviamente non solo prendere le distanze con dichiarazioni pubbliche, ma anche intervenire con azioni concrete, finanziarie dirette o meno a sostegno della “causa” che si intende appoggiare.
Nel frattempo difronte a questo dilagare di Z-Remove Potemmo consolarci ipotizzando un lato positivo sul fronte delle “nuove occupazioni” (se non cambiano le cose) l’ SMBC (social-moral-brand-consultant) e per i gruppi più grandi, compartimenti dedicati con professionisti laureati in Storia, Storia delle Religioni, Sociologia, Psicologia (delle masse possibilmente) con forte propensione al settore “social-comunication”.
Oggi c’è chi viene costretto a prendere posizioni con gesti tanto visibili quanto talvolta effimeri oppure si “mette avanti” a scanso di equivoci.
Penso finiremo per vestirci tutti dello stesso colore (o colori), studiando una Storia “rivista e corretta” (come non lo fosse già abbastanza), consolandoci che colori e Storia, potranno cambiare di volta in volta a seconda del “male” di turno.
*(Oggi poi dividere i tasti di un pianoforte tra “bianchi e neri” potrebbe diventare un problema)
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
In questi giorni, chi si troverà sveglio poco prima del sorgere del Sole (intorno alle 5..🤪), potrà scorgere, allineati nel cielo sud-orientale, ben 4 dei 5 pianeti visibili a occhio nudo. Si tratta di GIOVE, VENERE, MARTE e SATURNO: la loro disposizione offrirà la possibilità di immaginare nel cielo la linea chiamata ECLITTICA, ovvero la proiezione in cielo del piano dell’orbita della Terra intorno al Sole.
Il 23 aprile lo spettacolo sarà ancora più raro: anche la Luna si disporrà sulla ‘retta’ e sarà visibile sulla destra, facendo salire a 5 i corpi celesti allineati, (vedi immagine per le ore 5 circa).
L’allineamento sarà visibile fino al 29 aprile, mentre la stessa configurazione si ripresenterà il 21 maggio prossimo.
Ma non è finita! Intorno al 17 giugno ai 4 pianeti si aggiungerà anche MERCURIO!
CURIOSITÀ Lo spettacolo subirà qualche cambiamento: alla fine di aprile sull’ “ideale retta congiungente”, la posizione di Giove si scambierà con quella di Venere e alla fine di maggio sempre Giove si invertirà anche con Marte.😵💫
Cieli sereni PG
Greco e Latino, in Architettura. Episodio I – Gli ordini classici. Abecedario.
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Quadro assiomatico: l’Architettura è un linguaggio.
Postulato: L’Architettura Classica, l’arte del costruire che nel campo linguistico corrisponde all’antico Greco e al Latino, è esclusivamente quella che utilizza gli ordini architettonici Tuscanico, Dorico, Ionico, Corinzio e Composito.
Definizione: un ordine architettonico è costituito da un insieme di sostegni e sovrastrutture, tra loro correlati, distinto da proporzioni, profili e dettagli caratteristici che lo rendono facilmente riconoscibile. I Cinque Ordini costituiscono l’equivalente delle cinque declinazioni della lingua latina e rappresentano le vere e proprie “uniformi” degli edifici classici.
I Cinque Ordini di Claude Perrault: (da sinstra Tuscanico, Dorico, Ionico, Corinzio e Composito)
In questa splendida incisione su rame di Claude Perrault (1613-1688, autore della “colonnade”, come viene chiamata la facciata est del Louvre) sono illustrati quelli che, all’epoca, venivano considerati indiscutibilmente gli ordini classici dell’Architettura: da sinistra Tuscanico, Dorico, Ionico, Corinzio, Composito.
L’utilizzo concreto di questa gamma lo ritroviamo, peraltro, nel corso di millenni della Storia dell’Architettura e senza limitazioni geografiche di sorta: partendo in Grecia dal VI secolo a.C., proseguendo per l’intera estensione dell’Impero Romano, nelle Americhe e financo in Australia, Africa ed Asia, nell’architettura coloniale del XX secolo.
Nelle quattro illustrazioni che seguono, abbiamo volutamente messo a confronto tre diversi esempi dell’ordine dorico “greco” (ma tutti realizzati in Italia)
Le prime due immagini a sinistra raffigurano il Tempio di Era II (o di Poseidone) a Paestum (V sec. a.C.) mentre le altre due risalgono all’inzio del XIX secolo e sono opere romane di Giuseppe Valadier: rispettivamente Villa Torlonia e la Casina del Pincio, che appunto prende il suo nome. Colonne e capitelli del Tempio sono separati da quelli delle altre costruzioni da oltre 2300 anni….epperò lo stile rimane molto simile, oltre che assolutamente riconoscibile.
Ma perché gli ordini sono proprio (e solo) cinque? All’età di Augusto, per Vitruvio (che conosceremo meglio tra qualche riga) erano limitati a tre: Dorico, Ionico e Corinzio. La gamma ampliata è stata di fatto “certificata” solo quindici secoli dopo, nel Rinascimento, da un architetto bolognese, Sebastiano Serlio (1475-1554), collaboratore di Baldassarre Peruzzi (1481-1536), che a sua volta lo era di Raffaello Sanzio (1483-1520). Raffaello, ricordiamo, oltre che “divin pittore” era stato nominato dal papa Leone X “praefectus marmorum et lapidum omnium“, diventando, di fatto, il primo soprintendente archeologico e ai monumenti della storia.
In questa veste, probabilmente anche seguendo i consigli del concittadino Donato Bramante (1444-1514), il primo progettista della “nuova” Basilica di San Pietro, voluta da Giulio II e fondata nel 1506, Raffaello era stato incaricato di catalogare e ridisegnare le più importanti rovine romane al fine di ricavarne quelle “regole universali” che avevano generato “l’unica buona e vera Architettura, quella degli antichi”, che lo stesso Pontefice voleva riportare in vita per celebrare la rinascita dei fasti dell’Impero Romano, stavolta sotto la guida della Chiesa.
Oltre ai Maestri citati, ricordiamo che intorno al 1500 a Roma si trovavano anche Leonardo da Vinci e Giuliano da Sangallo; poco prima c’erano anche Pinturicchio e i decoratori quattrocenteschi della Cappella Sistina: Perugino, Botticelli, Cosimo Rosselli, Ghirlandaio e Signorelli: tutti grandi artisti umbri e toscani che nel campo dell’Architettura avevano come punti di riferimento Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti, le stelle polari dell’Umanesimo fiorentino e primi, veri promotori della riscoperta del classicismo nelle arti e nell’architettura dopo il Medioevo.
Cosa ha fatto il buon Serlio allora? Come Architetto, non era dotato di particolare talento; ma potendo disporre degli studi dei contemporanei o di chi lo aveva di poco preceduto, ha avuto l’enorme merito di collezionare, riordinare, sistemare e pubblicare un insieme di conoscenze preziose, frutto delle ricerche appassionate di un irripetibile gruppo di geni assoluti.
Il risultato è l’opera “I sette libri dell’Architettura”, pubblicati a partire dal 1537 in ordine irregolare ed in tempi e luoghi diversi. Improntato più ad uno spirito pratico che teorico, il suo trattato è in assoluto il primo a codificare in dettaglio i “cinque ordini”, attribuendo grande importanza alle immagini, e costituisce una pietra miliare non solo nella storia della trattatistica di architettura, ma anche nella storia della stampa.
Il frontespizio del Libro IV di Sebastiano Serlio (1537)
Il frontespizio del Libro IV (il primo ad essere pubblicato nel 1537) ci dice tutto sulle convinzioni dell’autore: le regole sono “generali” e le “maniere” cinque: appunto Toscano, Dorico, Ionico, Corinzio e Composito; cita gli esempi dell’Antichità “che per la maggior parte concordano con la dottrina di Vitruvio”.
I Cinque Ordini illustrati da Serlio nel “Quarto Libro” (ma il primo ad essere pubblicato), Venezia 1537
Serlio, per qualificare la sua opera, non solo si richiama alle nobili vestigia romane, ma si appella anche all’autorità dottrinale di Vitruvio, (…siamo al livello “ipse dixit”, manco fosse Pitagora) e allora, chi era costui, e in cosa consisteva la sua dottrina?
La risposta è semplice: Vitruvio (in latino: Marcus Vitruvius Pollio) era “il Serlio” dell’età di Augusto. Architetto, ma soprattutto trattatista, viene tuttora considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Attivo nella seconda metà del I secolo a.C. è autore della Basilica di Fano e soprattutto del trattato De architectura (Sull’architettura), in 10 libri, dedicato ad Augusto che gli aveva concesso una pensione.
Scritto probabilmente tra il 29 e il 23 a.C. (periodo nel quale Augusto aveva in mente un rinnovamento generale dell’edilizia pubblica) mirava certamente a ingraziarsi l’imperatore; a cui, non a caso, Vitruvio si rivolge direttamente in ciascuna delle introduzioni preposte ad ogni libro.
Capitello Ionico del Tempio di Portunus (I sec. a. C.). Roma, Foro Boario.Capitello ionico – Poggio a Caiano, Villa Medicea, Arch. Giuliano da Sangallo (XIV sec.)
Il De architectura è l’unico integro testo latino di architettura giunto fino a noi e per questo il più importante,
Testimonia gli usi e costumi dell’epoca ed è stato studiato da ogni architetto dopo la riscoperta del manoscritto, avvenuta nel XV secolo.
«Tutte queste costruzioni devono avere requisiti di solidità, utilità e bellezza. Avranno solidità quando le fondamenta, costruite con materiali scelti con cura e senza avarizia, poggeranno profondamente e saldamente sul terreno sottostante; utilità, quando la distribuzione dello spazio interno di ciascun edificio di qualsiasi genere sarà corretta e pratica all’uso; bellezza, infine quando l’aspetto dell’opera sarà piacevole per l’armoniosa proporzione delle parti che si ottiene con l’avveduto calcolo delle simmetrie.»
Capitelli Corinzi del tempio di Ercole Vincitore. ( I sec. a. C.) Roma, Foro Boario. Semicapitello corinzio – Savona, Palazzo della Rovere, Arch. Giuliano da Sangallo (XIV sec.)Rappresentazione plastica dell’ordine Corinzio alle spalle del Pantheon, probabilmente appartenente al Tempio di Nettuno (II sec. d.C.) Capitelli corinzi della Chiesa dei Tolentini a Venezia. (1706-11) Arch. Andrea Tirali
Claude Perrault, “distillò” da questo passo del trattato la leggendaria formula della triade vitruviana, secondo la quale cui ogni buona architettura deve soddisfare tre requisiti:
firmitas (solidità);
utilitas (funzione, destinazione d’uso);
venustas (bellezza).
Che onestamente rimangono difficilmente contestabili, dopo oltre duemila anni.
Capitello Composito. Roma, San Carlo alle quattro fontane /XVII sec,). Arch. Francesco BorrominiOrdine Composito – Roma, Chiesa SS. Vincenzo ed Anastasio (XVII sec.). Arch. Martino Longhi il giovaneCapitelli Corinzi della Old Supreme Court a Singapore (1937-39). Rudolfo Nolli
(Fine episodio I. Continua…prossimo episodio: l’ordine tuscanico.)
La “Luna Rosa” della Pasqua 2022
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Oggi 16 aprile 2022 è il giorno della Luna Piena di aprile, tradizionalmente chiamata LUNA ROSA. Il nome però non deve trarre in inganno: il nostro satellite, infatti, non appare affatto di quel colore, ma questa sera sorgerà con il suo solito colore dorato per poi prendere, più in alto, il suo aspetto argenteo. Il fenomeno astronomico è battezzato così perché legato alla fioritura di questa stagione di un muschio rosa, una pianta sempreverde i cui fiori rosa-magenta, in alcune regioni degli USA, formano vere e proprie praterie. Questo, come tutti i nomi della Luna Piena che usiamo ancora oggi, derivano dalla tradizione dei nativi americani.
RELAZIONE CON LA PASQUA
La Pasqua è una festa “mobile”, poiché, secondo quanto stabilito dal Concilio di Nicea, si celebra la prima domenica dopo la prima luna piena di primavera. Questo di oggi (alle 20:57 ora italiana) è il primo plenilunio dopo l’equinozio del 20 marzo scorso e quindi domani, domenica 17 aprile, sarà PASQUA.
UN DILEMMA!
Oggi, sabato, nel momento esatto del plenilunio, in molti Paesi del mondo in cui vige un fuso orario con ore ‘avanzate’ .. sarà già passata la mezzanotte e quindi sarà già domenica!; La Pasqua, dunque, in quei Paesi, (stando alla definizione!), dovrebbe essere celebrata la …domenica successiva!! 🤔
NOTA Nella Chiesa occidentale NON viene utilizzata la data ‘reale’ (quella astronomicamente esatta) dell’Equinozio di Primavera (quest’anno, ad esempio, è stato il 20 marzo), bensì una DATA FISSA, sempre il 21 Marzo (detto ‘Equinozio FISSO’) . Inoltre la Chiesa NON considera la ‘vera’ luna piena astronomica ma la LUNA ECCLESIASTICA (fittizia), basata su apposite TABELLE compilate e stabilite dalla Chiesa stessa. Questo criterio adottato dai cattolici permette di calcolare in anticipo la data della Pasqua e svincolarla dalle reali osservazioni dei moti astronomici che, per loro natura, sono irregolari e meno prevedibili. Grazie a questa ‘semplificazione’ si è calcolato la periodicità della sequenza delle date di Pasqua almeno per i prossimi 5 milioni e settecentomila anni !
Cieli sereni e.. Buona Pasqua PG
Nauru: La Repubblica più piccola del Mondo
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L’isola di Nauru
NAURU è il nome di un’isoletta dell’Oceano Pacifico situata a metà strada tra l’Australia e le Hawaii, grande come un quartiere di una città (21 kmq) e abitata da circa diecimila persone.
E’ LA REPUBBLICA PIÙ PICCOLA DEL MONDO. Ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1968 e divenne improvvisamente ricchissima grazie all’esportazione dei fosfati, abbondantissimi nel sottosuolo e dei quali il mondo ha bisogno come fertilizzanti. Nel corso di circa 30 anni, i minerali che hanno reso ricco il paese si sono però esauriti facendo piombare la nazione in una gravissima crisi economica. Così l’isola che fu definita dagli scopritori inglesi (1798) the Pleasant Island (l’Isola Piacevole) oggi è, per l’80%, un’ arida miniera a cielo aperto e con il 40% delle risorse marine compromesse dallo scarico dei detriti. Non ci sono quasi più gli alberi, l’acqua scarseggia, il cambiamento climatico e il conseguente innalzamento del livello dell’oceano la sta minacciando (l’altitudine massima dell’isola è di 60 metri s.l.m.). Il 90% della popolazione è disoccupato e il reddito pro capite è tra i cinque più bassi del mondo.
CURIOSITÀ Secondo uno studio condotto dall’OMS, l’importazione di cibo occidentale durante la crescita economica ha intaccato l’originaria cultura, anche gastronomica, essenzialmente basata sulla pesca e l’ agricoltura. La dieta non salutare e lo stile di vita sedentario sempre più diffuso tra i nauruani a partire dagli anni 1980, hanno portato la popolazione autoctona ad avere le peggiori condizioni di salute nella regione del Pacifico. Gli abitanti di Nauru detengono dei tristi primati: soffrono di obesità (70%), tabagismo (50%), diabete (40%) e alcolismo e hanno un’aspettativa di vita di 50 anni.
La bandiera di Nauru, in alto a sinistra nell’immagine, si compone di un campo blu (che simboleggia l’Oceano Pacifico), separato in due parti uguali da una striscia gialla orizzontale (l’Equatore). Sotto la striscia gialla, sul lato del pennone, è presente una stella bianca a 12 punte (tante quante erano le tribù originarie dell’isola) che rappresenta la posizione geografica di Nauru, appena un grado a Sud dell’Equatore. 🇳🇷
In un tempo come questo, amareggiato, ferito e sconvolto da una guerra che appare tanto assurda, che nella crudezza di tante immagini ci riporta a una delle realtà tra le più terribili e sconvolgenti dell’Uomo che si volge al male, alla violenza, all’odio, alla barbarie, a ciò che lo trascina verso il disumano, quando non nel diabolico, può forse far bene il realismo, la triste verità di un film come “UN’OMBRA NEGLI OCCHI” (su Netflix).
Un film realmente superbo, che sarebbe riduttivo considerare semplicemente un “film di guerra”. Una storia che prende le mosse da un avvenimento realmente accaduto a solo un mese dal termine del secondo conflitto mondiale [*] e che ci racconta di vita, di amori, di fede, di dubbi e conflitti tutti interiori e di come la guerra, possa sconvolgere tutto in un solo istante. Di quanto ci sia di assurdo, di crudelmente beffardo, di inumano, di spietato, di cieco e tragico, in qualsiasi conflitto armato.
Di come poco cambia se il fuoco sia “amico” o “nemico”, di come raramente “il fine giustifichi i mezzi”, di come con assoluta certezza, indicibili sofferenze verranno inflitte ai piccoli e agli innocenti, anche laddove l’obbiettivo fosse raggiunto.
Un racconto che non vuole per forza indicarci un nemico, qualcuno da odiare o da distruggere pensando così di ottenere giustizia, tanto che è chi doveva essere amico che causerà il danno maggiore.
Ma in un tempo sospeso in cui tutto sembra crollare assieme agli edifici, un tempo in cui pare “Dio abbia lasciato cadere la matita” (bisogna vedere il film per comprendere questa metafora), l’Uomo ancora una volta, spinto dalla profonda ribellione verso il male e la morte, sa ritrovare in sé la forza, le risorse, la profondità d’animo che alla tragedia non consente la parola “fine”. Che al Male non lascia l’ultima parola. Là dove lacrime e sorriso si mischiano in mezzo alla polvere e al sangue, là dove disperazione e speranza combattono ad armi pari e l’epilogo non è certo.
Questo è uno di quei film che vanno ben oltre lo spettacolo, che parlano al cuore pur colpendo allo stomaco.
[*] A seguire la breve ricostruzione storica della tragedia raccontata dal film, ma conviene tralasciarne la lettura se si vuole godere appieno della storia, lasciandosi coinvolgere dalla scoperta di quanto dovrà accadere.
Il 21 Marzo 1945 la Royal Air Force britannica, dopo numerose richieste e dietro l’insistenza della resistenza Danese, decide di dare il via all’operazione “Cartagine” che aveva come obiettivo il bombardamento del palazzo Shellhus, allora sede delle Gestapo a Copenaghen dove venivano reclusi e torturati diversi membri del movimento di resistenza Danese e si conservava un nutrito schedario che metteva a rischio (così si riteneva) l’esistenza stessa della resistenza.
Parteciparono 20 bombardieri “Mosquito” in tre ondate da sei velivoli ciascuno (più due ricognitori) che nonostante le perdite (6 aerei e 9 membri dell’equipaggio) raggiunsero e praticamente rasero al suolo la sede della Gestapo.
Disgraziatamente, uno degli apparecchi, dopo aver urtano un edificio (lo Shellhus era situato nel pieno centro cittadino) si andò a schiantare nelle immediate vicinanze della scuola cattolica di lingua francese “Giovanna d’Arco”. I fumi e le fiamme lavatesi dallo schianto, trassero in inganno più di uno dei piloti della RAF, che sganciarono il loro terribile carico di bombe proprio sull’istituto, causando così la morte di 39 tra insegnati e inservienti e 86 bambini oltre a numerosi feriti.
A distanza di poco più di un mese, il 25 Aprile del 1945, verrà dichiarata la fine di quello storico conflitto.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Ho osservato una continuità di comportamento tra chi prima si lamentava per i vaccini e il green pass e oggi sostiene le ragioni della guerra e di Putin.
Sono arrivata a leggere addirittura che le immagini di guerra trasmesse dalle TV e dai social fossero finte, con l’obiettivo di distrarre l’attenzione dal Covid, o addirittura, che la guerra sì, c’è, ma è stata voluta da Putin per liberare il mondo dal DeepState e dal Satanismo, così come aveva tentato di fare Trump durante il suo mandato. Il complottismo, come si vede, è senza limiti e chi lo coltiva non si preoccupa di contraddirsi in continuazione.
Quello che, però, è sempre più evidente, è la continuità di azione tra coloro i quali prima manifestavano contro il vaccino e il tentativo di ridurre i contagi (negando l’esistenza del Covid) con quelli che oggi negano la responsabilità di Putin per la guerra, addossandola tutta alla NATO.
Ciò che appare chiaro è che il passaggio da NO VAX a SÌ PUTIN è un approccio ai problemi del mondo che mostra una preoccupante continuità, e che si sta sedimentando nell’opinione pubblica.
Il rischio a lungo termine è che il sistema di credenze, malleabili, delle folle anti-lockdown e complottiste potrebbero trasformarsi in azioni antigovernative a prescindere dall’evento stesso.
Sto parlando di una sfiducia diffusa in tutto ciò che appare come “mainstream“e, per quanto siano lodevoli e sempre da incoraggiare l’anticonformismo e la capacità critica, qui noto qualcosa di diverso, cioè il desiderio di sentirsi controcorrente sempre e comunque.
Il pensiero comodo, banale, quindi facilmente sposabile, è che se la TV o i giornali dicono una cosa, allora deve essere vero l’esatto contrario.
Certo, a volte questo succede, soprattutto nei regimi dittatoriali; come avviene in questo momento in Russia, per esempio, le immagini della distruzione provocata dai bombardamenti su Mariupol vengono denunciate dalla TV russa come effetti della ritirata ucraina, che si lascerebbe terra bruciata alle spalle.
Pensare, però, che questo avvenga sempre e comunque, soprattutto in una democrazia come la nostra, dove la libertà di stampa è garantita dalla costituzione e dalla pluralità della stessa, è oggettivamente un po’ troppo.
Un pregiudizio che rende totalmente ciechi e non disposti a valutare alternative, di fronte a qualunque tipo di evidenza verificabile e dimostrabile.
Credere che sia vero solo ciò in cui si vuol credere è una forma di ottusità, innegabilmente efficace, che disarma l’interlocutore, anche se questo è mosso dalle migliori intenzioni e dalla totale disponibilità a spiegare il suo punto di vista.
Quale può essere il motivo di tanta ottusità? Il fatto di sentirsi emarginati, senza voce, minacciati dalla diffusione dei valori di uguaglianza, parità e antirazzismo?
Oppure, tra loro, c’è un antisistema ad oltranza e una diffidenza totale verso l’informazione tradizionale?
Molti sono, e questo lo insegna la storia, manipolati per secondi fini, a loro stessi ignoti. Diventano un mero strumento per ottenere altri risultati, di cui loro pagano solo le conseguenze e raramente raccolgono benefici.
La manipolazione di sentimenti e ragioni, che rende possibile l’aggregazione tra persone che normalmente si detesterebbero: dall’estrema destra all’estrema sinistra, dai sovranisti ai liberalisti, dai fanatici religiosi ai cultori di chissà quale altra disciplina.
Chi è disposto a credere alle fantasie di complotto, passa con disinvoltura da una teoria all’altra: basta convincersi di avere capito tutto, di essere più furbi della massa e assurgere a “paladini del pensiero libero”.
Il passo è breve.
Ma in realtà, convincersi che tutti mentano, siano ciechi o sottomessi al potere non significa essere pensatori liberi, è solo un’altra forma di ingenuità.
Esiste una soluzione? Il percorso è di tipo culturale, di educazione, di mentalità, un processo lungo che richiede l’impegno di istituzioni e singoli cittadini.
Respingere disinformazione e falsità richiede innanzitutto la capacità di mettersi in discussione, di saper ascoltare il disagio di chi si sente lasciato indietro.
Ricordiamoci che siamo tutti esseri umani, che ognuno di noi è fallace, e ha pregi e difetti; possiamo e anzi dobbiamo avere opinioni diverse, ma contestualmente abbiamo il dovere di impegnarci con costanza a saperle sostenere con civiltà ed educazione, con l’obiettivo di trovare un punto comune, di armonia, di contatto.
E’, forse, l’unico modo che ci rimane per evitare di sentirci soli.
Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.
Mi spiace non parliamo di guerra in Ucraina e sembrerà un banalità parlare di quanto accaduto sul palco del Dolby Theatre nell’appena trascorsa notte degli Oscar, quando c’è tanta violenza, tanto sangue che scorrono a noi così vicino, con conseguenze e ferite che difficilmente si rimargineranno, ma mi perdonerete se non mi lancio in valutazioni di eventi che completamente mi sovrastano…
Torniamo quindi ad un evento di risibile portata mondiale, anche se per un po’ se ne parlerà, anche se entrerà negli annali dell’Academy e delle sue “Notti dell’Oscar”.
Parrebbe una sfida a singolar tenzone e certamente in tempi andati così sarebbe finita la cosa. Un schiaffo con il guanto (per il massimo disprezzo) e un rimando ai padrini per la scelta delle armi e una richiesta al “primo sangue” quando non all’ “ultimo”.
Forse e dico forse, Chris Rock in tempi di duello ci avrebbe riflettuto due volte nell’usare la sua lingua come spada. Già perché è risaputo, la lingua ferisce, affonda e può anche uccidere, ma a quanto pare la violenza del pugno di Will Smith, ha soverchiato l’altra, è assurta in quanto fisica, al valore di “inaccettabile”, ma è proprio così?
Intanto perché “pugno”, come ovunque piace scrivere? Se Smith avesse assestato un pugno a Rock, questi, nonostante il suo cognome, sarebbe certamente finito “a tappeto”, incapace di riprendersi tanto in fretta. E’ stato un SCHIAFFO quello che Smith ha dato a Rock e lo schiaffo ha un senso molto diverso, quando dato ha chi ha offeso o procurato offesa, perché non dimentichiamo che offesa e ferita c’è stata e non è che in nome della satira o della burla tutto può essere concesso.
Viviamo in un tempo di anime belle, dove ormai qualunque gesto può essere considerato “violenza” e solo più di recente consideriamo la violenza verbale, il ferimento gratuito e ingiustificato di sensibilità o di debolezze altrui, magari più a livello “social” che non in altri contesti come quello del monologo comico-satirico in questione.
C’è un’altra considerazione da fare: non era Smith il bersaglio della violenza dell’ironica, improvvida battuta di Rock, al ché si potrebbe dire “dai Will, incassa, prendi e porta a casa”, ma ad essere colpita è stata la moglie Jada. Colpita in un aspetto che già la fa soffrire e la mette in seria difficoltà.
Facciamo pure i pacifisti, ma chi non avrebbe reagito a difesa di chi si ama? Certo magari non fisicamente, magari con un bel fuck you Chris! Ma ognuno ha il proprio temperamento e Smith, trattenendo il suo, ha solo dato un bello schiaffone a chi irridente pensava anche di essere stato “comico”, mentre è stato solamente meschino.
Ma oggi è Will Smith, che dovrebbe chiedere scusa a Chris Rock, è lui il “violento” che rischia persino la denuncia e l’arresto.
Ma chiederà scusa Chris a Jada? Rischia forse lui la denuncia? Va bene così?
Beh, se va bene così, allora un bello schiaffone in faccia, se lo meritava proprio e se lo deve anche tenere.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Finestra sui social – twitter: Aucharbon (@alcarbon68)
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Et voilà un chasseur d’images, figeur d’instants, attrapeur de lumière, collectionneur de graphismes, voleur d’ombres, chercheur de beauté… (inutile tradurre, si capisce benissimo lo stesso e il francese fa sempre figo)
Non lo conosciamo se non attraverso il suo profilo twitter e le magnifiche fotografie in bianco e nero che carica quasi quotidianamente sul social dell’uccellino.
Ma siamo certi che assomigli a Jean Gabin o a Lino Ventura; e senz’altro lo si potrà riconoscere nei bistrot di Boulevard Magenta mentre sorseggia il suo Pernod.
https://twitter.com/alcarbon68
Finestra sui social – twitter: Gregory Acs (@AcsGregory)
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Signore e signori, con questo profilo twitter abbiamo il piacere di inaugurare una rubrica con la quale, ad insindacabile giudizio della redazione, in ogni articolo vi presenteremo un profilo social, scelto adducendo motivazioni e ragioni, di volta i volta, tra le più disparate.
Nel caso di @AcsGregory, però, non abbiamo bisogno di arrampicarci troppo sugli specchi: la TL è piena zeppa di fotografie straordinarie. Le sue.
In pochi ci avrebbero mai scommesso, ma il colosso della moda (ai primi posti da sempre delle industrie più inquinanti al mondo) è tra i più attenti all’impatto ambientale delle sue produzioni, diventando così uno dei punti di riferimento alla lotta contro la devastazione dell’ecosistema, con l’entusiasmo degli amanti del fashion con uno stile di vita eco-friendly.
La concezione di shopping etico si allarga e, in aggiunta alla cosmetica vegan, prodotti alimentari equosolidali, detergenti solidi e plastic-free, i migliori acquisti ecologici riguardano capi in cotone organico, ecopelle in fibra di mais, poliestere riciclato.
Tutto ciò è apparso ben chiaro sotto i riflettori appena spenti della Milano Fashion Week, dove la maggior parte dei brand ha presentato collezioni che vogliono smarcarsi dall’equazione “moda = frivolezza”, dando spazio a una ventata di aria giovane, innovativa ma soprattutto green.
Ecco quindi andare in scena la 5°edizione del progetto “Designer for the Planet”: brand emergenti rigorosamente Made in Italy, che hanno fatto della sostenibilità la componente fondamentale per la realizzazione delle loro collezioni.
Un intero spazio all’interno del Fashion Hub ha ospitato quest’anno gli stilisti Acidalatte, BENNU, DassùYAmoroso, Raree Show e Vernisse, giovani talenti che vogliono influenzare positivamente le nuove generazioni, proponendo vestiti alla moda e unici nella loro realizzazione.
Handmade, vecchi abiti second hand, recupero di capi e tessuti provenienti da deadstock e armadi vintage, sono stati il filo conduttore che ha rappresentato i lavori proposti, il tutto unito ad un’elevata sensibilità nei confronti delle tematiche sociali, quali l’accettazione di se stess*, la libertà di osare e la fluidità di genere.
Tra gli innumerevoli vantaggi del riutilizzo dei materiali, spicca la capacità di ridurre la produzione di nuovi capi e il conseguente inquinamento che ne deriva.
Lo sa bene anche Stella McCartney, pioniera del movimento di moda di lusso sostenibile (“Pioneering a sustainable luxury fashion movement”), che da oltre vent’anni si impegna in una produzione etica e cruelty-free.
La celeberrima Falabella bag, borsa lanciata nel 2010, incarna senza ombra di dubbio l’anima del suo marchio: la pelle molto morbida è stata realizzata con olii vegetali, mentre le fodere vedono l’utilizzo dibottiglie in plastica riciclate, senza tuttavia togliere lusso ed eleganza al prodotto.
Una sensibilità moderna e responsabile, che ha portato la stilista a fare scelte sempre più ambientalista, implementando ad esempio l’uso della viscosa sostenibile e del cashmere rigenerato al posto del cashmere vergine.
Non sono da meno i grandi colossi quali l’azienda di abbigliamento svedese “H&M”. Da tempo, infatti, il brand si dimostra attento alle tematiche di sostenibilità, tanto da dichiarare che:”Il nostro obiettivo è che tutti i nostri articoli siano prodotti con materiali riciclati o provenienti da fonti sostenibili entro il 2030. Il 65% dei materiali che usiamo lo è già.”
Una volontà così tanto forte da portare perfino alla realizzazione della collezione Conscious choice: capi creati con almeno il 50% di materiali sostenibili, come appunto il cotone biologico o il poliestere riciclato.
Spazio quindi anche a foglie di ananas, rifiuti di canapa, vecchie reti da pesca e vetro riciclato.
L’importante è iniziare ad aprire lo sguardo verso un futuro dalle scelte più consapevoli, compiendo azioni concrete che rispettino l’ambiente e smettano di danneggiare la natura.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
“Rosa stacca la spina” ripercorre la storia di una grande storia d’amore fra due persone molto diverse fra loro, le cui differenze non rappresentano un limite ma una risorsa.
Questa potente storia viene bruscamente interrotta da Rosa, che lascia Igor senza spiegazioni e solo nella sua disperazione.
Igor narra in prima persona gli episodi e le emozioni nati in questo legame così intenso quando, dopo undici anni, Rosa lo contatterà di nuovo perché ricoverata in una clinica in fin di vita. Sarà arrivato il momento delle risposte così tanto desiderato dal compagno?
La storia viene ripercorsa dal narratore con delicatezza e nel profondo rispetto dei sentimenti provati reciprocamente e dell’attuale condizione dell’ex compagna. Nel romanzo non viene mai forzata la narrazione, nemmeno riguardo ai momenti di intimità della coppia, dove l’affiatamento trova pieno compimento. Del resto forzare la mano risulterebbe inopportuno perché la spontaneità e la genuinità di questo legame parlano da sole.
In un periodo della nostra vita probabilmente un amore così travolgente è stato vissuto da molti di noi e, nel caso sia finito, i motivi e le conseguenze di tale interruzione sono molto personali ma sicuramente la grandezza del dolore e l’impegno necessario per superare il “lutto” del distacco sono stati immensi. La coppia aveva provato a costruire una famiglia e sarebbe stato bello vedere se, e come, il suo legame sarebbe cambiato.
Igor Nogarotto è molto delicato nel dar voce al narratore, Igor, e la simpatia e ironia sono le seconde caratteristiche di questo romanzo così struggente.
Il punto di vista maschile è molto tenero ed è veramente dolce la lettura del rapporto fornita dall’anima perduta d’amore del narratore (Igor stesso).
È vero che l’amore, quello vero, riesce a superare ogni barriera?
P.s. l’espressione “Napoleone!” dovremo imparare un pò tutti ad usarla…!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Partiamo dalla fine (per così dire): The Batman dura 176 minuti – dueoreecinquantasei – una durata decisamente impegnativa, soprattutto abituati come siamo alle serie tv. Per cui, scegliete uno spettacolo comodo, fate un respirone e prendetevi un buon caffè.
Dico questo perché dopo averlo visto, e digerito, ho capito che ne è valsa la pena: nonostante sia finito all’una di notte, nonostante la sveglia del giorno dopo, per me merita la nostra attenzione.
Quindi, The Batman. L’uscita era attesissima e aspettando che arrivasse in sala si è parlato parecchio di questo come “il miglior Batman di sempre”. Tra tutti i supereroi, Batman ricopre un posto particolare: non ha superpoteri evidenti, se non il patrimonio di famiglia, ha una psicologia estremamente complessa e si muove in un contesto distopico sì, ma molto credibile e sempre attuale, quello del crimine e della corruzione.
Il Batman di Matt Reeves (già regista di Cloverfield e degli ultimi due capitoli della franchise de Il pianeta delle scimmie) è in un certo senso coerente con la visione illuminata di Nolan: è anche questo un film cupo, senza mezzi termini, crudo, che mette al centro una società distrutta da sé stessa e un grande approfondimento psicologico del suo protagonista e degli altri personaggi. Ma questo film è ancora più intimo, sussurrato, è lo stesso Bruce Wayne a guidarci con la sua voce fuori campo tra gli eventi e soprattutto tra i suoi pensieri durante scene bellissime e immersive, quasi come nella lettura del suo diario di bordo.
Veniamo ai personaggi. Una menzione speciale alla colonna sonora, che per me è super protagonista della narrazione. Tra tutti, due i brani che spiccano e ritornano mescolandosi fra loro quasi come in un valzer: Something in the Way dei Nirvana, che chiudendo il prologo mi aveva già conquistata, e Ave Maria di Schubert, per dare ancora più solennità all’immagine e tenere il livello di tensione sempre alto.
Robert Pattinson regge tutto il film con un’eleganza tutt’altro che scontata. Non è un playboy, non ostenta ricchezza – anzi, si nasconde nel palazzo Wayne – ed è schivo nei confronti delle occasioni mondane. Per la prima volta un Batman grunge. Ripenso agli smoking di George Clooney mentre guardo questo Bruce Wayne prendere in prestito i gemelli di Alfred per andare a un funerale nel suo abito stropicciato e nascosto da quel taglio di capelli anni 2000. Il look di questo Batman è simbiotico con una narrazione psicologica cupa e dignitosa, mai pedante: non indugia mai su pensieri ed emozioni, non apre squarci di coscienza, non ci lascia grandi lezioni di vita. Le cicatrici di questo Batman sono allo scoperto, alcune inedite, ma non spiattellate, facili.
Selina Kyle/Catwoman è la sua controparte femminile, interpretata da una bellissima e bravissima Zoë Kravitz. Non una valletta, non un’amante, non un’antagonista, ma una alleata decisamente all’altezza del “Campione maschile”, in perfetto equilibrio tra la sensibilità dell’animo e la forza e indipendenza di una donna che sa badare a sé stessa, senza rinunciare alle passioni e ai fantasmi del passato, mossa e motivata dal desiderio di giustizia per gli altri. Non dovrebbe stupirci nel 2022, ma di fatto questa Catwoman rappresenta una buona evoluzione nella rappresentazione femminile, anche in un blockbuster come questo.
Chiudo la triade sul cast con l’intensissima interpretazione di Paul Dano nei panni dell’Enigmista. Molto meno macchiettistico rispetto a come lo ricordavamo nella rappresentazione di Jim Carrey (sempre bravissimo), questo Enigmista è un serial killer degno dei più famosi horror movie, reso ancora più contemporaneo dalla componente terroristica, dall’uso delle tecnologie e dei media. Un gran bel villain.
Qualche cenno alla regia e alla costruzione del film. Non sono una tecnica e non pretendo di sbilanciarmi su questioni che non padroneggio, ma Matt Reeves ci regala effettivamente immagini molto belle, esteticamente curatissime e potenti, intense, in contrasto con il pudore dei dialoghi che, come detto sopra, non oltrepassano mai il limite in epiche esternazioni.
Ho colto un discreto numero di citazioni non esplicite alla cinematografia di Batman e non solo: un po’ il look and feel di Blade Runner, inquadrature anni ’90 alla Mission Impossible, inseguimenti alla Fast and Furious e cose così. Degli omaggi, più che altro, che a noi cinefili ci fanno bene al cuore.
Qualche difetto di sceneggiatura qua e là: perché il tiratore aspetta così tanto a mirare? Perché Selina non soccorre Batman ma indugia sul bacio? Imperfezioni. Il finale, invece, è proprio un fallimento – non potevo parlarne solo bene! – ecco, nel finale ci sono tutti quei 40/50 minuti di troppo che si approfittano della nostra concentrazione e appesantiscono la visione. Non ho una spiegazione per questo, forse come spesso capita non sono state fatte le scelte necessarie e si sono tenute aperte tutte le porte possibili, ma comunque non fila. Il pubblico inizia a essere stanco e i passaggi non sono abbastanza collegati fra loro, fatto sta che si esce dalla sala un po’ più frastornati del dovuto.
A parte questo, nel complesso, a me The Batman è piaciuto. E’ una storia che in fondo ci parla anche di noi. Questi tre personaggi si trovano a fare i conti con gli errori della generazione dei loro padri e nonni. Una generazione in cui il patriarcato e il capitalismo, al massimo della loro espressione, l’hanno fatta da padroni, ma che adesso sta rivelando tutte le sue falle. L’ultramachismo dei bei tempi andati (soldi, potere, fama) non ha generato ricchezza, rilascia invece le esalazioni tossiche del degrado sociale, della solitudine e della sfiducia. Il sistema ha delapidato la comunità e tocca agli eredi innocenti e disillusi assumersene la responsabilità: ma da questo nasce un nuovo sistema di valori che unisce tutti gli orfani nel comune obiettivo della responsabilità collettiva e della ricostruzione.
PS: sono già previsti due sequel e due serie spin-off.
Il mare e i miei viaggi. Un gin tonic e un hamburger. Jeans e maglietta bianca.
Da dieci anni mi occupo di promozione cinematografica e culturale, marketing e comunicazione. Ho co-fondato un concorso di illustrazione, sono legata alle tematiche femministe e tutti gli anni inizio (e abbandono) uno sport nuovo.
Qui scrivo degli ultimi film che ho visto e delle cose che mi piacciono.
Trailer: Greco e Latino, in Architettura. La serie.
Cominciamo col botto, facendovi entrare virtualmente nella più bella Architettura del mondo (… e ci dispiace per le altre?.. No, non ci dispiace per nulla: non c’è storia, anzi Storia che tenga. Il Pantheon “è” l’Architettura).
E proseguiamo chiarendo subito che questo articolo vuole essere “solo” il trailer di una corposa serie nella quale parleremo di Architettura. Non aspettatevi però archistar modaioli o archistarlettes da rivista patinata; tratteremo solo di Architettura Classica, considerandola soprattutto come linguaggio. Parleremo allora di comunicazione; parleremo del greco e del latino, nelle loro versioni architettoniche. Racconteremo di capitelli, colonne, trabeazioni, ovuli e astragali; ne illustreremo la Prosa, Poesia, Grammatica, Sintassi, Eccezioni e …strafalcioni. (Maiuscole e minuscole non sono casuali) E soprattutto lasceremo la parola alle immagini, tutte originali e – necessariamente – di qualità superlativa. Già, armati di fotocamera, non si possono sfidare delle meraviglie in pietra e mattoni, corrispondenti a quelle su carta di Omero, Cicerone e Virgilio, senza esserne all’altezza. Ecco un’anteprima, e…a presto.
Sempre più spesso capita di vedere in giro per le città (piccole o grandi che siano) degli spazi pubblici riqualificati con nuovi elementi di arredo urbano che incentivano a socializzare e rilassarsi, piste ciclabili colorate, panchine e fioriere in posti normalmente usati come parcheggi o carreggiate.
E’una “tendenza” che piace sia ai cittadini, sia alle Pubbliche Amministrazione e che, sebbene forse in Italia stia prendendo piede solo ora, viene utilizzate nelle grandi metropoli mondiali già da diversi anni.
Stiamo parlando dell’Urbanismo Tattico, ovvero un processo di rigenerazione urbana a basso costo economico, ma elevato impatto sociale.
Tre sono le caratteristiche principali:
– coinvolgimento delle realtà locali, quali residenti e non delle zone interessate, associazioni, gruppi di volontariato
– basso costo delle opere
– velocità di realizzazione e reversibilità
I lavori ottenuti, che ridisegnano quindi alcune locations specifiche della città come piazze, incroci, zone di passaggio, hanno il compito di ridefinire il concetto di “mobilità” nell’epoca post Covid, elemento da non sottovalutare data anche la necessità di limitare le auto private e potenziare “Car Sharing” e “Micromobilità”(scooter, monopattini elettrici, biciclette a pedalata assistita).
Ma il loro vantaggio è soprattutto quello di far aumentare il benessere della comunità, sia per quando riguarda il senso di appartenenza, sia per promuovere una socialità “sana”, lontano per qualche ora dagli effetti del mondo digital.
Tanto entusiasmo per queste tecniche non convenzionali di riqualificazione urbana si è visto a Milano, ad esempio con il progetto “Piazze Aperte” – realizzato in collaborazione con Bloomberg Associates e con il supporto della National Association of City Transportation Officials(NACTO) e della Global Designing Cities Initiative – ha consentito ai milanesi di riappropriarsi di spazi altamente trafficati, facendo in modo che i cittadini potessero così vivere in prima persona il loro quartiere.
Talvolta, per compiere le opere, vengono anche chiamati artisti di fama internazionale del calibro di Camilla Falsini (delle più famose illustratrici italiane), che ha messo a disposizione la sua arte proprio per ridisegnare uno dei luoghi simbolo del quartiere Isola, Piazza Tito Minniti.
L’urbanismo tattico rappresenta davvero una soluzione che piace a tutti e che serve per creare empatia, collaborazione e dare origine a nuovi spazi.
Può fornire supporto ed affiancare la fase di progettazione iniziale di nuovi interventi, ma può anche essere un mezzo efficace per “sanare” e quindi riqualificare davvero alcuni spazi che, per svariati motivi, hanno via via perso la loro identità e funzione.
Questo tripudio di colori e vivacità comporta però anche delle problematiche importanti da risolvere.
Le auto non spariscono, anzi potrebbero ingorgare vie limitrofe e rendere così un incubo svolgere i normali spostamenti quotidiani, i commercianti potrebbero avere delle difficoltà nelle operazioni di carico – scarico delle merci e atti vandalici potrebbero vanificare il lavoro svolto.
Sicuramente ci vuole l‘impegno e la volontà di tutti, ma come dice Jaime Lerner – architetto, urbanista, ex sindaco di Curitiba (Brasile) “La mancanza di risorse non è più una scusa per non agire. L’idea che l’azione debba essere intrapresa solo dopo aver trovato tutte le risposte e le risorse è la ricetta per la paralisi assicurata. La pianificazione di una città è un processo che consente correzioni”.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
Ogni tanto è proprio bello fare un viaggio nella fantasia ed “Edenya” non delude le aspettative!
La storia, fantasy, si adatta bene a tutti i tipi di lettori: adolescenti e adulti che hanno voglia di sognare un pò.
Qual è la differenza fra Arcangeli, Cherubini, Serafini, Troni? Quali sono le loro origini e come si rapportano con il mondo terrestre?
Edenya è un mondo extraterrestre che invoglia il lettore ad esplorarlo; colori stupefacenti e forme di vita sconosciute lo popolano, alimentandone il fascino. Questo straordinario mondo potrebbe davvero avvicinarsi all’idea che abbiamo del Paradiso.
Angelica, un Arcangelo, ha deciso di amare Christian, un umano, e di infrangere le leggi del suo popolo.
A quali conseguenze andranno incontro la coppia?
La storia è ben articolata e i protagonisti sono svariati ma le giovani adolescenti Clara e Anna saranno coloro che porteranno avanti gli eventi del romanzo.
Clara è sola al mondo e ha la possibilità di studiare in un prestigioso college grazie ai sussidi offerti da un protettore sconosciuto; la ragazza non riesce ad integrarsi nella scuola e a trovare l’accoglienza e la comprensione dei compagni e degli adulti. L’unica sua ancora di salvezza è rappresentata dal misterioso prof. Profsky.
Anna è una ragazza solare che da un momento all’altro irrompe nella vita di Clara; anch’essa nuova studentessa del prestigioso collegio. Anna sarà una vera scoperta per Clara!
Quali segreti nasconde Profsky? Le stranezze di Clara a che cosa si riconducono? Come si svilupperà il rapporto fra le due nuove amiche?
Ci saranno delle missioni da compiere e dei pericoli da evitare: quali sorprese dovranno affrontare le due ragazze?
Laura Rizzoglio ha dedicato questa storia fantasy a sua figlia e ai suoi fantastici quattordici anni e l’amore con la quale ha creato ed elaborato “Edenya” è tangibile e profondo.
Il ritmo della storia è sempre molto alto e il coinvolgimento è inevitabile e assicurato!
Misteri, intrighi e intrecci, suspense si alternano senza essere mai banali cosicché il lettore riesce ad immergersi nel racconto e a rimanerne legato.
Sono sempre stata affascinata dalla figura dell’angelo (ovvero dell’arcangelo) e come me credo anche tante altre persone. La loro identità è avvolta nel mistero e ancora oggi non si sa se siano realmente presenti fra noi.
Edenya saprà dare le giuste risposte?
Buon viaggio nella fantasia a tutti!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
E’ già da un po’ che siedo su questo divano:è pacioccosamente morbido e io ci sono affondata, abbandonandomi a una posa rilassante tra enormi cuscini, disposti a corolla intorno a me.
A testa in giù e con le gambe all’aria, giusto per rimodulare il senso delle proporzioni e conferire dignità superiore a tutto quello che, compresi i miei arti, è collocato in una dimensione di piena inferiorità.
Come calice di quella corolla, accolgo pensieri, sensazioni, fardelli che dondolano, cullati dalla lieve brezza che filtra dalla finestra spalancata sul cielo di un anonimo e banale mansardato urbano. Li abbraccio e mi abbraccio, aspettando l’arrivo di un’inattesa impollinazione che faccia sussultare il fiore, chiamandolo a nuova vita.
Un raggio di sole, impavido, battagliando con il plumbeo ardore di un cielo ancora tipicamente invernale, raggiunge la stanza posandomisi sulla caviglia nuda e svela la mia abitudine di gironzolare per lo più scalza, con i pantaloni leggermente scostati dalla parte terminale della gamba. Reagisco così io, opponendo un senso di libertà al rigore della temperatura come alla rigidità in generale, la mia…quella altrui: combatto gli assalti del giudizio e mi lascio fissare da mille occhi incuriositi dalla posa che, in questo momento, ho assunto.
Mi metto a braccia conserte, come sempre quando sto per cominciare a parlare e devo raccogliere le idee: mi rivolgo al mio interlocutore che, avidamente, mi gironzola intorno, nel tentativo di partecipare al banchetto e di assaggiare a morsi le diverse, succulente pietanze disposte tutt’intorno.
Penso improvvisamente alle mie caviglie e all’idea che anche quelle possano essere addentate, nella confusione mangereccia, divoratrice di anime e di identità.
In questa vorace dimensione di appetiti umani, la mia fame di attenzione vaga, confusa, da una parte all’altra della stanza e zampetta tra gli arredi prima di scivolare,crepitando, tra le fiamme della legna che arde nel caminetto.
Sono esattamente al centro di un vortice d’aria in cui si incontrano due mondi: il vento proveniente dall’esterno e il tepore del fuoco acceso. Si congiungono,come amanti resi impazienti da un desiderio ingestibile,e in mezzo ci sono io a fare da conduttore di elettricità, in una atmosfera che si fa sempre più trascinante.
Le mie confessioni ora si fanno più spontanee e serrate, prendono il ritmo della carnalità del congiungersi senza troppi ragionamenti all’uditorio.
Ho gli occhi chiusi e distinguo soltanto profumi: sono invoglianti, ma il pensiero che mi distolgano dal fiume di parole che sto per pronunciare mi sprona a dar loro voce, senza più indugio.
Parole scontate, banali e istintivamente semplici si liberano: mi ascolto nel pronunciarle e mi agito in maniera convulsa per acciuffarle a mani nude e ricacciarle indietro, convinta che siano quelle sbagliate. Figlie di un fraintendimento, mi svolazzano intorno prendendosi gioco di me in un folle e frastornante maramao. Le prendo a cuscinate e la corolla del fiore si spampana.
I petali, sparpagliatisi tra le pieghe del candido divano, disegnano una mappa. Spalanco gli occhi e la osservo, quasi a cercare risposte degne di ascolto e di fiducia. La direzione…cerco solo la direzione…della piena comprensione e ora mi proteggo il viso con le mani.
Se riceverò una carezza o uno schiaffo lo ignoro. Ma temo allo stesso modo ambedue le prospettive. Quegli occhi famelici vogliono che io mi riveli, vogliono sapere di più e frugano alla ricerca di tutto quello che sono convinti gli stia dolosamente negando.
Sulla mappa leggo parole d’afflizione amorosa che vagano tra i petali della corolla ricomponendone il disegno naturale, la finestra si spalanca e la luce si sposta sul mio viso che non è più protetto, esaltandone i lineamenti corrucciati dall’imbarazzo.
Vorrei unirmi al banchetto divoratore di emozioni e prendere a morsi i cibi invoglianti, far rumore, dare fastidio, ronzare all’infinito nelle orecchie degli astanti, come un qualsiasi insetto scocciante.
Punzecchiare qua e là, assaggiare e volar via quasi senza posarmi. Non si può. Non è la cosa giusta per me. Essere parte attiva di questo baccanale è il messaggio veicolato dalla mappa. Non si sono proprio accorti di me, non mi stavano guardando…avrei potuto trascorrere ore qui sdraiata,nella più totale indifferenza.
C’è una solitudine schermata, incompresa che mi fa parlare e mi abilita ai ceffoni. La creo, la costruisco, c’è anche ora…qui…su questo divano,dove la nudità dell’anima,che andrebbe accarezzata,viene umiliata e derisa.
Gli occhi di chi la giudica sono sempre limpidi e spietati, i miei sono imploranti e velati di inquietudine.
Parlaci di te, parlaci di questa personalità tormentata e indegna di carezze. Scrivi dei tuoi cedimenti, delle tue cadute e di quando ti nascondi dietro a una metafora come un animale in fuga si rifugia tra i cespugli del bosco intricato di congetture e arditi costrutti mentali.
Vuoi scappare, vuoi sottrarti anche stavolta?E dove fuggirai senza aver rivelato pressochè nulla di te?
Guardati, affrontala questa realtà, fatti violenza e accettati, con tutti i tuoi limiti e i tuoi disagi. Smetti di osservarla la mappa,perché ti sta depistando:strappala,anzi,e gettala tra le fiamme del camino, in modo che alimenti altro da te.
Mi sono alzata dal divano, con uno scatto felino e furioso, ho afferrato il cappotto e sono scesa in strada. Non sopportavo più la pressione. La avvertivo sulla pelle, incalzante come quelle voci che mi inducevano a strapparmi via la maschera.
Nel percorrere a piedi la rampa di scale pregustavo una breve fuga, un momento di riappacificazione da un tormento interiore fattosi troppo lungo e snervante.
La piazza sotto casa era stranamente affollata: si stava svolgendo uno spettacolo di sbandieratori. L’atmosfera era quella della festa, quella di cui magari,a volte, neppure ci si accorge,quando si è in preda a un incessante rimuginio di pensieri.
Nell’aria si sollevavano, a ritmo del suono dei tamburi, tessuti di ogni foggia e colore:mi sono confusa in quel crogiolo di umanità festante e,mentre ero con il naso all’insù, ho improvvisamente scorto in lontananza un volto amico che stava con il naso all’insù come me.
Un incrocio di sguardi di pochi secondi, a distanza,e senza neppure gesticolare.
Un’intesa intensa, nata da un sorriso schietto e immediato, che è arrivato a illuminarci il volto mentre il cielo si abbandonava, lasciandosi solcare da un tripudio di bandiere svolazzanti, distese, come i lineamenti dei nostri volti, esposti al vento della piazza gremita.
Nel dispiegarci reciprocamente attraverso quei sorrisi, finalmente l’ho sentita scorrermi sul viso, quell’amorevole carezza di una comprensione piena.
E’ arrivata nel frullio della stoffa di una bandiera volata più in alto delle altre, in un punto del cielo in cui il giudizio, l’equivoco e la distorsione non possono arrivare. Dove solo un gesto genuinamente gentile scioglie i volti contratti dall’alterigia e dalla paura di comprendersi.
E’ stato allora che ho capito che davanti a una carezza si resta, non si fugge.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Mies is more
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Barcelona pavillon photogallery
Less is more, diceva. E noi lo prendiamo in (poca) parola. Tanto, ci sono le foto. E che foto…. 😉
L’uomo, inteso come essere umano, ha la capacità di adattarsi al mondo circostante. Ciò gli ha permesso, come specie, di sopravvivere e di arrivare a governare il pianeta.
Questa prerogativa – di fronte a fenomeni straordinari, siano essi eventi naturali, catastrofi, o crisi sanitarie come quella recente – rischia però di ritorcerglisi contro.
La sovraesposizione mediatica di questi eventi, e in questo assume una importanza fondamentale il modo in cui questi vengono presentati, potrebbe comportare una forma di assuefazione e di confusione tra la realtà e la finzione.
Mi è capitato di ascoltare, mentre vedevo in tv le scene degli afghani che camminavano nella neve con le ciabatte o addirittura scalzi, dei commenti divertiti di alcune persone che erano vicine a me.
La scena, indubbiamente, non aveva nulla di divertente, e credo che nessuna persona dotata di un minimo di capacità intellettiva, non avrebbe dubbi a definirla “terribilmente drammatica”.
Ho recentemente letto un articolo nel quale un noto psicologo si interrogava sulla ineluttabile perdita di empatia che molte persone hanno verso le tragedie di altri esseri umani.
“Assuefazione”, è la risposta che si è dato.
L’esposizione senza filtri, sia da parte dei media che dei social, di eventi drammatici che diventano ogni giorno più frequenti e la sensazione errata che questi colpiscano solo altrove, rende le persone incapaci di provare quella empatia che si dovrebbe sempre avere quando si vede qualcun altro soffrire.
Se ci fate caso, quando passano nel feed del vostro smartphone le pubblicità umanitarie che mostrano scene oggettivamente devastanti – ad esempio bambini affamati o con ferite di guerra – immagini sapientemente usate per stimolare il coinvolgimento emotivo al fine di ricevere donazioni – inizialmente, di fronte a questi video si assume una presa di distanza che è dovuta a sensi di colpa; ma poi con il tempo subentra una forma di indifferenza, direi una forma di generico cinismo, e si passa velocemente oltre.
Affaticamento emotivo di fronte alla sofferenza altrui?
«Le persone vanno semplicemente in una sorta di burn-out» affermava lo psicologo nell’articolo.
Una forma di superamento del limite oltre il quale una persona è andata oltre le sue possibilità di “empatizzare” con altri esseri umani.
Come ogni altra forma di eccesso, che causa una sorta di rifiuto del prodotto di cui si è abusato, l’esposizione alla sofferenza altrui può superare un limite oltre il quale ci si rifiuta di andare, di guardare o di sentire, e quindi si diventa totalmente indifferenti.
E se questa capacità di andare oltre si radicalizza nell’essere umano, ormai sovraesposto da troppe informazioni, l’empatia verrà sovrastata da una forma di apatia emotiva che renderà le persone non più coinvolte ed interessate ad essere solidali ed aiutare chi viene travolto da tragedie e disastri o , ancora peggio , verso persone o popolazioni che si trovano in condizioni di cronica sofferenza e che sono esposte a fenomeni di lunga durata, come il ripetersi di eventi naturali catastrofici o una lunga pandemia.
Se l’essere umano giunge al punto di accettare acriticamente e apaticamente tutte le tragedie che colpiscono i suoi simili, ritenendo erroneamente che queste capitino solamente agli altri, mostrandosi dunque indifferente ed ignorando così tutte le contraddizioni della sua morale, allora la sua debolezza intellettuale non sarà più una eccezione, bensì una misera e condannabile normalità.
“Il richiamo del dirupo” ricostruisce le dinamiche che hanno portato al crollo del “Pallido rifugio”, edificio molto particolare costruito in stile vittoriano a picco sul mare dal proprietario Felice Hernandez.
Felice, così come la sua villa, sono molto misteriosi e chissà quali storie nascondono…
Gli abitanti del piccolo villaggio, a valle della scogliera sulla quale si erigeva “Il Pallido Rifugio”, in effetti si chiedevano come fosse stato possibile progettare una casa così fragile, all’apparenza, dal punto di vista strutturale e architettonico.
La signora Siviero è l’unica testimone a “mettere la faccia” sulle dichiarazioni riguardanti il crollo e il lettore le sarà grato. Gli altri testimoni non hanno voluto rivelare la loro identità ma viene apprezzato il contributo offerto alla ricostruzione dei fatti.
Il Signore Felice Hernandez decidere di dare in affitto la propria villa a quattro persone che saranno accuratamente selezionate da lui stesso. Felice non offre una normale villeggiatura: l’annuncio sarà altisonante e chi si mostrerà interessato dovrà dichiarare perché è così interessato a soggiornare nella villa, alle particolari condizioni imposte da Hernandez.
Gli ospiti saranno scelti e l’impeccabile Signora Siviero sarà a capo di questa insolita comitiva, garantendo il rispetto dei voleri del proprietario.
Persone sconosciute possono trovarsi unite per svariate ragioni e quelle dei quattro protagonisti, gradualmente, vengono svelate e sono tutte riconducibili ad un disagio nel rapporto con se stessi e di conseguenza con gli altri.
Emarginazione, sfruttamento, violenza, sottomissione si riconoscono nelle storie degli ospiti, e Hernandez aveva percepito che cosa avrebbe accomunato i futuri ospiti nel Pallido Rifugio.
La selezione fatta sarà azzeccata? Gli ospiti riusciranno a conoscere Felice, così sfuggente?
Ma soprattutto: perché il Pallido Rifugio è crollato? Qualcuno sarà riuscito a salvarsi?
La disperazione, la solitudine e il dolore non hanno bisogno di tante parole per essere raccontate e in un libro dalla lunghezza piuttosto ridotta (come numero di pagine) la scrittrice racconta con schiettezza fin dove può scendere l’animo umano, trasmettendone il turbamento che ne deriva. Alla fine quando si tocca il fondo, le conseguenze sono spesso simili: emarginazione e decadimento mentale.
I colpi di scena offerti dalla storia sono interessanti e la passione di Mìcol Mei per tutte le forme culturali è tangibile. Poesia e scrittura si fondono senza scontrarsi e rafforzano l’armonia del romanzo. I riferimenti musicali aiutano a contestualizzare il racconto.
“Il richiamo del dirupo” non ha l’intenzione di richiamare emozioni piacevoli e per me non è stato facile affrontarle, nel mio percorso incessante di ricerca della serenità.
Tuttavia ho voluto leggerlo fino alla fine perché anche il buio fa parte di noi e ogni tanto è giusto affrontarlo e ricordarsi che a tutto può essere posto una fine (in un modo o nell’altro).
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Il tanto acclamato e continuamente citato Albert Einstein, pare abbia detto, un giorno
“Se hai una risposta semplice, a una domanda semplice, allora tutto funziona alla perfezione”
Aggiungendo
“Se non lo sai spiegare in maniera semplice, non lo hai capito abbastanza bene”.
Grossolane e superficiali nullaggini!
Una premessa doverosa: non è in discussione la statura intellettuale dello scienziato, le cui epocali scoperte influenzano ancora oggi l’andamento del mondo scientifico e la vita di tutti noi, bensì la superficialità di certe sue (presunte) affermazioni, oltre che la deleteria inutilità di questa pretesa semplificazione linguistica a ogni costo.
È altrettanto evidente che, ogni citazione, eradicata dal suo contesto naturale, è di semplice strumentalizzazione e altrettanto facile da snaturare. Per questo, in discussione vi è il concetto della semplificazione, non le citazioni a se stanti, usate solo come incipit al più ampio discorso.
In questo specifico, discutiamo la presunta necessità di semplificare concetti che semplici non sono, rendendo immediati anche questioni che meritano un più ampio respiro, una riflessione approfondita, un tempo di decantazione, per essere elaborati, compresi e interpretati nella loro essenza più vera.
E qui sorge spontanea la domanda: semplificarli, per spiegarli a chi?
A qualcuno che, estraneo alla materia, non solo ben poco capirebbe della questione espressa, ma addirittura trarrebbe una deduzione semplicistica, limitata anche dalle parole semplificate e dal conseguentemente limitato pensiero, fino a rendere vuoto e inconcludente il ragionamento derivato?
Perché l’atto di semplificare il linguaggio e i concetti correlati, a ogni costo e a ogni prezzo, non solo è privo di qualsivoglia beneficio reale, ma rischia di rendere banali anche le riflessioni più importanti, trascinandole nel gorgo della superficiale velocità, di quella spasmodica voracità con cui pretendiamo di elaborare la realtà e i suoi fatti.
Parliamo di riflessioni importanti, quindi, che proprio per questa particolare natura, non possono e non devono essere prese “sotto gamba” e banalizzate, necessitando di un linguaggio complesso e articolato, fatto di termini specifici, stimolanti, di un costrutto che imponga l’attenzione viva e l’approfondimento, generando un pensiero critico davvero pensato, frutto di un percorso cognitivo che non si fermi all’uscio del dettaglio, ma che si spinga oltre, fino all’origine delle cose, percorrendo il periplo dei cerchi concentrici che dal particolare si diramano e all’universale giungono.
E viceversa.
A cosa e a chi giova, spiegare la fisica quantistica o la filosofia, con un linguaggio adatto a un bambino di otto anni? A nessuno, forse nemmeno all’ottènne bambino in questione.
Probabilmente soddisferebbe la curiosità di un momento, rendendo ingannevolmente “potabili” quei concetti altrimenti proibitivi, banalizzando la complessità del tutto, con un discorso dozzinale che, comunque, non sarà compreso e che, inevitabilmente, lascerà il posto all’illusione di un banale nozionismo, ingannevolmente vestito d’illusoria conoscenza.
Perché le riflessioni, quelle profonde e complesse, si argomentano con concetti altrettanto profondi ed egualmente complessi e con parole dotte, non per autocelebrazione, bensì allo scopo di favorire una riflessione che sia davvero approfondita.
Perché la nostra psiche non elabori quelle informazioni in modo veloce e inconcludente, producendo inutili discussioni da bar, in cui tutto resta sulla superficie delle cose, banalizzato e svilito da un linguaggio a prova d’analfabeta funzionale che, alla fine, di bagattella in insulsaggine, nulla dice in concreto.
Ciò non significa che certi argomenti debbano restare solo tra addetti ai lavori. Lungi da noi anche il solo pensarlo. Occorre piuttosto trovare una corretta via di mezzo che motivi, chi non è avvezzo a certi ragionamenti, all’evoluzione linguistica e di pensiero, vincendo così la tentazione frettolosa e pretenziosa di una immediata comprensione, giungendovi per gradi crescenti di preparazione.
In fin dei conti parliamo della lingua che ci appartiene, che tutti i giorni usiamo, facendolo dalla notte dei tempi della nostra vita. È nostro dovere impararla al meglio delle nostre possibilità. Basterebbe dedicarsi alle giuste letture, ai profondi ragionamenti, ai giusti strumenti che non ci impongano sempre le scorciatoie e i riassunti, per far nostra anche la parte meno ordinaria di un linguaggio che, opportunamente elaborato, contribuisce alla formulazione di un pensiero superiore.
È a furia di inculcarci (e farci inculcare) una presunta necessità di rendere tutto semplice, veloce, immediato, perché vittime della fretta e degli impegni, che abbiamo perso l’abitudine di leggere e di pensare, di riflettere e comprendere, di osservare la realtà da diversi punti di vista, per non saltare inevitabilmente a sdrucciolevoli conclusioni e a superficiali, quanto fallimentari, deduzioni.
È questa l’evoluzione da auspicare, ovvero la voglia e il bisogno di migliorare, implementando il bagaglio di parole e la capacità stessa di produrre pensieri, ragionamenti e riflessioni profonde. Quelle riflessioni che, fondate sul linguaggio non banalizzato, pretendano e impongano il tempo necessario alla vera comprensione, restituendo al pensiero la dignità che merita.
Occorre allenamento, applicazione, fatica, per imparare parole nuove e concetti profondi, per rendere elastica la mente e per imparare a pensare oltre l’apparenza, arrivando al nucleo d’ogni cosa. Perché anche la forma è parte integrante della sostanza, imprescindibile per il rispetto di una complessità funzionale allo scopo che, al contempo, si erga scevra dal barocchismo decorativo senza destinazione d’uso.
E occorre curiosità, per acquisire un pensiero asimmetrico, non standardizzato, fuori dagli stereotipi e dagli schemi dominanti, che doni originalità e identità ai nostri ragionamenti.
Ci sono concetti che possono essere semplificati, perché in origine non necessitavano di complessità e altri che non devono assolutamente essere resi semplici, ancor meno banali, pena un pensiero di risulta, vuoto e inutile, che a nessuno gioverebbe.
È possibile, anzi doveroso, semplificare una comunicazione di servizio, una disposizione, persino una procedura. Ma ciò che deve generare una riflessione profonda, deve restare profondo, per dar vita all’impegno necessario a produrre un pensiero degno di questo nome.
Non possiamo essere tutti filosofi, astrofisici, medici o ingegneri. A ognuno il suo codice professionale, la sua gergalità, i propri termini tecnici che, semplificati al massimo, perderebbero natura, efficacia e potenza. Perché ci sono concetti che, per essere portati al giusto approfondimento, necessitano di una complessità stimolante e sfidante, capace di risvegliare l’intelletto sopito.
Diversamente, produrremmo solo un’infarinatura inutile, a presunto beneficio di chi, incapace della giusta attenzione e del necessario approfondimento, non riuscirebbe a comprendere il significato di E = mc2, nemmeno se la spiegazione fosse illustrata a fumetti da un bambino di otto anni.
Eppure sono solo tre lettere e un numero. Più semplice di così?
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Per una volta, nell’Odissea, non è lui a governare la nave.
Dorme un sonno strano, mentre la nave, velocissima, solca l’Oceano e raggiunge un’isola.
Il lettore ha aspettato tanto questo momento. Di quest’isola si è parlato molto, molte lacrime sono state versate, molta nostalgia spesa; molte volte è sembrata vicina, a portata di mano – anzi, di prua – e altrettante volte si è persa la rotta, e la sua sagoma si è fatta piccola, fino a scomparire…
È Itaca.
“che paese? che terra? che uomini vivono qui? è un’isola tutta visibile, oppure è una punta, protesa nel mare, del continente dalle vaste campagne?”
Si è appena svegliato e – forse per questo! – vuole conoscere le coordinate geografiche di un luogo che ancora non riconosce come la sua terra natale.
Parla con Atena, la sua dea protettrice, e questa risponde: “non è sconosciuta, né straordinaria, è aspra, inadatta ai cavalli, non troppo magra, né troppo vasta”
Non è un’isola mitica, un paradiso terrestre: latte e miele non scorrono nei suoi fiumi e non produce frutti spontaneamente: è un’isola reale.
Più che reale: pietrosa. Lo dice Foscolo e lo dice Guccini: “e se guardavo l’isola petrosa// ulivi e armenti sopra a ogni collina// c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa// c’era l’anima mia che è contadina”.
L’anima appartiene a posti che non hanno bisogno di alcuna bellezza sovrabbondante. Questo ci dicono i poeti. E noi apparteniamo a questi posti. Né brutti né belli. Nostri.
“Quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”: lo dice quell’inquietante Machiavelli, a suo agio nel peggio come nel meglio della politica. Ma la sua casa sono i libri, gli antichi uomini che gli parlano. Lui domanda e loro rispondono.
Uomini che girano il mondo, conoscono cose, imbrogliano, amano, uccidono, mentono, vincono e perdono. E un filo li tiene legati ad un’origine, un focolare, una donna che li aspetta, paziente. La cui immagine deve consolarli mentre vincono e perdono. Mentre vivono.
Forse nei mattini d’estate, fra empori fenici e città egizie, le narici inebriate da penetranti profumi, come immagina Kavafis.
Itaca è un mito maschile. È un piacere del ritornare che può provare solo chi può andare via.
Le donne non hanno Itaca. Sono Itaca. La loro pazienza è premiata dal ritorno dei loro eroi, un po’ ammaccati dagli anni: bisogna prendersene cura e aver conservato qualcosa per loro. Un po’ di bellezza, un po’ di dolcezza.
Fin qui, i miti.
Ma ogni mito contiene altri miti, nascosti, potenziali.
Ci sono miti che i poeti non hanno voluto raccontare. Penelope, per esempio, ad un perfetto sconosciuto – è Odisseo! ma lei non lo sa – racconta uno strano sogno: nella sua casa, a Itaca, ha venti oche che beccano il grano e lei è felice, gioisce guardandole; quando improvvisamente, dal monte, una grande aquila dal becco adunco piomba sulle oche e le uccide. Penelope, allora, piange alla vista delle oche morte, ammucchiate, e si dispera, tanto da dover essere consolata dalle altre donne.
Finché non le spiegano il significato del sogno: l’aquila è il marito e verrà ad uccidere i suoi rivali-oche.
Dove il piacere segreto di avere venti oche nella propria aia (invece di un marito-aquila) deve essere confinato nel regno effimero dell’onirico per avere cittadinanza poetica! E però candidamente raccontato ad un altro uomo, che stranamente la attrae (attrazione lecita! essendo costui proprio il marito, perduto e ritrovato).
Miti indicibili, di cose che accadono nelle notti mediterranee della petrosa Itaca!
Odisseo naturalmente non ha bisogno di sognare. Circe, Calipso, Nausicaa…
Ogni isola è anche una donna, ogni donna è un’attrattiva diversa.
Solo Dante immagina che il filo si spezzi: Ulisse non vuole tornare. C’è da navigare ancora, c’è da sconfiggere quel vivere bruto che zavorra ogni nostro desiderio; ci sono altri mari da percorrere, altri orizzonti, altri cieli.
Itaca può aspettare. Altre isole ci attendono.
È la vertigine di un altro sé possibile: un sé totalmente libero.
Infatti, se ne ricorda Primo Levi in quello straordinario capitolo di Se questo è un uomo, quando cerca di spiegare a un giovane compagno di corveé – durante un breve squarcio di relativa libertà dalla sofferenza del lager – il significato di quel verso meraviglioso:
“ma misi me per l’alto mare aperto”
Sappiamo come va a finire, il volo folle sopra ogni sentimento ‘dovuto’: con quel mare “sovra noi richiuso”.
Una voce affatturante mi ha chiamato e ora permea la mia decisione di far ritorno al faro.
L’ho evocata e, dunque, la seguo lungo un sentiero di acciottolato stabile che rende saldo il pensiero come il passo e che, ben presto, mi conduce a una gittata di cemento ingannevole, come quella voce, che, da suadente che era, d’improvviso si fa tenebrosamente perniciosa. L’ultimo tratto è sterrato, sa di dissuasione o comunque di messa alla prova. Non so se il senso sia rotolare a precipizio o muoversi con saggia circospezione, ma l’andatura si fa lenta e pesante,mentre la voce si ode sempre più flebilmente,come un eco disperso dal vento.
Il promontorio è desolatamente vuoto, sferzato dalle procelle della vita, la vegetazione è brulla, arsa dalle mareggiate invernali. Sale che cicatrizza le fenditure della roccia come si fa con le ferite.
E’ quasi l’ora del tramonto: tutto è fermo, come in un ineluttabile frame scorporato.
Mi guardo intorno, alzo gli occhi e la vedo:lassù, eterea e inibente,occupa la sommità del faro.
Era sua la voce quella che mi ha condotto qui.
Gli sguardi si incrociano, sfidanti e selvatici, implacabili scuotono l’inconsistente struttura metallica che vibra maledettamente ad ogni occhiata.
Il faro è dismesso:noi no. Il duello è infuriante e sprigiona elettricità che sembra turbinare in spire nella mia direzione, attraverso i pioli delle scale di accesso alla luce rotante.
Non c’è dialogo, né comunicazione verbale alcuna ma la gestualità è incontrovertibilmente tesa al confronto.
Il Sole rende incandescente il cielo e il suo bagliore, proiettato sulle vetrate del faro, quasi mi acceca. Sospendo i pensieri ma non mi muovo, socchiudo le palpebre, sperando di ritrovarla nella sua posizione originaria, una volta riaperti gli occhi.
Mi guardo intorno e non c’è, non la vedo più, il tramonto incombe e la terra sussulta sotto i miei piedi. Nel silenzio persistente, il mio grido furibondo si libera e mi solleva vorticosamente nell’aria, proiettandomi in cima al faro.
La prospettiva di un gemellaggio celeste esorcizza la condanna alla fosca irrequietudine di una schermaglia terrena che chiede con prepotenza di essere composta.
Ora sono io che invoco il suo nome e, d’un tratto, la ritrovo seduta accanto a me:distoglie lo sguardo…ha l’aria di una viaggiatrice sconnessa ma conserva un tratto flessuosamente regale.
Le nostre menti sono altrove, ma comunicano persino nella solitudine della lanterna spenta di un faro inattivo.
Legami alienanti trovano conforto nell’instabilità di un luogo alienato e infondono reciproca remissività ai nostri sguardi, non più torvi: interrogativi, forse, curiosi ma sereni.
Le tendo la mano ma avverto tensione:ci temiamo e non abbassiamo le difese. Ha il viso stravolto, lo sguardo metallico e gli occhi gonfi di pianto…lo percepisco ma non riesco a sostenerne la vista. Sono visibilmente scossa anch’io.
Quando la scia del Sole tramontato in mare raggiunge lo specchio d’acqua sotto i nostri piedi, con un filo di voce le dico:”Sono venuta a prenderti. Vieni via con me!”.
La osservo con minuziosa attenzione stavolta, si alza in piedi e, quasi fluttuando verso il precipizio sottostante, si volta furtivamente nella mia direzione per poi lasciarsi cadere nel vuoto. La sua corporeità si sparpaglia come polvere dorata ricadendo delicatamente a pelo d’acqua e confondendosi con la scia del tramonto.
Due delfini, assecondando la corrente, la guidano verso un punto di consunzione, impossibile da determinare a vista.
Sul mio viso solcato da lacrime cocenti più del Sole è rimasto impresso il ricordo di quello spazio vuoto, compagno di brevi scambi sulla sommità del faro.
Chi era, Lei?
La vera e sola me o un’altra me?L’abbaglio di un Sole ingannatore o il sogno furtivo di una alleanza nata da una guerra?
Non lo so, ma da quel giorno ho preso il suo posto al faro e attendo, con cieca ostinazione, di poterne udire ancora una volta la voce, di ricongiungermi a lei e di proseguire un dialogo scandito dall’intermittenza della luce rotante attraverso la quale sarebbe bello entrare e uscire dalle vite altrui senza far rumore.
Intermittenti ma presenti, proprio come i fari. In fondo siamo fatti di luce e di ombre. Tutto quello che il futuro riserva, solo il faro può saperlo:resta annoverato tra i suoi più insondabili segreti.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Nessuno è escluso. Ormai sdoganato come insulto, spesso riferito a noi stessi tutte le volte che ci sembrava assurdo aver fatto un errore banale o mancato un obiettivo alla nostra portata ce lo siamo detti : “sono proprio un idiota”.
Quante volte è accaduto? Mille?
“Idiota”, nel senso etimologico della parola greca «Idiótes», era colui il quale poneva al di sopra di tutto i suoi interessi personali, da «idios» proprio.
“Idiótes” stava a significare dunque in modo specifico l’«uomo privato», in contrapposizione all’uomo pubblico, il quale rivestiva cariche politiche e dunque era considerato colto, capace ed esperto.
Quindi, già in greco “idiótes” accomunava i due significati che valevano sia “come persona che pensava solo a se stesso”, sia come “uomo inesperto”, “non competente”.
È interessante notare che quando usiamo «idiota» con l’intenzione di offendere, dunque come un insulto, quest’ultima parola, contenga l’azione di aggredire la persona che si vuole ferire, appunto insultandola. Ma come sappiamo bene, si può insultare e dunque ferire, in maniera molto più efficace anche non usando parole offensive, anzi spesso non usando proprio parole.
Torniamo ai greci, i quali erano decisi a definire “idiote” le persone che non avevano interesse per il bene comune ed implicitamente consideravano «non idioti» chi aveva una visione e interessi più ampi, che coincideva anche con l’essere un uomo politico. Naturalmente – come non ha mancato di farci notare la cronaca politica recente – non è un vincolo «non essere idiota» al giorno d’oggi per diventare uomo pubblico. Ne consegue che sarebbe da idioti affidare a un idiota l’interesse pubblico e dovremmo diffidare al massimo dai politici idioti, troppo concentrati su sé stessi.
Ma questo è un altro discorso.
Quando la parola entra nella nostra lingua, intorno al XIII secolo, “idiota” significa (e di lì in poi significherà fino ai giorni nostri) «chi è stupido, privo di senno, incapace di ragionare». Come per altri vocaboli di significato simile (stupido, scemo, imbecille ecc.) è possibile usare la parola in senso aggressivo, adoperandolo come epiteto spregiativo o, come invece spesso accade, colloquialmente scherzoso.
[E’ doveroso precisare che l’idiozia come grave malattia dello sviluppo mentale ha cessato da tempo di costituire una fattispecie valida nella medicina].
Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale dannoso delle persone stupide. E questo potenziale è molto più pericoloso di quanto si immagini. Soprattutto quando ha la possibilità di influire sulle vite altrui, il che vuol dire quando l’idiota, con le sue stupide decisioni, condiziona il futuro di molti, quando insomma si trova al comando.
D’altronde se non siamo un pò tutti succubi del pensiero dominante? Se (casi eccezionali) non inseguiamo il profitto a ogni costo, oppure non pensiamo che spregiudicatezza, guadagno e proprietà siano le uniche leggi da rispettare, quante volte ci capita di sentirci degli idioti?
La società si è evoluta e mentre una volta gli idioti erano solo degli idioti qualunque, adesso vogliono strafare, tanto da non farci capire se sono idioti di loro o se hanno fatto qualche master per scalare di un livello, e hanno fatto carriera e preso il titolo di “emeriti idioti”.
Spesso questi assumono i connotati da leader, favoriti dal fatto che i saggi cercano erroneamente di ascoltare anche gli idioti, mentre gli idioti ascoltano solo se stessi, pertanto quest’ultimi hanno maggiore libertà di parola.
L’aggravante è che avendo spesso potere, gli idioti hanno sempre degli adulatori intorno a loro , che li ricoprono di bava, richiedendo loro un parere, spesso non necessario, e non si rendono conto che se avessero l’accortezza di capire che, quando un idiota (raramente) tace, è sempre meglio non interromperlo.
Chiuderemmo così la questione: Idiota è chi si occupa solo di sé stesso e spesso è un incapace di successo.
Passo da un battito di ciglia ad un eterno mugolio che si estingue sulla punta della lingua di amanti di passaggio su queste strade spianate.
Ho visto macchine con il motore in panne tagliarmi come schegge, uomini d’onore scappare come criminali senza scrupoli, donne d’amore aspettare in silenzio che fosse quello il loro tempo.
Il tempo di tre giorni. Tre per sapere che mi stavi ingannando e tre per rinnamorarmi di te.
Serena amò Marco sempre e solo per tre giorni. Tre giorni per capire che Marco non l’amava ma l’avrebbe forse fatto ad Hayeres, sulla costa francese.
Una giulietta rossa, una targa provvisoria, affittata per un breve periodo, le dita doppie di Marco sul cambio e l’altra mano in mezzo alle gambe di Serena che sorridendo guardava fuori dal finestrino.
Serena aveva affidato, tanti anni prima, la sua vita al caso.
Cosa le fosse stato destinato non le era ancora chiaro ma aveva la presunzione di essere speciale.
Indossava un pantalone di jeans chiaro, un paio di zoccoli marroni con delle piccole borchie e una maglietta all’uncinetto, tinta corda.
Non indossava il reggiseno, ne la cintura.
I pantaloni restavano sempre scostati dalla vita di uno spazio equivalente ad una mano.
Quella che avrebbe lasciato passare Marco tra il jeans e la sua pelle abbronzata.
Ludovica D’Alessandronasce a Napoli nel 1984. All’età di 12 inizia a soffrire di disturbi del comportamento alimentare. Nonostante il peso della malattia si trasferisce a Londra e successivamente a Milano dove vive e lavora attualmente. Il suo genere di scrittura è crudo e graffiante come un pugno nello stomaco. Fa della ricerca della bellezza dell’essere umano una missione ma senza spaventarsi di scavare nei meandri dell’animo.
Se credessimo in coloro i quali sostengono che esiste una soluzione semplice per intervenire sul cambiamento climatico e sulle drammatiche conseguenze che questo comporta, saremmo delle persone credulone e romantiche, tanto per citare una vecchia canzone.
Il livello di attenzione che si è creato negli ultimi anni su questa questione che definire vitale è un eufemismo, comporta in estrema sintesi l’adozione di comportamenti tali che possiamo ,in sintesi, definire in due macro azioni: o si sposa il concetto dal punto di vista ideologico, mettendo a tacere la coscienza o, ancora peggio, si nasconde la testa sotto la sabbia.
In realtà il cambiamento climatico è un argomento dannatamente complesso, ed è un problema, una sfida enorme, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, perché la soluzione passa attraverso una serie di comportamenti e decisioni che interessano sia l’uomo della strada, che le politiche governative planetarie.
Il mondo in cui ci stiamo abituando a vivere è basato sull’uso di combustibili fossili. Le emissioni di gas serra sono al centro dei nostri sistemi produttivi e il risultato che ne deriva è responsabile del cambiamento climatico.
E’ tutto collegato.
“Salviamo il pianeta” è uno slogan talmente sfruttato che ormai non viene più percepito. Quasi come una pubblicità che passa in tv e che distrattamente sentiamo senza nemmeno più ascoltarla.
La buona notizia è che il Pianeta Terra, grazie al cielo, continuerà a girare intorno al sole anche per i prossimi centomila anni, a prescindere dalla temperatura che lo scalderà o lo raffredderà, e di questo ne siamo tutti consapevoli.
Ma come possiamo fare in modo che gli abitanti del nostro pianeta e gli ecosistemi che ne fanno parte siano in grado di adattarsi ai cambiamenti che stiamo producendo e quindi sopravvivere in futuro?
Per risolvere un problema, qualunque esso sia, la prima cosa da fare è riuscire a centrare la questione in modo corretto e porsi le domande giuste che aiutino a sviluppare ragionamenti che, in un secondo momento, sappiano poi indirizzarci verso la corretta soluzione.
L’approccio, per quanto ci riguarda, ed è fermamente il nostro punto di vista, deve per forza essere di tipo scientifico.
Cosa significa ciò?
Significa fidarsi della scienza per fornire all’opinione pubblica e ai decision-making unit numeri concreti su cui ragionare. E subito dopo, bisogna creare le condizioni per far comprendere in maniera più chiara possibile questi dati spiegando, nella maniera più semplice possibile, i rischi che ne derivano se non si agisce per risolvere tali problemi.
Se “2 gradi in più” nella mente degli addetti ai lavori rappresenta un rischio serio, ma nella mente dei cittadini ciò vuol dire un maglione più leggero in autunno, allora vuol dire che abbiamo ancora tanta strada da percorrere.
Illustrare in maniera chiara senza troppi giri di parole qual è lo scenario al quale stiamo andando incontro, è un compito arduo soprattutto perché agli occhi di chi si deve impegnare per risolvere il problema, le decisioni sono da prendere immediatamente ma per un obiettivo i cui risultati non sono visibili in tempi brevi.
Il recente film “Don’t look up” ha saputo spiegare in maniera efficace cosa significa dover prendere decisioni difficili ad alto livello ma che non hanno un ritorno immediato in termini di popolarità. [n.d.r. Per chi non lo ha ancora visto, invitiamo “caldamente” a guardarlo].
Tornando a noi, per risolvere un problema sistemico e trasformarlo in una opportunità, la soluzione è quella di raccontare di un mondo futuro più sostenibile, più umano, e più rispettoso dell’ambiente e degli esseri che lo abitano.
Siccome, come dicevamo, non esiste una soluzione unica ma un insieme di azioni che, una volta indirizzate verso un obiettivo chiaro e facilmente comprensibile possono diventare una spinta costante e inarrestabile verso una filosofia diversa, una percezione della propria e altrui vita più giusta e corretta, allora si tratta di uscire dalla “non azione”, tirare fuori la testa dalla sabbia, e mettere in atto una serie di comportamenti e fatti che siano concreti e tangibili.
Lo sforzo è immane ma l’obiettivo primario almeno è chiaro: ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra, con determinazione e convinzione.
Non sarà un obiettivo a breve termine, e se non lo vogliamo fare per noi, almeno facciamolo per i nostri figli e le generazioni future.
La Redazione di FUORI invita a sostenere e divulgare Time for the Planet, società non profit creata nel 2019 da 6 imprenditori che hanno l’obiettivo di raccogliere 1 miliardo di euro per creare 100 imprese che agiranno contro il riscaldamento globale e i mutamenti climatici a livello mondiale.
Tutti possono diventare azionisti a partire da 1 €uro. Le aziende create hanno l’obbligo di rendere pubbliche tutte le loro innovazioni tramite l’open source e chiunque ha la possibilità di proporre un progetto a condizione che la sua finalità sia in linea con l’obiettivo di ridurre i gas serra su larga scala. I progetti vengono selezionati ogni trimestre da un Comitato scientifico che ne valuta la valenza e fattibilità e potenzialità di sviluppo.
Alla data di oggi ci sono più di 40.000 azionisti nel mondo e quasi 8 milioni di €uro raccolti.
Time for the Planet ha già creato, grazie a questi fondi raccolti, ben tre aziende attive nel contrastare i danni provocati dal cambiamento climatico.
Vera ha trent’anni e racconta in prima persona la propria storia.
La protagonista dichiara che sia impossibile raccontare una storia vera dall’inizio, anche se nessuno lo ammette: chissà se è vero…!
I ricordi dello scrittore sono falsati dalle esperienze che si susseguono negli anni e chi legge riporta il proprio vissuto dentro la storia raccontata. Ad ogni modo credo sia importante sentire qualcosa dentro che fa nascere un’emozione e la scrittura di Deborah con me c’è riuscita!
Chissà se “Il club della solitudine” esiste o se sia mai esistito e se i protagonisti della storia sono reali. Sicuramente è stato interessante conoscere questo luogo insolito e lasciarsi coinvolgere dalle sue dinamiche.
“Il club della solitudine” era una scuola superiore chiusa da anni a cause di molestie impartite da un professore su una giovane alunna. Agata ha trasformato questo edificio, immerso nel verde, in un luogo di confronto e di libertà di espressione dove le persone che possono accedere sono accuratamente selezionate dalla proprietaria e fondatrice del club (Agata appunto).
Nel club i partecipanti sono liberi di esprimersi e hanno l’occasione di entrare in contatto e di scontrarsi con se stessi, senza forzature e manipolazioni. I legami che nascono fra le persone sono unici e particolari.
Agata si vede poco ma la sua presenza è tangibile ed è una persona straordinariamente equilibrata che con empatia guida questo curioso gruppo di persone che affrontano un percorso per certi versi insolito.
I partecipanti sono variegati nelle esperienze e nell’età. Ognuno inizia da solo la sua esperienza ma il contatto con gli altri è inevitabile e il legame che si crea fra le varie generazioni è così tenero che nasce il dubbio che qualcosa si sia perso, distratti dalla quotidianità sempre più individualista e digitale.
Vera, la protagonista della storia, ha un passato doloroso e non riesce ad aprirsi agli altri facilmente e a mostrare la sua vera natura; sicuramente non è l’unica a vivere queste difficoltà…!
Nel club Vera scopre qualcosa di nuovo che potrebbe stravolgere la sua vita: riuscirà a cogliere e a sfruttare a pieno le sue potenzialità?
Come evolveranno i rapporti fra gli avventori di questa strana struttura?
Deborah scrive in modo delicato e non entra con forza nelle emozioni del lettore. All’inizio questa caratteristica potrebbe rappresentare un limite alla storia ma da un certo punto in poi ne diventa l’elemento di forza che avvolge chi legge “Il club della solitudine”, donandogli un senso di benessere e di libertà.
“Il club della solitudine” sarà un ottimo punto di partenza per chi sente delle ombre dentro di sé e non riesce ad affrontarle!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Le tre grandi crisi degli anni duemila – terrorismo, crisi finanziaria, pandemia – hanno indotto un generale ripiegamento sui bisogni elementari: fisiologici, di sicurezza, di appartenenza. E hanno ulteriormente appiattito l’orizzonte ad un presente infinito, al quale costringiamo i nostri corpi negando loro l’invecchiamento e le nostre anime consumando e scartando come mode anche le idee.
Se ‘vita’ è bellezza, conoscenza, verità, pienezza ecco che siamo – senza saperlo – ‘morti’. Zombie. Esseri distruttori e autodistruttori. Un modo diverso di riflettere sull’autodistruzione e sulla salvezza – se non avete gradito Don’t look up, o anche se lo avete gradito – è quello di Jim Jarmusch. Il film è di diversi anni fa, ma è quanto mai attuale: Solo gli amanti sopravvivono. (Only Lovers Left Alive, 2013)
Gli amanti sono Adam ed Eve, a cui prestano volti e corpi – bellissimi, senza tempo, sensuali – Tilda Swinton e Tom Hiddleston. Lei vive a Tangeri, fra i libri e l’arte. Lui a Detroit, fra le chitarre e la musica. Hanno vissuto per molti secoli, conosciuto pittori e poeti, musicisti e scienziati. Sono vampiri. E si amano. Di un amore senza storia. Si amano di un amore delicato e profondo: lei luminosa, quasi abbagliante, e pronta a cogliere la bellezza – anche in un mondo che l’ha perduta – lui più inquieto e cupo ed esitante sul vivere o morire.
Parlano, si amano, ballano, si baciano come se ogni bacio, ogni danza, ogni parola fosse fuori dal tempo, assoluta, prima e ultima, come forse è stata all’inizio dei tempi, prima dell’umanità. Le stelle, la poesia, il destino delle città, i silenzi riempiono le loro conversazioni e la freschezza della sera in cui essi necessariamente vivono si riverbera sui loro sentimenti e sui loro sguardi e li colma di bellezza e malinconia, pur sullo sfondo di una Detroit deserta e dozzinale, brutta e logora.
Sono vampiri che hanno imparato a resistere al richiamo brutale e primitivo del sangue cercato con la violenza: si nutrono di sangue ‘pulito’ che dottori e ricercatori lautamente ricompensati producono per loro. Con parsimonia e moderazione. E con rispetto per la vita degli zombie, che invece così miserevolmente la sprecano.
Ed ecco che tocca ai vampiri ricordarci che cosa è propriamente ‘vivere’: prendersi cura l’uno dell’altra con rispetto e gentilezza, regalarsi, nutrire di amore e comprensione profonda ogni piccolo gesto, comunicare in tutti i modi possibili, col tatto, con la musica – che accompagna ogni momento del film – con il corpo, con la parola.
Lunare, notturno, poetico. È il mondo che gli amanti – solo gli amanti – possono ritagliare per sé nell’inconsistenza rumorosa e arrogante della post-modernità, mortifera e distruttrice. Scampoli di una natura sfregiata lo popolano insieme ai resti del passato – fotografie, oggetti, abiti, storie e ricordi – come relitti dopo un naufragio: levigati dal tempo e addolciti dal tocco lieve e stupito di Eve, che ‘nomina’ e riconosce con gratitudine ogni essere vivente che incontra, fosse un fungo o una puzzola. E conservati con cura ansiosa da Adam.
Ma anche i vampiri devono ad un certo punto scegliere fra sopravvivenza e vita: costretti a scappare per la sventatezza della avida e incontrollabile sorella di lei, Ava, i due amanti restano privi di nutrimento e scoprono anch’essi la fame e la sete da cui si erano tenuti lontano.
L’amore per il genere umano, per la musica, per la bellezza, domina il finale in cui il vecchio archetipo del vampiro viene piegato ad un significato del tutto inedito, di positività e fiducia.
Zio Benjamin fa la sua comparsa nella mia vita piuttosto improvvisamente, come uno di quei personaggi mitologici, a metà tra l’avventuriero e il reietto, per via della scelta piuttosto incauta – se rapportata alla prudenza e al tradizionalismo di certe famiglie della sua epoca – di lasciare, da giovanissimo, il proprio Paese, l’Italia, per andare a cercare fortuna in Canada.
Beniamino, il fratello estroso della mia nonna materna, dopo il trasferimento all’estero, era diventato per tutti Benjamin e aveva preso dimora in una cittadina del Quebec dal nome impronunciabile che, sin da piccola, ho sempre puntualmente storpiato tanto da decidere di rinunciare, proprio per una forma di estremo ritegno, a citarlo.
Per me zio Benjamin stava in Quebec, Stato/Nazione del Canada. Punto e basta.
Bastava ricevere ogni tanto qualche notizia o sentirlo telefonicamente per stare a posto con la coscienza rispetto alla difficoltà generata dal nome di quel luogo di residenza franco/canadese. Chissà, forse il parentado si illudeva che tale dettaglio disincentivasse in automatico dal considerarlo parte integrante della famiglia.
A me, in fondo, stava simpatico perché era andato controcorrente rispetto ai diktat familiari.
In ogni caso, non si è mai compreso bene se, nella sua vita, fosse stata la fortuna a incontrare lui o lui ad andarle incontro: sta di fatto che, dopo essersi dedicato per una vita all’amatissimo lavoro di imprenditore edile barcamenandosi felicemente tra un sacrificio e uno sfizio, non si era legato dal punto di vista affettivo – anche se la sua fama era quella del seduttore – e, dopo il pensionamento, aveva deciso di trascorrere ogni estate (da giugno a settembre) nel cottage di sua proprietà sempre nel Quebec, in località Mont Tremblant, in riva a un lago.
Lì lo raggiunsi nel settembre di circa ventinove anni fa, in occasione di un viaggio premio, regalatomi dai miei genitori dopo la maturità, con l’obiettivo di vivere un’esperienza elettrizzante e di riposarmi in vista dell’impegno universitario che mi attendeva al rientro.
Mi era capitato altre volte di separarmi dalla famiglia per le vacanze estive:spesso raggiungevo i miei zii in Liguria anche per un mese intero, dopo la scuola, e ci ero arrivata in treno persino da sola, affidata ora a una suora, ora a qualche famigliola che, da Napoli, mia stazione di partenza, era diretta al Nord a trovare i parenti. Roba che, a pensarci col senno di poi, se dovessi far viaggiare i miei figli secondo queste stesse modalità, mi si rizzerebbero i capelli in testa, dato il livello di follia della gente che c’è in giro.
Ma la partenza per il Quebec era una cosa decisamente diversa:il primo viaggio in aereo, la prima tratta così lunga verso un Paese lontano, la prima esperienza di vacanza senza la compagnia di alcun coetaneo. Sinceramente?Avevo una strizza terribile e la cosa che più mi creava ansietà era:
“E se in aeroporto, quando arrivo, mi perdo?E se zio Benjamin tarda?E se vanno smarriti i bagagli? “.
Io, degna nipote di una nonna paterna estremamente ansiosa a cui ero spesso affidata, a bordo di quel velivolo sono riuscita a dare il meglio sul piano delle contorsioni mentali…avrei potuto girare il sequel de: “L’aereo più pazzo del mondo” come protagonista assoluta. Sono convinta che le hostess mi abbiano invocata ripetutamente come la iattura più grande capitata nella loro esperienza di volo, perché le disturbavo continuamente ora con richieste di delucidazioni, ora con la manifestazione di una serie di esigenze illogiche,culminate nella preghiera di aiutarmi a trovare gli occhiali da vista che stavano al loro posto dal momento del decollo, ossia sul mio naso.
Preferisco non dilungarmi sulla composizione del bagaglio:una via di mezzo tra la partenza per “il giro del mondo in 80 giorni” e l’equipaggiamento di Madonna quando si sposta tra i vari continenti, insieme allo staff, in occasione di un nuovo tour. Dico solo che, per poco, un arto di mia madre non era rimasto anch’esso chiuso in valigia assieme ai capi d’abbigliamento, impigliato nelle cerniere a scatto del bagaglio più grande. Le pose plastiche adottate per riuscire a chiudere “a pressione” (sotto il peso del mio corpo, praticamente) quei dannati valigioni ancora le ricordo con un certo imbarazzo.
Ad ogni buon conto, nonostante le previsioni da peggior thriller di Hitchcock, l’arrivo in Canada fu trionfale: allo sbarco, recuperato tutto il mio patrimonio di vestiario e ammennicoli vari, trovai zio Benjamin ad accogliermi con un cartello indicante il mio cognome opportunamente riconvertito da Frascatore in Francescone che subito interpretai come punizione karmica per non essere mai riuscita a pronunciare il nome della sua città e, poco dopo, fui fatta accomodare su una comodissima jeep,guidata da un amico dello zio,a bordo della quale raggiungemmo il cottage.
Dopo i convenevoli iniziali – in un italiano biascicato e stentatissimo da lui e in un inglese maccheronico (il mio) con cui, senza successo, volevo fare la spaccona e dimostrare di conoscere perfettamente la lingua straniera – ci avviammo verso la nostra destinazione che distava circa tre ore dall’aeroporto.
In quel lasso di tempo, con la mia consueta caparbietà, feci innumerevoli tentativi di inserirmi nella conversazione tra zio Benjamin e l’amico Frank inanellando una serie di figuracce di cui credo ancora ridano varie generazioni di frequentatori del lago di Mont Tremblant. Sono arrivata a pensare che le tramandino addirittura,come si fa con le barzellette sui Carabinieri. Il loro era un misto di slang del luogo, americano e francesismi sparsi che mi lasciò annichilita sul sedile posteriore, chiusa in una forma di rassegnata ignoranza da cui mi sarei riscattata solo dieci anni più tardi, durante il viaggio di nozze che segnò la conoscenza con il ramo americano della famiglia di mio marito: in quella occasione scappavano tutti appena mi vedevano,perché li utilizzavo come cavie per allenare il mio inglese…con ritmi di parlantina attestatisi anche sulle quattro ore consecutive.
Inizialmente, comunque, con zio Benjamin vissi la frustrazione di non capire un accidenti della sua lingua e avevo persino difficoltà a esprimermi in italiano perché mi ero resa conto che un linguaggio forbito non sarebbe mai stato da lui compreso appieno:finimmo per adottare un compromesso, un registro tutto nostro fatto di dialetto napoletano, italiese e broccolino che avrebbe fatto storcere il naso ai puristi ma che, a noi, generava un’ilarità senza pari.
Durante il viaggio in auto, non distolsi mai lo sguardo dai panorami che, via via, si alternavano attraverso il finestrino:ero estasiata e con un’espressione carica di meraviglia dipinta in volto che i miei interlocutori trovavano piuttosto comica. Con quella bocca perennemente spalancata – in totale spregio alle raccomandazioni di mamma, all’atto della partenza, circa l’assoluta necessità di contenere il mio stupore…”..altrimenti fai la figura della piccola fiammiferaia che non conosce il mondo..”! – avrei fatto la fortuna di qualsiasi dentista!
Mi colpiva tutto:la vegetazione, a perdita d’occhio e oltremodo lussureggiante, le strade di ampio respiro perfettamente asfaltate, l’ordine e la pulizia, la manutenzione e la cura quasi maniacale dei luoghi che attraversavamo, l’opulenza sfacciata di alcuni scorci urbani, il rispetto di pochi, basilari principi del vivere civile, il crogiolo di razze e culture, la presenza discreta ma costante delle forze dell’ordine nelle vie,l’imponenza dell’edilizia.
Usciti dall’autostrada e lasciata la statale alle nostre spalle, improvvisamente imboccammo un sentiero che degradava verso il lago. Il fondo stradale era disseminato di ciottoli:si preannunciava sconnesso e non proprio agevole da percorrere, nonostante fossimo a bordo di una jeep.
Lo chalet era ancora lontano ma il panorama di cui si poteva godere cambiò di nuovo e io ebbi un tuffo al cuore perché mi parve di essere stata catapultata in uno scenario da favola.
In lontananza, si potevano distinguere nell’aria i giochi di fumo proveniente dai camini degli sparuti nuclei di case abitate della zona:sembravano residui dei fuochi d’artificio con cui si celebrano le ricorrenze speciali, tanto che immaginai una specie di comitato d’accoglienza in cielo, riservato espressamente a me. Gli alberi del bosco erano perfetti nelle loro forme e nella composizione che faceva da contorno al tragitto:uguali a quelli delle costruzioniLego o a quelli realizzati dai maestri di arte presepiale campana che adornano i presepi natalizi.
Il fitto del bosco era tinto di marrone, giallo e arancione, come coperto da una coltre di polverina rugginosa per via dell’autunno incombente e lungo il sentiero, al passaggio della jeep su grossi cumuli di foglie secche, si udiva uno scrocchiare cadenzato che ben si accompagnava all’andatura dondolante del veicolo. Mi sembrò di veder sgattaiolare qualche scoiattolo, probabilmente infastidito dai rumori molesti del SUV, e poi intravidi un’alce, volpi, alcune marmotte.
Abbassando il finestrino mi arrivò in pieno viso, forte come una sberla, una sferzata di aria inebriante che mi stordì i sensi:zio Benjamin indicò numerosi alberi di pino bianco e pino rosso, nonché le betulle gialle e fu allora che compresi il motivo della persistenza di quei profumi boschivi che, per due settimane, avrebbero dolcemente cullato i miei risvegli.
Quando arrivammo al cottage il sole stava tramontando e, scendendo dall’auto mentre ci accingevamo a raggiungere l’interno della piccola abitazione di legno, mi voltai a guardare i colori del cielo e del bosco che si proiettavano sulla superficie del lago: c’era una commistione di sfumature tutte perfettamente in armonia tra loro, come si fosse trattato di un disegno superiore, divino. Mi ritrovai, quasi commossa, a pensare allo spettacolo di grandiosità a cui i miei genitori, consentendomi di far visita allo zio, mi avevano permesso di assistere e all’entusiasmo con cui avrebbero condiviso le mie emozioni al rientro a casa.
Fino a quel momento determinate immagini mi sembravano appartenere solo alle riviste e ai documentari:era piuttosto singolare la circostanza di considerarsi parte integrante di uno scenario naturale di una bellezza tanto disarmante.
Il cottage era una specie di palafitta sospesa sul lago:c’era un piccolo molo a cui era attraccata la barchetta che lo zio usava per andare a pescare o semplicemente per spostarsi da una riva all’altra, una piccola zona relax fornita di comodissime poltrone – quelle che fanno dimenticare i problemi di schiena e di postura scorretta – e di un alloggiamento per godere di un piccolo fuoco esterno, c’era l’immancabile zona barbecue e anche l’amaca, tesa tra due pilastri del patio della casa che confinavano con il bosco.
Presto imparai a capire le abitudini di quella dimora: il bollitore, per esempio, grande e grigio, era sempre in funzione…per il caffè, per il tè, per la tisana e anche per le numerose camomille che bevevo io quando non riuscivo a dormire a causa del jet lag. Bisognava sempre chiudere le porte di accesso al cottage anche a seguito di brevi spostamenti all’esterno, onde evitare sgraditi incontri con animali più o meno feroci, tipo gli orsi. Quando ci si allontanava da casa era d’obbligo portare con sé un k-wayper proteggersi dai repentini mutamenti di temperatura o di meteo che in quei luoghi si registravano, essendo imminente l’arrivo dell’autunno.
Dormivo nel soppalco, io. La mia stanza era illuminata da un finestrone di forma rotonda che affacciava su una zona del lago un po’ appartata e scarsamente battuta dalle correnti tant’è vero che, a differenza dello zio che sapeva determinare il meteo da semplici movimenti di brezza sull’acqua, io mi svegliavo e vedevo tutto sempre abbastanza uguale. Anche se poi la verità era che, sul piano emotivo, ogni nuovo giorno era foriero di una specifica fonte di trepidazione, piacevole e inconsueta.
Trascorrevamo le giornate andando a pesca – peccato che io costringessi puntualmente zio Benjamin a ricollocare nel lago tutto il pescato perché non avevo il coraggio di mangiarlo – oppure visitando qualche località della zona; talvolta lo aiutavo nel disbrigo di piccole faccende domestiche e a fare ordine nel suo caotico magazzino pieno di oggetti stravaganti e sostanzialmente inutili all’umanità. Il cottage era sempre pieno di amici e di gente allegra, serena, festante:ci si divertiva con poco, non era decisamente un posto adatto alle persone scontrose e musone.
La sera, quando tutti rincasavano e in casa tornava a risuonare il silenzio, ci intrattenevamo accanto al fuoco a leggere o semplicemente a conversare, a raccontarci aneddoti di famiglia, a rivelarci piccoli segreti o a fare del sano gossip su qualche parente un po’ antipatico. Con lo zio si poteva parlare di tutto:durante quei giorni di vacanza ebbi modo di scoprire una persona spiritosa, a suo modo colta, curiosa e rassicurante,mai giudicante. Con lui non si correva il pericolo di essere fraintesi e non esisteva la preoccupazione di dover per forza intavolare conversazioni intellettivamente stimolanti. Se, per caso, coglieva un qualsiasi mio disagio nel fargli una confidenza, mi guardava con un sorrisetto malizioso e mi diceva: “Tutto qui????E io… che chissà cosa mi aspettavo di sentire…!Non ti preoccupare…i tuoi segreti sono al sicuro…al massimo posso andarli a raccontare a un castoro!” Poi rideva di gusto, sorseggiava la sua birra e guardava il cielo quasi a suggellare quel breve momento di condivisione e di serenità.
Chissà se, nella vita, gli era mancato un affetto stabile…chissà come sarebbe andata se avesse avuto dei figli:ci pensavo spesso quando lo osservavo muoversi nella sua tana e lo ascoltavo parlare di sé nel tentativo di percepirne gli umori, le idee, i principi. Di tutte queste cose parlava molto poco, faceva fatica, al punto che ho finito col dedurre che qualche delusione amorosa particolarmente cocente ne avesse condizionato la vita affettiva.
Ho sempre pensato, per la dedizione e la generosità con cui, durante la mia permanenza, si prendeva cura di me e delle mie esigenze, che sarebbe potuto essere un ottimo padre. Mi definisco una persona di poche pretese, abituata tanto alle comodità quanto all’essenzialità (avendo,peraltro, un breve passato da camperista) ma devo ammettere che lo zio fece di tutto, in occasione di quella vacanza, per farmi rientrare a casa più che appagata nei miei desideri e anche nell’assecondamento di qualche piccola follia.
Un giorno, mentre passeggiavamo nel bosco, gli chiesi: “Zio, pensi mai di mollare tutto e di tornare in Italia avvicinandoti a quel che resta della famiglia?…In fondo qui sei da solo e non credo che, data la distanza, il futuro ci offra moltissime altre occasioni per stare insieme”.
Lui mi guardò col solito sorriso, un po’ guascone, un po’ malinconico, e mi disse: ” Non è un discorso molto allegro ma sappi che ho già scelto il mio luogo di sepoltura su un poggetto del cimitero locale. Se rientro in Italia, devo litigare anche solo per trovare posto nella cappella di famiglia “.
Mi resi conto di aver fatto una delle mie solite gaffe e mi scusai, ma lui mi rifilò un pizzicotto affettuoso sulla guancia e mi spiegò che oramai considerava il Canada come suo paese d’origine:era andato via molto presto da casa e non aveva conservato legami di alcun genere né coltivava particolari interessi che potessero legarlo al nostro Paese.
Notai che si rabbuiava sempre quando gli si parlava del suo passato in Italia:anche in questo caso la mia convinzione era che ci fosse qualche episodio, a me oscuro, che lo avesse indotto a decidere di cambiare radicalmente vita. Essendo una persona piuttosto discreta, non ho mai affrontato l’argomento, in quei giorni.
Durante le due settimane trascorse a Mont Tremblant decisi di procurarmi dei ferri per lavorare a maglia e, con della lana procurata da una vicina di casa dello zio, gli confezionai di nascosto un paio di guanti. Ero fresca di apprendistato con mia nonna, sua sorella, ma sapevo solo lavorare il dritto, il rovescio e il rasato:realizzai dei guanti molto originali – per non dire orripilanti – che a me facevano tanto ridere perché erano la fotografia esatta della mia imbranataggine nel lavorare a maglia. Però, siccome erano fatti col cuore, sortirono un effetto insperato.
Quando glieli donai, il giorno prima del mio rientro in Italia, cominciò, con l’entusiasmo di un bambino e gli occhi semi lucidi, a girarseli tra le mani come se gli avessero affidato in custodia delle pepite d’oro. Li indossò definendoli bellissimi e mi abbracciò promettendomi che li avrebbe portati sempre con sé.
Tutto si poteva dire di zio Benjamin, fuorchè che non fosse un uomo di parola. E lo è stato, fino alla fine.
Poco dopo la sua dipartita, ho ricevuto una lettera di Frank, il suo amico più caro…quello che lo aveva accompagnato a prelevarmi in aeroporto.
In merito alle sue ultime volontà, mi ha raccontato che zio Benjamin aveva chiesto espressamente che i guanti che avevo confezionato lo seguissero nel suo ultimo viaggio insieme a un altro paio di oggetti a cui era particolarmente legato. Frank aveva personalmente provveduto in questo senso.
Ho appreso – e ciò mi conforta – che lo zio si è allontanato serenamente e senza sofferenze…nella discrezione, così come aveva sempre vissuto.
Non so se riuscirò mai a far ritorno a Mont Tremblant:di certo tante cose saranno cambiate da quel mio fatidico viaggio, ma sono sicura che il suo spirito aleggia sulle acque del lago e il caratteristico fruscio dei suoi passi – che avrei saputo riconoscere anche a occhi chiusi per tutte le volte che, precedendolo durante le escursioni nella vegetazione canadese, lo ascoltavo raggiungermi – risuona ancora tra gli alberi del bosco.
Di quella vacanza tanto spensierata e avventurosa ricordo ogni dettaglio. Colori, sapori, profumi che associo a precise sensazioni tattili e a lunghi sospiri, soprattutto quando rivivo dentro di me le emozioni di allora.
In un particolare momento della nostra tipica giornata canadese, nell’ora del crepuscolo, lo zio era solito invitarmi a raggiungerlo sul pontile perché, per effetto di una serie di magici fenomeni di dislivello termico, dalla superficie del lago si sollevavano nuvole di vapore talmente fitte da investirci completamente, condizionandoci la visuale.
Poi, improvvisamente, questa coltre impenetrabile di nebbia si dileguava e, sul lago, tutto tornava terso e limpido. Una sensazione di pace profonda precedeva di poco il calar della notte e noi,allora, accendevamo il fuoco nell’apposito alloggiamento e ci preparavamo alle nostre chiacchierate.
“Fai in modo che questo meccanismo di alleggerimento accompagni sempre i tuoi pensieri “ – mi disse una volta.
“L’annebbiamento dura poco:la nitidezza vince sempre. E il fuoco è un segnale preciso di risveglio. Questi luoghi me lo dimostrano ogni giorno!”
Era come dedicarsi a un rituale. Era il “nostro” rituale. E io no, non l’ho dimenticato.
La nitidezza dei pensieri…caro zio…quanto avevi ragione!
Quando penso all’autenticità di questa tua analogia, mi ci rispecchio pienamente, ti penso e sorrido con una smorfia un po’ guascona, un po’ malinconica:la tua.
Quella che mi salva sempre un attimo prima di fare una fesseria…però questo al castoro,ti prego, non glielo raccontare!
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
E’ un po’ come un oratore che dal pulpito predica bene ma razzola male. Eppure, è così: spesso raccomando i miei figli di leggere almeno dieci pagine al giorno di un libro, sapendo che migliorerà, e di molto, la loro vita, eppure i miei libri sul comodino spesso li devo spolverare o smettere di appoggiarci sopra la tazzina del caffè.
Ciò nonostante è innegabile: leggere libri è una delle abitudini più importanti per migliorare la propria vita.
Certo, scriverlo qui su un magazine online, denota un apparente conflitto di interessi, eppure mi sento di poter dire che è questa “abitudine” una tra i migliori modi per poter cambiare la propria vita in meglio.
Non parlo di leggere solo libri di crescita personale, cosa che in passato ho fatto in abbondanza, ma di spaziare su tutto lo scibile della letteratura: esplorare autori che non hai mai letto, generi ed argomenti che non hai mai approfondito, biografie o classici che sono immortali e che ti possono insegnare cose sorprendenti ed attuali.
Le migliori idee, i maggiori stimoli, spesso non provengono forse dall’applicare in situazioni quotidiane concetti noti da sempre?
Prova a farti questa domanda e rispondi senza mentire a te stesso: “quanti libri leggo in un mese?” , “Quanti giornali compro in edicola? “
Se vuoi davvero cambiare e migliorare le tue capacità dialettiche e le relazioni con le persone, devi permettere alla lettura di entrare nelle tue routine quotidiane.
Ho visto che i miei figli, ma sono sicuro che succeda a tutti i ragazzi adolescenti, sono ossessionati dal dover riempire ogni istante della loro vita. Sono certo che non hanno mai preso un quarto d’ora del loro tempo per riflettere o meditare.
Succede anche a te? A volte siamo presi dai nostri impegni ed effettivamente non ci accorgiamo che le giornate passano, e magari giriamo a vuoto e la sera ci rendiamo conto che abbiamo perso solo tempo. E se invece provassimo a prenderci un quarto d’ora ogni sera, o ogni mattina prima di iniziare la giornata per stare in silenzio, al buio, e provare a riflettere e indirizzare i nostri pensieri in senso costruttivo? Non è necessario, per meditare, seguire corsi specifici o trovare improbabili guru su Youtube, ma puoi iniziare creando momenti di “vuoto”, magari con una musica di sottofondo, e cercare di convogliare i tuoi pensieri all’interno di uno “scaffale mentale” e metterli in ordine.
Se devo dire qual’è una delle migliori cose da fare, tra queste direi sicuramente “camminare”. Ciò che apprezzo in questa pratica non sono tanto gli effetti sul mio corpo, quanto quelli sulla mia mente.
Quando cammini costantemente, metti in circolo una serie di benefici che aumentano la tua produttività ,la tua concentrazione e che influiscono in senso generale sul tuo benessere e sulla tua alimentazione.
David Le Breton, antropologo e sociologo francese, ha scritto molti libri sul camminare e sui “viandanti” moderni. Secondo Le Breton camminare è un modo di aprirsi al mondo: camminando è possibile viaggiare, conoscere posti nuovi, incontrare persone e guardare le cose con occhi diversi.
Ammetto che non sono un fissato della dieta. Non rinuncerò mai ad un piatto di pasta o ad una buona pizza. Eppure, se riusciamo ad introdurre piccoli miglioramenti al nostro modo di mangiare, sono sicuro che potremmo presto notare dei grandi cambiamenti e benefici per la nostra salute.
Attraverso una corretta alimentazione è possibile prevenire molte malattie croniche come l’ipertensione arteriosa, le malattie metaboliche e dell’apparato circolatorio, il diabete e alcune forme tumorali. Grazie ad una sana alimentazione, inoltre, è possibile proteggere l’organismo fortificando in prima battuta il sistema immunitario.
Non vado oltre perché non sono un dietologo nè un medico, e anzi ti consiglio di rivolgerti ad un esperto per evitare di affidarti alle tante idiozie che si leggono in rete su questo tema, e che possono portare a problemi gravissimi.
Jacopo Ciardi
Product Manager in diverse Palestre romane e da oltre 10 anni Personal Trainer.
Un passato da atleta agonista nel calcio e nel basket, pratico da diversi anni Calisthenics.
Amo tutti gli sport, specialmente outdoor, e cerco di trasmetterlo e condividerlo con la mia famiglia.
Lettore accanito, divoratore di romanzi e classici, orgogliosamente assente dai Social Media.
1969 S.H.A.D.O. – UFO, eros e tecnologia.
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di Redazione Online
Probabilmente la maggior parte dei fan dei vari STAR WARS e STAR TREK (e degli Spin-off , prequel e sequel ) non conoscono la serie che può essere considerata la prima, unica ed irraggiungibile in un epoca in cui la TV nelle case era ancora in bianco e nero, tranne rare privilegiate eccezioni.
Certo, bisogna avere oltre i 50 anni, oppure essere davvero dei cultori del genere,per ricordare ed amare UFO -SHADO ideata e prodotta in Gran Bretagna nel 1969 da Gerry Anderson.
La serie, a suo modo rivoluzionaria per temi e impostazione, fu una sorta di concept che servì in seguito alla successiva produzione di SPAZIO 1999 che ottenne altrettanto successo tra i fan di fantascienza.
Le marionette di Stingray e Thunderbirds (1964)
Ventisei puntate totali, evoluzione cinematografica delle marionette di Stingray e Thunderbirds (1964) il format si avvaleva di una fantastica colonna sonora del musicista inglese Barry Gray ed era ambientata nel futuro ,allora prossimo (1980) , con ambientazioni visionarie e per quel tempo avveniristiche.
La trama era semplice e lineare: siamo nel 1980, la Terra è minacciata da una razza aliena che rapisce e uccide gli esseri umani e li usa come ricambi per sostituire parti del loro corpo. Un’organizzazione militare altamente segreta viene istituita nella speranza di difendere la Terra da questa minaccia aliena. Questa organizzazione si chiama SHADO (Supreme Headquarters Alien Defense Organization) e opera da un luogo segreto sotto uno studio cinematografico. Oltre a gestire una flotta di sottomarini, l’organizzazione disponeva di una base lunare (Moonbase), nonché un satellite di allerta precoce che rilevava gli UFO in arrivo. Gli UFO potevano essere distrutti nello spazio dagli Interceptor , lanciati direttamente da Moonbase o da uno dei sottomarini.
Nessun super eroe nell’organizzazione, guidata dal Comandante Straker (interpretato sempre dall’attore Ed Bishop, sia nella fiction, come nei film realizzati dalla serie per il cinema) ma persone normalissime, quasi degli impiegati , con tutte le caratteristiche delle persone comuni, con annesse le loro fragilità, paure e vite normali.
La caratteristica particolare era data dal fatto che la natura e le origini degli Alieni invasori non era mai svelata, fatta eccezione per alcuni indizi lasciati qua e là nelle varie puntate. Non si trattava comunque di Rettiliani o umanoidi grigi, ma persone del tutto simili a noi, fatta eccezione per il fatto che vivevano immersi in una soluzione liquida all’interno delle loro tute, il che dava loro un colore verdognolo.
In linea con i tempi per quanto riguarda la rivoluzione sessuale che in quel periodo modificava i tradizionali codici di comportamento, il look del personale della Base Luna aveva forti ed esplicite componenti erotiche, un perfetto mix misto tra lo stile Swinging London e quello che si pensava fosse l’abbigliamento del futuro.
A rappresentare questo aspetto affatto secondario nella serie, il character del Luogotenente Gay Ellis, interpretato dall’attrice e modella inglese Gabrielle Drake, esempio fulgido di bellezza britannica del periodo: personaggio, disincantato e disinibito, caschetto di capelli viola e abito argento con minigonna d’ordinanza, comune a tutte le soldatesse della base lunare della S.H.A.D.O.
Malgrado ci fossero stati precedenti illustrissimi in campo letterario e cinematografico, mai un simile prodotto con un simile soggetto era approdato ad una televisione generalista e quando questo accade, fu una grossa novità. Gli alieni di “UFO” erano, infatti, malvagi, determinatissimi, grandi conoscitori dei nostri punti deboli, militarmente e politicamente parlando, e solo con altrettanta determinazione e ferocia sarebbe stato possibile contrastarli.
Arrivati sulla terra dal loro pianeta morente per mezzo di piccole astronavi, velocissime, a forma di disco rotante, una sorta di trottole sibilanti che emergevano dall’oceano, dove avevano costruito delle basi sottomarine.
Chi conosce questa serie, perché l’ha vista a suo tempo in Tv o perché l’ha saggiamente recuperata in Dvd (ci sono in commercio due meravigliosi cofanetti con le versioni integrale di tutti e 26 gli episodi, restaurati dai tagli fatti a suo tempo dalla nostra RAI nazionale), non può non apprezzarne le molteplici intuizioni e previsioni in ottica tecnologica.
Le numerose innovazioni ipotizzate, di fatto, hanno anticipato la realtà che viviamo oggi. Il cercapersone, il cellulare, l’aria condizionata in auto, i Personal Computer, ma soprattutto Internet (il progetto ARPANET, nacque proprio nel 1969) che ha come data di nascita ufficiale il 1983!
Quale che sia l’argomento di discussione, quando l’oggetto del contendere si barcamena tra bene e male (nel senso più ampio possibile), la risultante dell’analisi è sempre una questione di percentuali. E come in ogni ricetta che si rispetti, quelle statistiche diventano la rappresentazione grafica, il ritratto immediato di qualcosa che, in quel contesto specifico, non va.
Che sia un malcostume, una propensione al reato, una particolare inclinazione alla violenza, la tendenza all’assenteismo o qualsivoglia altra accezione comportamentale negativa, proveniente quindi dal lato oscuro dell’animo umano, è sempre una questione di numeri e statistiche, riguardando solo una parte del tutto (la categoria) e mai il tutto senza eccezioni.
Se non altro perché, la generalizzazione, è sbagliata in partenza, disconoscendo, o non prendendo in esame, tutte le variabili e le infinite sfumature, quelle luci e ombre e quei colori in chiaroscuro che ci rendono unici e irripetibili.
Ma quando si parla di percentuali di nefandezza, attribuibili ai membri di una determinata categoria, sia essa professionale, etnica, ideologica, sessuale o religiosa, ecco che l’oggettività del dato statistico, lascia il posto alla percezione soggettiva che, sviluppata dalla nostra mente (ognuno per sua coscienza e cultura) assume i contorni – errati, mi ripeto – di una caratteristica pregiudizievolmente insita in ogni appartenente alla categoria, come se l’atto stesso di farne parte, ne garantisca il contagio, la permeazione del negativo all’interno di un ecosistema individuale altrimenti puro.
E volendolo anche ammettere, questo ecosistema individuale altrimenti puro, la questione delle percentuali torna in auge sottolineando, dati fattuali alla mano, come si tratti, sempre e comunque, di una esigua minoranza a cozzare con l’onestà intellettuale, il rispetto per la legge e il senso del dovere, insito (esso sì) nella maggior parte dei suoi simili.
Dei colleghi, ad esempio.
È sempre una esigua minoranza, quella degli insegnanti fannulloni e ignoranti, degli impiegati pubblici assenteisti e svogliati, dei medici che prescrivono tonnellate di farmaci per lucro personale, degli africani che spacciano o dei rumeni che rubano. Perfino dei politici che prendono le mazzette, considerati la totalità dell’emiciclo o delle amministrazioni locali, ma che, in realtà, sono sempre una piccola percentuale dell’organico. Anche degli italiani mafiosi, che dalle generalizzazioni nessuno si salva.
L’acqua pulita è trasparente per definizione. Ed è quella singola chiazza di petrolio, a saltare agli occhi, nonostante l’immensa differenza quantitativa. È sempre e solo un’infima percentuale del tutto, a volersi scomodare con le statistiche che, fredde e imparziali, disegnano una realtà ben diversa da quella percepita, fatta di evidenze dimostrabili, al contrario della percezione che punta il dito contro il singolo, per additare una collettività intera.
Ma è proprio nella percezione, il problema più grave. È a causa del nostro intimo sentore, ben pasciuto al punto di divenir convinzione o verità assoluta, la prova provata, la pistola fumante, il dato incontrovertibile che assurge al poco nobile ruolo della vox populi. Fino a divenir leggenda, anche se riguarda due soggetti su ventimila.
È la mela marcia a far scartare la cassa intera.
Eccolo il problema. Perché l’acqua pulita si dà per scontata come le mele buone, ce la si aspetta, la si pretende, al punto che nemmeno la si nota più. Un bicchiere d’acqua pulita è pieno di un liquido invisibile, perché spesso la pulizia, anche quella intellettuale, come l’onestà, è invisibile agli occhi, sommersa dai luoghi comuni, spesso tendenziosi e faziosi, al culmine della loro sterile ignoranza.
Ma proviamo a mettere una goccia d’olio in quel bicchiere di acqua pulita, fresca e trasparente ed ecco che, come per un nefasto incantesimo, quel bicchiere perde tutte le sue qualità, al punto da essere scartato. Una goccia d’olio in un intero bicchiere d’acqua è una parte quasi infinitesimale del tutto, eppure, come nel caso del singolo che pecca, ha la capacità di sporcare ciò che tocca, di renderlo sgradevole, solo in funzione di una comune appartenenza.
Non è la categoria a implicare caratteristiche buone o cattive, bensì il singolo, che il bene e il male si porterebbe dietro (e dentro) anche cambiando categoria o lavoro.
Ed ecco che quindi non esiste la categoria degli assenteisti, o dei politici corrotti. Esistono solo dei singoli, che sarebbero assenteisti e corrotti anche in contesti ben diversi. Perché il problema non è nella categoria, nell’etnia, nella preferenza sessuale, ideologica o religiosa, bensì nella società civile che, in parte marcia come i corrotti additati, pare aver smarrito il lume della retta via, in un sistema che permette determinate nefandezze e nell’accessibilità al malcostume.
Ma non è una rondine a far primavera. Nemmeno uno stormo.
L’occasione fa l’uomo… uomo! Che ladro, eventualmente, lo era già, ben prima di cogliere la mela del peccato. E tanto la società civile, quanto il sistema (inteso come organizzazione e amministrazione) è fatto di singoli, gli stessi singoli che sarebbero una goccia d’olio nel bicchiere, sia esso d’acqua, di birra o di vino.
Perché la nostra mente generalizza per difesa, per sentirsi migliore in questo mondo di ladri (come canterebbe Venditti) omettendo come lo sporco connoti il singolo, identificandolo con fermezza univoca, mai l’intera categoria. Ed è la somma dei singoli a creare gli stereotipi e le cattive abitudini che, nel sentir di popolo, tutto tritano nello stesso calderone, senza più cogliere il bello e il pulito presente in ogni cosa. Anche nella parte sana di una categoria, quella che salta meno agli occhi, ma che rappresenta la più grande maggioranza.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Ovvio. Sono fatti per piacere. Sono un prodotto. Come un pacchetto di patatine. Sapidità, croccantezza, grassi: chi lo produce sa il fatto suo e ci mette dentro tutte quelle cose che ti terranno con le mani dentro al sacchetto anche se non hai fame, anche se sai che fanno ingrassare e il loro apporto nutrizionale è irrilevante.
No. Ovvero: forse.
È vero che ci sono tutti gli ingredienti per tenere lo spettatore davanti al video il tempo necessario. Montaggio: le scene durano un secondo meno del giusto, ti lasciano col desiderio di vedere meglio qualunque cosa tu stia vedendo: una villa sul lago, una strada di Milano, un interno. Fotografia: nitida, lucente. Ti lascia un ricordo di rosa e di azzurro. Di cameretta per bambini. Di città a misura. Niente di troppo moderno né di troppo antico. Giusto. E di giusta distanza, anche. La telecamera non invade con primi piani, né si allontana con campi lunghi. Se sceglie, sceglie di non scegliere. Di non interferire. Sceneggiatura: sapiente. I fili narrativi si alternano e si intrecciano, senza stancare. Il jingle vintage, in stile telefilm anni ’80, impacchetta il tutto come quelle belle scatole rosse di Cipster o di Ritz che ci portavamo nelle gite scolastiche e in cui finivano cento manine appiccicose (poi ‘pulite’ sui sedili dei pulman).
Cioè, la serie amplifica proprio il modo in cui Ferragnez hanno costruito la loro immagine negli ultimi due anni.
A misura di Chiara. Rassicurante. Classica, a suo modo.
Bionda.
The blonde family.
Ma l’ingrediente più giusto sono loro: i personaggi. Croccanti.
Sono ricchissimi, giovani, belli e di successo. Quindi non proprio ‘personaggi’. Perché il ‘personaggio’ deve avere qualcosa da raccontare.
E che possono raccontare?
Serie analoghe, tipo i Kardashian, hanno giocato con ingredienti da junk food: pettegolezzi, litigate, ostentazione del lusso, vacuità estrema. Decine di altri prodotti hanno seguito l’esempio fino a saturazione meritando la messa alla berlina di tutto l’ambiente finto-vip vero trash in Don’t look up.
Ferragnez fa una scelta (necessariamente) diversa.
Va a scavare nella psicologia dei personaggi e trova momenti di verità.
[Ora, bisogna dire che lo snobismo assoluto di quelli che la ‘cultura’ l’hanno appiccicata in fronte come un tatuaggio fake, di quelli che vanno via con l’acqua, nega in genere che l’interiorità possa albergare all’interno di jeans strappati ed essere espressa con eloquio non propriamente vario e padrone di tutti i modi e tempi verbali. E bisogna aver frequentato molte aule scolastiche – da adulti – per sapere che ovviamente non è così. Ha la stessa ricchezza interiore di un pensoso critico cinematografico in giacca di tweed un diciottenne tatuato o una bionda che appella tutti con: “amore!”]
Certo, per giustificarla, sia la ricerca che la trouvaille psicologica, bisogna – nei Ferragnez – che ci sia lo psicologo e il set adatto (come se senza il professionista ad hoc, non si fosse in grado di auto-scavare dentro di sé) ma comunque…
Momenti di verità. Verità che affiorano in mezzo a tutti quegli ingredienti ‘blonde’ che abbiamo detto prima. Verità che la cinepresa non capisce e la regia non traduce. Lasciate grezze.
Federico che è incapace di godersi il successo di Fedez. Ci arriva attraverso troppa insicurezza, troppi errori, troppi dubbi. E quando arriva, è già stanco. Non si fida. Né di sé stesso né dei propri risultati. Li sente scarsi. È impacciato nell’universo blonde di Chiara. Vorrebbe a volte essere altrove. Si presta a parlarne con lo psicologo, si sforza di rendere accettabile, positiva, presentabile la sua (in)sofferenza. Parla del suo essere stato bullizzato. Ma lo sforzo di normalizzazione resta.
Come se chiedesse alla telecamera e a noi spettatori di confermargli che sì, è ‘normale’ sentirsi così!
Ansiosa, a volte, e spaventata dalla sofferenza psicologica del marito. Ma un’ansia fattiva e laboriosa. La sera di Sanremo manda il figlio a dormire dai nonni per concentrarsi nello spingere i suoi followers a votare il marito. Come darle torto? Avrei fatto anch’io così.
Arriva seconda.
“Come ti senti quando lui è così?” – chiede lo psicologo (e allude ai frequenti momenti down di Federico).
“Come quando avevo quattordici anni” – risponde Chiara di getto (e la telecamera non va ad indagare con un primo piano, a riprova della casualità).
Cioè – si scopre – alle prese con la separazione dei genitori, cioè sgomenta nella scoperta della fragilità altrui, lei che sembra fatta davvero di un’altra sostanza. Non molto terrena. Inconsapevolmente celeste. Laura e Beatrice.
Troppa. Per Federico, ma un po’ per tutti. Infatti, gioca spesso di rimessa. Attenta a non urtare gli altri con troppa perfezione. Si inventa qualche insicurezza. Capisce che serve.
Finto? Vero? Ben confezionato? Non saprei.
Tenero. Come lo sono a volte i ragazzi (e anche gli adulti) quando scoprono che c’è il mondo di fuori e c’è il mondo dentro e che quel mondo è complesso e diverso in ciascuno; e, una volta trovata questa loro e altrui interiorità, se la rigirano fra le mani perplessi, senza sapere bene cosa farne.
Nell’attesa, fanno una foto e la postano su Instagram.
Scrivo di getto, di ritorno da un viaggio ipnotico e catalizzante dentro me stessa, nel corso del quale mi sono imbattuta nuovamente, dopo più di venti anni, nella versione complementare della mia personalità:quella del tutto sconosciuta, a me per per prima, la zona d’ombra che resta irrimediabilmente nascosta dietro una parete puntellata di spunti, a tratti ironici, a tratti seri e profondi che mi sono sempre illusa di riuscire a dosare in maniera appropriata nella realtà di tutti i giorni, in modo da gestire le relazioni interpersonali senza farmi troppo male.
Uso il verbo illudersi perché, facendo un breve bilancio delle mie esperienze di vita, devo ammettere che l’essere parecchio intransigente e rigorosa, anzi rigida, mi ha indotto a ergere muri tra me e il resto del mondo in maniera quasi meccanica, ricorrendovi in maniera addirittura aprioristica, senza neppure fare capolino, ogni tanto, con la punta del naso da dietro quel muro, solo per intravedere la minaccia da cui dovessi difendermi volta per volta. Sempre che di minaccia si trattasse, ovviamente.
Se potessi paragonare la mia strategia di vita ad un modulo tattico calcistico direi senz’altro che sono la regina della difesa “a catenaccio” il cui imperativo categorico è:”Non prenderle di santa ragione!”. Punto.
Pensavo di essermi liberata un bel po’ di anni fa della mia versione euforica, adolescenzialmente instabile ed esuberante. L’avevo salutata a cuor leggero, senza voltarmi più indietro: era la parte irrisolta e frammentata ca van sans dire…l’immagine che non si vorrebbe vedere neppure nel più deformante degli specchi.
E infatti, durante la fase più acuta del mio viaggio interiore dell’ultimo mese e per molte settimane consecutive, ho letteralmente smesso di osservarmi allo specchio: quando capitava di imbattermici, distoglievo lo sguardo e lo abbassavo meccanicamente anche perché, a causa dei disturbi del sonno nel frattempo subentrati, la differenza tra i miei lineamenti e quelli di uno zombie era diventata praticamente nulla. E mi vedevo alterata.
Del resto, lo specchio ci costringe al confronto con tutto ciò che resta inespresso dentro e attorno a noi:e io ho cominciato a non fidarmi più neppure di me stessa, tale era la sensazione di sentirmi sotto una gigantesca lente di ingrandimento che mi generava solo tanto disagio.
Quando si parte per questo tipo di viaggi interiori, il rischio è non poter pianificare il quando e il come del rientro a casa, perché non siamo tutti strutturati alla stessa maniera, nel senso che abbiamo tempi diversi per capitolare dinanzi all’esigenza di ricevere aiuto e non sempre, rispetto alle necessità emotive, ci ritroviamo supportati da persone intuitive e intelligenti.
Capita che nella vita di ognuno di noi si affaccino delle presenze, delle conoscenze, portatrici di affinità, di spunti motivazionali e incentivanti rispetto alle nostre attitudini (anche quelle latenti), che riescono a scuoterci perché toccano delle corde dell’anima specifiche e delicate, tali da mandarci completamente in tilt. Quando ciò avviene, i famosi baluardi eretti a protezione del nostro IO si sgretolano magicamente e appariamo vulnerabili, indifesi e implumi come uccellini. Certi tipi di interazione scatenano un senso di euforia e di estatico piacere, un’allegria smodata, imprudente, tipicamente adolescenziale, appunto, in cui ci si crogiola alimentando una forma di pericoloso distacco dalla realtà che può creare dipendenza e autosuggestione. Vi sono parti della nostra emotività ancora inespresse e oscure che, opportunamente stimolate, ci regalano la convinzione di aver trovato riparo all’insoddisfazione che nutriamo nei confronti di alcuni aspetti della realtà quotidiana (lavoro, famiglia, amicizie, priorità). Perchè, è inutile prendersi in giro, la frustrazione esiste ed è quella che ci impedisce di credere che esista la felicità; anzi direi quasi che, il più delle volte, nel definire la felicità come un’utopia, dimostriamo di conoscere molto meglio il significato dell’espressione frustrazione.
Dunque, ci abbarbichiamo a un cuore con la pretesa (a tratti assurda) di voler costruire, col tempo, un legame…è un desiderio che si sviluppa in modo sano, puro e privo di doppi fini almeno fino a quando non ci porta a voler sublimare quel legame, concependolo come assoluto e assolutizzante nella nostra vita, sostituendolo al nostro vero patrimonio di affetti, punti di riferimento e modelli di vita.
In questa attività di rimpiazzo si concretizza il processo di allontanamento dalla realtà e quel ritrovarsi a mettere improvvisamente in discussione ciò che, fino a quel momento, ciascuno di noi ha costruito, con perseveranza e sacrificio, è decisamente annientante. In fondo fare una conoscenza brillante è esaltante: chi potrebbe affermare il contrario?Peraltro,tutto prende le mosse da un’intesa, da una serie di esperienze arricchenti ed emozionanti che, in una relazione interpersonale, ci fanno sentire quantomai vivi e felici. Sì, non è affatto facile accettare le conseguenze di questo meccanismo disfunzionale che, peraltro, fa parte delle reazioni inconsce, anche perché, privarsi di una forma di piacere assimilabile a quello carnale – per non dire sessualmente rilevante – significa autopunirsi e farsi tanto male. E si sa quanto sia importante per la corretta sopravvivenza della psiche avere una giusta regolazione del tono dell’umore.
Da un certo punto di vista, nella casistica di cui parlo, possono farsi rientrare anche i legami nati ex novo attraverso i social network. Il fatto è che, a volte, la realtà che viviamo è così carente e avvilente da indurci a investire innumerevoli e altissime aspettative nelle cosiddette “relazioni terze”. Cosicchè, il fallimento di una relazione terza, per scelta nostra o della controparte, viene vissuto con un carico di disperazione abnorme che finisce con l’avere ripercussioni ingiustificate sulla nostra realtà, condizionandoci nelle energie, nell’umore e nelle scelte di vita.
E’ importante ascoltarsi e coltivare con passione i propri interessi ma se il prezzo da pagare è rifugiarsi in un mondo ideale in cui vi sia spazio solo per atteggiamenti celebrativi, sviolinanti e complimentosi a oltranza oppure forzatamente ironici, è bene trovare il coraggio di dire BASTA, di riparare agli errori commessi, di rimodulare la relazione (non necessariamente di troncarla, in assenza di validi presupposti) e di ricominciare ad avere degli scambi moderati e finalmente sani.
Mi reputo fortunata per la durata relativamente breve del viaggio che ho intrapreso. Sono tornata subito indietro grazie anche ad una straordinaria capacità – che persone esperte mi dicono non appartenere ai più – di fare autocritica e di descrivermi dettagliatamente alla luce dei miei errori di percorso e dei miei innumerevoli, rocamboleschi scivoloni. Ho scoperto di avere delle esigenze ancestrali irrisolte legate all’infanzia che hanno favorito certe forme di dipendenza affettiva (la definisco tale anche se non sono certa di utilizzare il lessico adatto) e sto lavorando su questi e su altri gap attraverso i quali recupererò certamente quella parte che sfugge…sfugge a tutti ma principalmente a me.
Nel frattempo cerco con serietà e dedizione (che fortunatamente mi sono sempre appartenute) di recuperare relazioni, occasioni perse, tempo da dedicare ai miei interessi, di ritrovare sorrisi e affetti perché ho la sensazione che questa breve crisi, durata in realtà solo poche settimane, mi abbia lasciato dentro un vuoto incolmabile.
Mi piace pensare che il 2022 possa essere finalmente consolatorio e rivelatorio: per me e per chiunque ne abbia bisogno. Dedico i miei pensieri di questo momento a tutti quelli che hanno qualcosa da farsi perdonare e da perdonarsi…sarebbe proprio bello che ci riuscissero nell’anno che si appresta ad arrivare. Dopo due anni estremamente complicati, peraltro.
Non è facile trovare i cuori giusti a cui aggrapparsi ma possiamo lavorare per rendere giusto il nostro cuore e non doverci per forza abbarbicare ma solo appoggiare delicatamente a un’altra persona senza turbarla, soprattutto. Questo è il mio punto di vista. E questo è il mio impegno per il nuovo anno.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
La radice di ogni salute è nel tuo cuore.
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“La Suprema Condotta è l’Assenza di Sforzo” – Tilopa
Sembra banale dirlo ma è vero: migliorare la nostra vita, dunque vivere meglio, nasce sempre ed esclusivamente da una nostra decisione. E questo a prescindere dal contesto ambientale e sociale in cui ci si trova. Quindi si tratta esclusivamente di prendere una decisione ed essere coerenti nel metterla in pratica. Il problema è che spesso non sappiamo bene quale decisione dobbiamo prendere.
Naturalmente non esiste una risposta unica e risolutiva a questa domanda, ma penso che esistano diversi modi di approccio, che questi siano alla portata di tutti, e che dunque noi tutti siamo in grado di migliorare la qualità della nostra vita.
Non ce ne accorgiamo, ma durante la nostra quotidianità svolgiamo la maggior parte delle nostre attività in modalità “automatica”. Si chiamano abitudini e sono trappole potentissime. Possiamo invece sostituire tutte le abitudini (sia quelle che riteniamo “buone” che quelle che riteniamo “cattive”) con azioni consapevoli.
Per fare questi piccoli cambiamenti, però, è necessario prendere una decisione.
Le parole disciplina e autodisciplina hanno assunto ormai una accezione negativa e si associano a questi termini sensazioni negative, ad una rinuncia, alla fatica, ma io penso che non sia così.
Proviamo a sostituire la parola DISCIPLINA con la parola CONSAPEVOLEZZA e riusciremo a trasformare le abitudini in azioni, lasciamoci stupire ogni volta che le pratichiamo, facciamole con attenzione con consapevolezza e soprattutto appassioniamoci, stupiamoci. Abbandoniamo l’illusione del controllo. Cosi vivremo una vita senza sforzo.
Rifugiarci nelle nostre abitudini ci da una piacevole (effimera e brevissima) sensazione di sicurezza, ma come un muscolo sempre immobile si atrofizza, così la nostra mente, senza nuovi stimoli, lentamente si spegne. Oggi si dice spesso “uscire dalla propria zona di comfort”. A me non piace molto questo modo di dire, molto abusato, e io credo fermamente che un modo ottimo per migliorare la propria vita, sia quello di prendersi dei rischi, che spesso sono solo frutto della nostra mente, ma che ci permettono di mettere la testa fuori dal recinto che ci siamo (in)consapevolmente costruiti, e comprendere che la ricerca di una sicurezza (illusoria, come tutte le cose), è in realtà una trappola pericolosa.
Ad esempio, possiamo studiare una nuova lingua, che non sia necessariamente tra quelle più usate. Perché dico questo? prima di tutto perché ti permette di tenere in allenamento la tua mente. Se studi ad esempio il cinese, che è una lingua matematica, oltre ad avere stimoli nuovi dovendo affrontare qualcosa di davvero differente, il tuo cervello ti ringrazierà. Ma questo vale in generale per qualsiasi altra lingua. Poi, ti permette di instaurare nuove relazioni, conoscere luoghi e persone nuove, e non sentirti del tutto fuori dal contesto, aprendo sicuramente nuove opportunità di lavoro o studio.
Ama incondizionatamente gli animali. Gli animali hanno la tendenza ad “educarci”, a far emergere i migliori lati della nostra natura. La semplice pratica di accarezzare un cane, ad esempio, tende a darci sollievo, a ricollegarci al nostro corpo e a calmare le nostre menti inquiete. E quando accarezziamo il cane di un’altra persona, o questa accarezza il nostro, solitamente creiamo un contatto, una comunità.
Pratichiamo Yoga. Gli effetti di questa pratica sono innumerevoli, sia sull’aspetto fisico, sia su quello mentale. Le posizioni allineano corpo e spirito, grazie al lavoro di respirazione, e permettono di prendere consapevolezza di sé e quindi un migliore autocontrollo del proprio stato emotivo. Praticandolo regolarmente, ti sentirai in maggiore sintonia con Te stesso.
Respira, medita. Chi pratica regolarmente la meditazione di certo già ne conosce i molteplici benefici. La meditazione aiuta a ridurre i livelli di stress, rafforza la salute mentale, offre sollievo ai dolori cronici, migliora la qualità del sonno, dona serenità, consente di acquisire una maggiore consapevolezza. Ad un livello più profondo, la meditazione è una porta verso le nostre radici, il nostro essere più intimo e profondo.
Scrivi. Ho sempre creduto che saper scrivere sia un potere enorme. Poter leggere i propri pensieri, è una forma di controllo della nostra mente che offre enormi potenziali che se sfruttati in modo costruttivo, aumentano la qualità della nostra vita. Un pensiero scritto e più potente di un pensiero che sfuma nel momento stesso in cui prende forma. Tenere una sorta di diario, nel quale appuntare una serie di pensieri, ragionamenti, programmi, da consistenza al tempo che gli hai dedicato.
Impara ad ascoltare. Questa è una enorme opportunità di crescita, spesso sottovalutata, perché saper ascoltare ti permette di imparare attraverso le esperienze degli altri. Condividere quello che fai e ciò che sei ci aiuta ad essere migliori e migliorare il mondo in cui viviamo.
Infine, goditi i momenti. Quando è stata l’ultima volta che ti sei davvero goduto un momento, il sole caldo sul viso, un paesaggio, un libro, della musica o un podcast? Se riesci a riempire questi momenti, e prenderne consapevolezza, diventeranno parte del tuo bagaglio di esperienze, e contribuiranno alla qualità della tua vita.
Quando Daniela mi ha contattato per presentarmi il suo libro, ammetto che per me non è stato facile accettare.
“Per voce tua” affronta il delicato tema dell’aborto e, fino ad adesso, il solo pensiero mi faceva provare un dolore insopportabile.
“Mi chiamo Anna e ho abortito“.
Anna è madre, ormai, di un uomo, e circa venti anni fa ha interrotto la sua seconda gravidanza. Da quel momento la sua vita è cambiata e ha dovuto far ricorso a vari metodi per fronteggiare i sentimenti legati alle conseguenze della sua scelta nonostante sia riuscita a crescere il figlio nel migliore dei modi e sia diventata una professionista affermata nel suo lavoro. Qualcosa non la fa stare bene, la donna non riesce a dare un nome al suo stato di malessere ed ella sente di non meritare più niente.
Gli strumenti utilizzati dalla protagonista per cercare la pace in se stessa possono essere interessanti anche se calati in altri contesti di crescita personale.
Anna combatte e non si arrende e mentre lotta per una pace interiore non si dimentica di tutte le donne che si sono trovate, o che si stanno trovando, a vivere la stessa esperienza. È proprio l’altruismo di Anna a lanciare il forte messaggio che una donna deve rispettarsi sempre, anche quando decide di interrompere la propria gravidanza.
“Per voce tua” è un libro scritto da una donna per le donne: è una carezza all’anima di chi sta vivendo, o ha vissuto, il lutto legato all’aborto.
Dopo aver letto “Per voce tua” e aver vissuto la delicatezza con la quale Daniela Montanari affronta questo delicato tema è chiaro quanto questo argomento sia tutt’oggi ricoperto da un velo di ipocrisia.
L’aborto è concesso dalla legge ma chi supporta colei che ne fa ricorso? Soprattutto quando non ci sono patologie a carico del feto o quando la gravidanza è sorta a seguito di violenza?
Dopo aver letto il libro, risulta chiaro che una donna ricorre all’aborto perché non ha altra scelta, e se prima veniva spontaneo muovere delle critiche, seppur velate, da ora in avanti verrà soltanto istintivo provare una forte vicinanza a chi ha fatto questa scelta e anche i bambini mai nati, fisicamente, saranno ugualmente figli delle loro madri e di tutte quelle persone che le supportano. L’amore non deve avere confini e anche in situazioni così estreme deve trovare la forza di manifestarsi.
Alla fine del libro la scrittrice persevera con la propria generosità e lusinga il lettore con un regalo che conferma la completezza di questa donna piena d’amore per se stessa e per gli altri.
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
La libertà di informazione è, bene o male, garantita da costituzioni e da leggi.
I media che ricoprono il nostro pianeta, con le loro reti, si dichiarano liberi, ma lo sono davvero, oppure sono in catene? Non è, di fatto, ipotizzabile una rivoluzione democratica, né una politica degna di tale nome, se non si affronta la situazione complessa della comunicazione.
Parlare di punto di non ritorno potrebbe sembrare eccessivo, eppure il nostro Paese si trova, oggi, ad un livello assolutamente insufficiente, se parliamo di qualità e libertà dell’informazione.
Senza una vera libertà in questo settore nevralgico, non ci può essere vera democrazia.
Naturalmente, non stiamo parlando di mancanza di libertà di espressione o di parola, condizione propria di regimi totalitari che, grazie a Dio, non ci riguardano, ma i vincoli sono sempre più virtuali, invisibili, tali da condizionare il pensiero comune, indirizzandolo.
La libertà di espressione, così come la conosciamo oggi, in questa forma, è il frutto di lunghe lotte, che hanno assicurato ai giornali e ai media di poter stampare, trasmettere, informare in modo (apparentemente) libero.
Certo, questa libertà è garantita dalla Costituzione e dalla Legge, ma sempre di più in una forma simbolica che, con il tempo, si è andata modificando, rimodellandosi su esigenze editoriali e di partito.
Oggi, la platea di strumenti informativi è impressionante. A volte, può sembrare anche eccessiva, vista la quantità di dati a disposizione e come questi vengano modificati a proprio uso e consumo. Ma se ognuno di questi strumenti è anche in piccola parte “non libero”, la somma totale, poi, diventa preoccupante, perché si rischia di cadere in un conformismo illiberale.
L’opinione pubblica è spesso considerata dominatrice e onnipotente, giudice ultimo, senza possibilità di appello. Ma, in effetti, e allo stesso tempo, questa è quotidianamente condizionata, in modo subdolo, dunque possiamo certamente dire che è manipolata. Questo accade perchè esiste una condizione di oligopolio con una concentrazione limitata di grandi realtà editoriali, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche, che, essenzialmente, sono rese inermi da questo strapotere.
Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che vengono dichiarati “protagonisti”, in realtà sono ridotti a soggetti passivi ed inconsapevoli.
Non hanno alcun diritto.
I risultati della cosiddetta “libertà d’impresa mediatica” sono insignificanti.
L’opinione pubblica, il lettore, il cittadino, si difendono come possono e arretrano: abbandonano progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiaciono a quelli più “facili”. Vanno sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e si consegnano inerti e inoffensivi di fronte alla tv, assimilando improbabili notizie che gli si accavallano nella mente in un turbine di realities, “Grandi Fratelli”, serie tv e news accomodate.
In una società che rivendica (giusti) diritti per qualsiasi minoranza e categoria, nessuno ha mai pensato di garantire i diritti dei lettori e ascoltatori?
Il “lettore”, inteso nel senso più ampio del termine, oggi, di fatto, non ha sufficienti garanzie sul prodotto che acquista e quelle poche che ha sono disattese.
Eppure, questi sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica.
Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.
Purtroppo, non sono riuscita ad andare oltre i 36 minuti, nella visione di Don’t look up, il film dell’anno.
Leonardo Di Caprio e Meryl Streep soliti mostri di bravura non sono bastati a trattenermi. Neanche Jennifer Lawrence, che pure mi piace molto e che nel film funziona un po’ come certi personaggi pirandelliani: l’unico sano in un mondo di matti. O come la bambina vestita di bianco nella Grande Jatte di Seurat, che ci guarda fra dame senza volto che pescano nel fiume col vestito della festa, scimmiette al guinzaglio e cani in libertà.
Il surreale. Quando cioè si dà veste realistica a qualcosa che non lo è, reale, con l’intento chiaro di ingrandire, enfatizzare, evidenziare un fenomeno per portarlo all’attenzione. Si prende qualcosa di irreale e lo si porta nella realtà, per fartelo guardare meglio e farti capire che tanto irreale non è. Perché si suppone che prima non lo vedevi.
Confuso com’era.
(La fine di una classe sociale e di un intero passato, in Seurat).
E che cos’è che dobbiamo vedere? Il modo malato in cui la nostra (ho dei dubbi su ‘nostra’: c’è molta american way of life), la ‘nostra’ società reagisce all’emergenza. Siamo stupidi. Non capiamo che le vicende sentimentali dei personaggi dei reality, gli scandali dei politici, le elezioni di midterm sono poca roba.
In confronto alla vita stessa sul pianeta terra.
Perché è di questo che si parla: di un evento sicuramente distruttivo dell’intera umanità di cui nessuno vuol sentire parlare.
E allora, ovvio, lo spettatore è preso dall’ansia di vedere trionfare il bene sul male: la preoccupazione per la vita del pianeta su quella per la rottura sentimentale fra due pseudo divi dei social. E mentre è preso da quest’ansia e capisce che è nelle mani di una dottoranda – perché il regista ha già fatto fuori, come credibilità, sia l’esercito che l’accademia – è però anche confortato dal sapere che no, lui o lei, lo spettatore o spettatrice (lo spettatore è uno che è informato, lo sa che il maschile non è inclusivo!) sicuramente reagirebbe in un altro modo! Se nello studio ovale ci fosse lo spettatore/spettatrice col cavolo che li avrebbe fatti aspettare ore su un divanetto, i due scienziati! Pagando pure venti dollari due snack e mezza acqua!
E con questo la trappola, per quanto mi riguarda, è già scattata: “cara spettatrice” – stavolta il regista parla con me – “eccoti un posto in prima fila per guardare lo spettacolo di quanto siamo stupidi! Dove ‘siamo’ è una simpatica e inclusiva bugia, lo sai, vero? Perché tu spettatrice non sei stupida, lo sappiamo! Non pensiamo certo che tu avresti difficoltà a spiegare al Presidente degli Stati Uniti come e perché una cometa ci distruggerà e lo sappiamo che tu non preferiresti avere una stellina tatuata sul braccio all’avere scoperto una cometa con un super telescopio, essendo al contempo una strafiga come Jennifer Lawrence! Tu, spettatrice, sei intelligente! “
Ed ecco perché ho preferito cambiare canale (anzi: uscire da Netflix; ‘cambiare canale’ rivela un boomer che non sono).
C’è – è innegabile – una certa gioia collettiva nello scoprirsi idioti, nel proclamarlo a gran voce, nel compiangere la fine morale dell’umanità che ne anticipa – di sei mesi – e anche forse legittima la fine fisica. Non ha torto Meryl-Commander in chief-Streep quando ricorda sarcasticamente quante riunioni di emergenza ha fatto, quante volte il mondo stava per finire e non è finito, quanti disastri ci sembrano ultimi e poi non lo sono. Quante volte dovevamo cambiare e non siamo cambiati.
Signora mia, non ci sono più nemmeno i disastri di una volta!
Quelli che mettevano paura davvero.
Questa gioia collettiva del dirsi pessimi non so se sia figlia del credersi salvi (siamo pessimi, ma io no, alla fine, ‘io’: sono buono/a) o se sia voglia di dare le colpe – e c’è un vasto campionario nel film di sicuri colpevoli, pressoché tutti – accantonando per un momento il fatto che come non c’è un pianeta B per i buoni così non c’è per gli innocenti.
O se sia infine l’orgoglio di averlo capito, quanto pessimi siamo. Non era difficile, invero. E anzi dovremmo sentirci mortificati dal fatto che sia necessario rendere caricaturali certi comportamenti perché ce ne accorgiamo. Quei 36 minuti mi sono sembrati come i telefoni coi tasti grandi, declamati a gran voce dalla ex bimba Cappuccetto rosso: telefoni per nonnini sordi e presbiti.
Dunque, mi pare di capire: già sapevamo che il Colpevole, dopo essere stato il Maggiordomo, era l’Esercito, era il Presidente, era la Stampa, era la Televisione. E noi gli Eroi (annovero con piacere l’ingresso dei dottorandi e degli ex professori-che-pubblicano fra gli Eroi, i quali erano già tipicamente ex-qualcosa: ex alcolisti, ex poliziotti, ex colpevoli). Ora dobbiamo aggiornare la lista: Influencer dobbiamo aggiungere, e anche Capi di Gabinetto. In attesa che diventino ex e dunque anch’essi Eroi. Non si può essere Eroi mentre si è qualcosa. Mi è chiaro anche questo. O prima, o dopo.
Scoccia ribadire l’ovvio, ma, laddove la scelta giornaliera non è fra l’estinzione dell’umanità e il litigio fra divi social, e noi non siamo l’Esercito degli Stati Uniti, la Carta Stampata e nemmeno gli Influencer di casa nostra, tocca andare sempre a distinguere, a districare, a scegliere, volta per volta, se e cosa dire sui social, se togliere o mettere il nostro stupido like, se essere furbi o intelligenti, generosi o scialacquatori, arroganti o determinati. Fare scelte un po’ sottili. Solitarie. Off-Netflix. Quando in ballo ci sono poste piccole, al limite dell’invisibile.
E anche, siamo chiamati, a distinguere le emergenze, e numerarle. C’è l’emergenzona e l’emergenzina. E l’emergenza di mezzo. Grigia. Pandemia è un po’ meno di Estinzione dell’Umanità e della Vita sulla Terra, un po’ più di Scandalo Porno-Politico. Surriscaldamento Globale è un po’ più di Pandemia. Variante Omicron un po’ meno di Variante Delta.
Il progetto ipotizza una monumentale “casa di montagna” che letteralmente si aggrappa ad una scogliera rocciosa. L’idea è concepita partendo dal totale rispetto della situazione naturalistica presente, mantenendo intatta la situazione degli alberi preesistenti nel sito individuato.
Per fare ciò, il progettista utilizza una serie di “scatole” impilate verticalmente o orizzontalmente. Queste file riescono ad intrecciarsi intorno agli alberi e lasciare in mezzo bellissimi e panoramici cortili. Una delle configurazioni più audaci di questo sistema è la pila verticale che forma una “C” che si affaccia dalla scogliera. L’organizzazione e la distribuzione degli spazi sul terreno e lo sviluppo verticale risultante è un insieme di volumi che si intrecciano e che generano dei vuoti e dei pieni in elevazione ed a sbalzo.
Il design della casa è organizzato per soddisfare le esigenze di famiglie “intergenerazionali”.
La parte inferiore è chiamata “la casa del figlio” e il livello superiore “la casa del padre”.
Un “figlio” potrebbe portare il partner e i figli a vivere al livello inferiore e avere abbastanza privacy per la sua famiglia, ma anche essere, allo stesso tempo, abbastanza vicino ai suoi genitori. Un altro livello è concepito come uno spazio comune in cui il progettista include attività ricreative per la famiglia allargata.
Il progetto segna una continuità creativa dell’architetto per le costruzioni che sfidano la gravità con una drammatica struttura che induce una sensazione di precarietà e paura.
La modellazione di questo progetto viene eseguita nel software 3-D MAX 2019 e , dopo aver completato la modellazione del materiale in V-RAY 4.1 è stato sottoposto ad una operazione di post produzione in Adobe Photoshop per ottenere un risultato perfetto e un rendering iper realistico.
Per ulteriori dettagli, vi rimandiamo al sito dell’architetto
Miladeshtiyaghi è nato nel 1994 a Teheran, in Iran. Dopo il diploma di maturità scientifica, si iscrive alla Facoltà di Architettura e consegue il Master in architettura sostenibile presso IUST (università delle scienze e della tecnologia iraniana). Dopo aver fatto esperienza in diversi studi di architettura crea il proprio studio nel 2016. Attualmente è operativo a livello internazionale.
Miladeshtiyaghi ha come riferimento culturale lo stile architettonico minimalista, verde e sostenibile.
Molto tempo fa, alla vigilia di Natale, un vescovo di una cattedrale di una importante città era fermo a contemplare la maestosità della sua chiesa. E mentre lasciava che i suoi occhi vagassero deliziati sulle tre navate scolpite, il grande rosone centrale, e la galleria che si apriva sotto il campanile che si ergeva in una massiccia torre, si sentiva il cuore gonfio di orgoglio e ammirazione per quello che stava ammirando.
“Di certo in tutto il mondo Dio non ha una casa più bella di questa che ho costruito con così lungo lavoro e con una spesa così importante “.
E così il Vescovo cadde nel peccato di vanagloria, e, sebbene pensasse di essere, e magari lo era pure, un santo uomo, non si accorse di essere caduto in questo peccato veniale, tanto era contento alla vista dell’opera che aveva di fronte.
Nella penombra delle navate laterali, c’erano molte grandi statue con corone, scettri, e preziosi affreschi, ma una nicchia sopra il portale centrale era vuota ed era proprio quella che il Vescovo intendeva riempire con una statua che lo avrebbe raffigurato in posa marziale e autorevole.
Sarebbe dovuta essere una statua molto piccola e semplice, in verità, come si addiceva a chi apprezzava l’umiltà di cuore, ma mentre alzava lo sguardo verso quello spazio , gli faceva piacere pensare che centinaia di anni dopo la sua morte la gente si sarebbe fermata davanti alla sua effigie e avrebbe lodato e venerato lui e il suo lavoro.
E anche questa, di nuovo, era vanagloria.
Quella notte, mentre il vescovo dormiva, un grande angelo con le ali spiegate, gli apparve accanto e gli ordinò di alzarsi.
“Vieni“- disse- “e ti mostrerò alcuni di coloro che hanno lavorato con te nell’edificazione della grande chiesa e il cui servizio agli occhi di Dio è stato più degno del tuo“.
E così l’Angelo lo condusse oltre la Cattedrale e giù per la ripida strada della città antica, e sebbene fosse già mattino, la gente che andava e veniva non sembrava vederli.
Superato il cancello della cattedrale, si incamminarono lungo la strada che conduceva fino a dei verdi campi pianeggianti e lì, in mezzo alla strada, tra sponde erbose coperte di bianco di fiori di ciliegio, due grandi buoi bianchi, aggiogati a un enorme blocco di pietra, stavano riposando, prima di riprendere la faticosa salita verso il paese.
“Aspetta!” disse l’angelo; e il vescovo vide tre uccellini dalle ali azzurre che si appollaiarono sulla robusta trave del giogo fissata alle corna dei buoi e cinguettarono una melodia così celestiale che le grandi creature irsute cessarono di soffiare attraverso le loro narici, e cominciarono ad emettere invece lunghi respiri tranquilli.
“Continua a guardare” continuo l’angelo.
E da una modesta e semplice casa uscì una donna con un fascio di fieno in braccio, e diede prima a uno dei buoi e poi all’altro un po’ di ciuffi di quel fieno e dell’acqua. Poi accarezzò i loro musi neri e appoggiò il suo viso sulle loro guance bianche. Quindi il vescovo vide un uomo alzarsi dal suo riposo sulla riva del torrente che scorreva li a fianco e, lanciato un comando ai due buoi, questi spinsero contro la trave, le grosse funi si tesero, e l’enorme blocco di pietra che stavano trasportando fu di nuovo messo in moto.
Quando il vescovo capì che erano questi uomini e queste donne , lavoratori umili, il cui servizio era agli occhi di Dio più degno del suo, fu confuso e addolorato per il peccato in cui era caduto e le lacrime del suo stesso pianto lo svegliarono dal suo sonno.
Allora si alzò dal letto e mandò a chiamare il maestro degli scultori e gli ordinò di riempire la piccola nicchia sopra il portale di mezzo, non con la propria effigie, ma con un’immagine della contadina e dell’operaio; e gli ordinò di fare poi due figure colossali di buoi bianchi.
Con grande meraviglia dei fedeli questi furono eretti in alto nella torre in modo che gli uomini potessero vederli contro il cielo azzurro.
“E quanto a me“, continuò il Vescovo, “lascia che quando morirò il mio corpo sia sepolto, con la faccia in giù, fuori della grande chiesa, di fronte all’ingresso centrale, affinché i fedeli possano calpestare la mia vanagloria e che io possa servire loro come passaggio verso la casa di Dio”.
Fu così dunque che la fanciulla e l’uomo furono scolpiti, in modo tale da guardare una verso est, con il suo sguardo rivolto al primo bagliore dorato dell’aurora del mattino, mentre l’altro con lo sguardo verso ovest, attraverso il vasto paese che si allargava intorno alla città vecchia, in modo tale che potesse scorgere il primo rossore del tramonto.
Gli uomini stanchi e le donne logore dal lavoro quotidiano, ora potevano osservare le due sculture e provare una sensazione di gioia, una gloria e una pace profonda che ristorava in parte la loro vita di fatica con questo simbolico ma concreto riconoscimento.
E poi – si dicevano tra loro – che era bene che questi operai, gente che lavorava con fatica e sudore, e che avevano aiutato a costruire la Casa del Signore , trovassero nella chiesa un posto dove poter essere ricordati con onore.
E poi, al pensiero di ciò, gli uomini divennero anche più pietosi del loro bestiame, e delle bestie in servitù, e di tutti gli animali che soffrono in silenzio.
E anche quello fu un buon frutto che scaturì dal pentimento del Vescovo.
La vigilia di Natale i suonatori, secondo l’antica usanza, salivano sul campanile per annunciare la nascita del Bambino Divino. Al momento della mezzanotte il maestro suonatore diede il via, e le grandi campane cominciavano a suonare in gioiosa sequenza.
Alla fine della sua vita terrena, il Vescovo fu sepolto come aveva richiesto, col volto umilmente rivolto verso terra e la lastra sopra la sua tomba funge ancora oggi da passaggio per coloro i quali si avviano all’interno della Cattedrale.
E Le statue della fanciulla e dell’operaio, e dei buoi, consumati dal tempo lo osservano ancora oggi dall’alto della nicchia , sulla facciata della Chiesa.
Questo racconto di Natale è dedicato a Marco Pozzetti, Roberto Peretto e Filippo Falotico, i tre operai morti a Torino nel crollo della gru sulla quale stavano lavorando.
E a tutti gli uomini e le donne, che sono decedute mentre svolgevano il loro lavoro.
I confini del tuo linguaggio sono i confini del tuo mondo.
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di Matteo Moro_
Domandatevi da dove venite e cosa volete. Fate altrettanto con il vostro vicino di casa, o con la persona che è immersa totalmente nel suo cellulare sul sedile accanto al vostro in metropolitana.
Una domanda così semplice si basa su una lunga serie di presupposti condivisi: conoscere il significato delle parole utilizzate, conoscere la forma interrogativa di una frase, condividere lo stesso idioma.
“Semplice”, starete pensando.
Al massimo vi toccherà improvvisare in una lingua straniera che avete appreso al liceo o in una scuola serale.
Ma immaginate ora di dover porre la stessa domanda a degli alieni.
Da dove si comincia a costruire una forma di comunicazione, quando si proviene da mondi diversi, e non si condivide quasi nulla?
La questione, che apre molti interrogativi di natura filosofica ed etica, mette in discussione l’universalità dei significati del mondo in cui siamo immersi e il modo stesso in cui lo concepiamo.
L’argomento è stato affrontato in un racconto di Ted Chiang, da cui è stato poi tratto il film “Arrival” [2016] diretto da Denis Villeneuve.
Il racconto dal titolo “Story of Your Life”, tenta di spiegare la difficoltà di un dialogo con uno straniero, in questo caso degli Alieni, che non sia suscettibile di incomprensioni.
La storia narrata ha la caratteristica di essere “palindroma”, cioè può essere “letta” dall’inizio alla fine e viceversa, lasciando poi al lettore la possibilità di comprenderne il senso e il significato linguistico, in un senso o nell’altro.
Questa una delle (molteplici) chiavi di lettura.
E’ il nostro pensiero che determina il modo in cui ci esprimiamo, o la struttura della lingua che parliamo eserciterebbe un’influenza sul processo di categorizzazione mentale di chi parla?
Benjamin Whorf, noto linguista e antropologo americano, insieme al suo maestro Edward Sapir diede vita a uno dei più famosi assiomi linguistici di sempre, la Sapir-Whorf Hypothesis, secondo cui il nostro modo di esprimerci e comunicare, in tutte le forme e modalità, determina il nostro modo di pensare; è quella che viene comunemente riassunta come ipotesi della relatività linguistica.
“La nostra analisi di ciò che ci circonda e viviamo, segue linee tracciate dalle nostre lingue madri. Le categorie e le tipologie che individuiamo nel mondo dei fenomeni non le troviamo lì come se stessero davanti agli occhi dell’osservatore; al contrario, il mondo si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti, cioè soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo le attribuiamo significati, in gran parte perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che resta in piedi all’interno della nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua…”.
Nel racconto a cui abbiamo accennato, gli Alieni offrono la possibilità di comprendere la propria facoltà comunicativa, conoscendo la quale si riesce a concepire il loro concetto di tempo non lineare, ma circolare e, di conseguenza, a concretizzarlo in una possibilità, in un dono. Il dono di aprire, figurativamente parlando, un varco nel cerchio dello spazio-continuum, per permettere alla mente umana l’ingresso e uno sguardo nuovo, proiettato in avanti.
Conoscere il futuro, in fondo, significa guardare i propri errori, per comprenderli ed evitare quindi di (ri)commetterli.
Si ritorna allora all’ipotesi di Sapir-Whorf: Il linguaggio incide sulla visione delle cose e dunque se è vero che la lingua che parli determina il tuo modo di pensare, allora è altrettanto vero che, studiandone una nuova, è come se il tuo cervello subisse una decodificazione.
Whorf stesso sosteneva che “Non possiamo parlare affatto, se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula […] significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero.
A dimostrazione della natura intrinsecamente interpretativa del linguaggio, la stessa teoria ha due diverse interpretazioni, una versione forte e una debole.
La prima è nota come determinismo e afferma che il nostro pensiero è interamente determinato dalle strutture della lingua; la versione debole della teoria è definita invece relativismo: le strutture delle lingue eserciterebbero un’influenza sul processo di categorizzazione mentale di chi parla.
“Se si tracciano dozzine di linee di forme differenti, le si nota subito come classificabili nelle categorie di “rette”, “contorte”, “curve”, “zig zag”, perché i termini linguistici contengono in se stessi un carattere stimolante la classificazione. Noi vediamo e udiamo e facciamo altre esperienze in un dato modo in gran parte perché le abitudini linguistiche della nostra comunità ci predispongono a certe scelte di interpretazione.”
Che propendiate per l’una o l’altra interpretazione della teoria , sappiate che la lingua che usate ogni giorno non è così neutra e ovvia come avete sempre immaginato. Ogni volta che parliamo forniamo una rappresentazione simbolica e tangibile della nostra mente e del modo in cui concepiamo il mondo.
Matteo Moro
Architetto dati che lavora nel settore dell’informatica e dei servizi. Interessato alla matematica, al monitoraggio delle prestazioni e a tutto ciò che riguarda il Machine Learning. Professionista dell’ingegneria con un Master focalizzato in Matematica e Informatica presso l’Università degli Studi di Roma Tre e l’Univeristé Aix-Marseille.
Nessuno muore.
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“All’improvviso, mi parve di destarmi, e mi trovai come fluttuante all’altezza del soffitto. Mi sentivo benissimo, anche se un po’ eccitata al pensiero di poter osservare ciò che i chirurghi si apprestavano a fare. La camera era dipinta di verde. Una cosa mi meravigliò subito: il tavolo operatorio non si trovava parallelo a tutte le strumentazioni, bensì era relegato in un angolo. A un certo momento mi domandai come mai non soffrissi o non provassi alcuna pena osservando l’intervento sul mio corpo. I chirurghi erano due. Mi feci più vicino per osservare meglio. Grande fu il mio stupore nel vedere fino a quale livello di profondità avevano inciso la mia schiena, e quante attrezzature, pinze e divaricatori contornavano la ferita. Vidi raggiungere la colonna vertebrale con i loro attrezzi chirurgici, ed estrarre lentamente il disco con lunghe pinzette curvate all’estremità. A un certo momento qualcuno si lasciò scappare un’esclamazione di stupore. Tutti si voltarono. Chi aveva parlato, ricorrendo a termini tecnici che non ricordo, gridò che stava succedendo qualcosa e che la mia respirazione si era paurosamente rallentata. Pronunciò parole come “arresto” o “blocco”. Poi quasi urlò: – Chiudere! – A quella specie di ordine tutti affrettarono le operazioni, tolsero pinze e divaricatori e presero a cucire in fretta l’incisione. Notai che incominciarono a suturare partendo dal fondo. Eseguirono la cucitura in modo così rapido da lasciarmi ancora una parte di ferita leggermente aperta sulla schiena. A quel punto, improvvisamente , mi trovai nella hall dell’ospedale . Ero come se fossi a ridosso del soffitto, perché distinguevo con chiarezza le lampade fluorescenti. Da questo momento in poi non ricordo nient’altro, salvo il fatto di essermi finalmente destata in un’altra stanza. Accanto a me scorsi uno dei due medici che mi avevano operata; non l’avevo mai veduto prima, ma lo riconobbi subito“.
Quando agli inizi degli anni 70 del secolo scorso venne coniato l’acronimo NDE (near death experiences ) l’intento era quello di racchiudere in una definizione più o meno esauriente, una categoria di fenomeni non ancora compresi dalla scienza medica.
Oggi a quasi cinquant’anni di distanza, ben lungi da poter definire le NDE come esperienze valide da un punto di vista meramente scientifico, possiamo però dire che alcune prove raccolte oggettivamente coincidono e dunque rientrano in una casistica numerica che permette loro di meritare maggior attenzione e meno scetticismo.
Le NDE sono esperienze , certamente soggettive, ma spesso con elementi oggettivi particolari, che si ripetono a prescindere dal soggetto che le prova, sia esso un adulto piuttosto che un bambino.
Tra i primi sintomi che precedono queste esperienze (mancanza di reattività, arresto cardio respiratorio) e il successivo decadimento e morte delle cellule dell’organismo umano trascorre un certo tempo, e quello che noi definiamo “morte del soggetto” non è altro che una convenzione basata su alcuni parametri.
Intendiamo dire che non esiste un momento preciso del trapasso, in senso assoluto.
Cosa accade nella fase intermedia?
L’obiezione che questo tipo di esperienze non riguardano persone che hanno smesso di vivere, bensì che siano in uno stato di morte apparente, non è del tutto soddisfacente perché sposta i termini della questione, ma senza affrontarla.
Da un punto di vista semantico, usare la parole “morte” potrebbe essere ingannevole mentre è più opportuno invece, da un punto di vista medico, considerare queste persone come “rianimate alla vita”, e dunque si presume che la loro attività biologica fosse tale da impedire l’irreversibilità del loro status.
E’ pur vero che il concetto di “morte” per l’essere umano rientra più nella filosofia che non nella medicina. Definire esattamente il momento in cui cessa il collegamento delle funzioni vitali e la coscienza di “Se”, paradossalmente potrebbe non impedire la reversibilità dell’evento.
Il corpo fisico, nella sua globalità, muore lentamente, organo dopo organo, cellula dopo cellula e potrebbe apparire imprudente accomunare la fenomenologia di cui parliamo con il concetto ancora non troppo precisato di decesso.
Convenzionalmente per “esperienza di premorte” si intende l’esperienza di una persona che, per episodi traumatici, tossici o patologici, abbia vissuto un arresto cardiaco temporaneo, respiratorio, dei riflessi e dunque della coscienza.
Analoghe esperienze vissute durante lo stato di coma, ad esempio, anche se particolarmente grave e irreversibile, non dovrebbero venire classificate nei fenomeni NDE, rientrando nella cosiddetta OBE (out of body experience). Si tratta di una casistica abbastanza simile, ma riguardante sia persone sane, sia soggetti clinicamente gravi, ma senza sintomi di decesso.
Possiamo considerare una terza tipologia, cioè quella di coloro i quali sono in punto di morte ma rimangono in uno stato mentale di lucidità.
In effetti, delle tre, la nostra analisi riguarda specificatamente la prima, anche se la fenomenologia non è classificabile in precisi schemi ben definiti.
Ma di quali fenomeni stiamo parlando?
Possiamo provare ad elencare alcune sintomatologie che possono ricondurre le esperienze all’interno delle NDE
Consapevolezza della morte del corpo e sensazione di esistere esternamente al corpo stesso;
Una chiara visualizzazione, precisa e consapevole, del corpo e dell’ambiente circostante, da una prospettiva quasi sempre sopraelevata e dunque una sensazione di allontanamento dal corpo fisico.
La percezione di discorsi di parenti, medici, infermieri.
“Distorsione temporale” e/o “atemporalità”.
Aumento delle facoltà percettive e intellettive.
Visione di un “Tunnel di luce”, con associata la visione delle esperienze del proprio vissuto significativo, ed incontro con persone, decedute in vita, in un’altra dimensione di esistenza.
Totale assenza di dolore fisico e un senso di grande serenità e di generale benessere, associato a contenuti con forte carica emotiva.
Eppure, non sempre le percezioni NDE sono esperienze di gioia e di serenità. In alcuni casi sono state raccolte esperienze terrificanti, paragonate a immagini infernali. Malgrado ciò queste non sembrano essere molto ricorrenti.
La coerenza delle esperienze raccontate, a prescindere dai luoghi e dalle culture diverse, ci invita a riflettere che tale esperienza riguardano più la reattività del nostro organismo in decadimento biologico piuttosto che alla cultura e credenze alle quali facciamo riferimento.
“Effetto tunnel”, sensazione di generale benessere, percezione di una grande luce, visione panoramica del proprio vissuto, e così via, sono aspetti che sembra rafforzino l’idea che la NDE sia qualcosa elaborato dal cervello. Tali rappresentazioni potrebbero costituire il frutto di esperienze collettive, come negli archetipi Junghiani.
La cosiddetta visione panoramica retrospettiva degli avvenimenti della propria vita (sequenza vissuta frequentemente nel corso di una NDE) secondo alcuni studiosi potrebbe essere originata sempre dal cervello, il quale, comportandosi come un computer, “salva il file, come se duplicasse la propria memoria”.
L’ipotesi che le visioni sopra descritte siano la conseguenza allucinatoria della produzione, nell’organismo umano, di particolari sostanze, è una spiegazione razionale e sicuramente condivisibile. Alcuni ipotizzano inoltre che le esperienze siano conseguenza di una sorta di sconvolgimento psicofisico che si attiva durante la rianimazione, e dunque non della condizione di apparente decesso, ma successivamente a questa condizione.
In generale, si ritiene che le percezioni dell’individuo, clinicamente in condizioni di morte (apparente?), siano elaborate dal cervello in modo da creare delle immagini artificiali, che possano anche riprodurre fedelmente l’ambiente , tuttavia questa opzione ci sembra un po’ forzata. Inoltre, essendo forse l’udito l’ultima forma di percezione durante un processo degenerativo, si ipotizza che le descrizioni di esperienze di premorte siano semplicemente il frutto di associazioni ed elaborazioni di sensazioni uditive derivanti dagli effetti dell’aumento dell’anidride carbonica nel sangue, molto simili alle allucinazioni originate da morfina e droghe varie e dall’ipotesi degli spasmi dei lobi cerebrali, fino alla produzione di ormoni endogeni.
Eppure, ci sono casi in cui persone non dotate della vista, hanno saputo descrivere luoghi e ambienti che non avrebbero mai potuto vedere. In tali casi, nessuna teoria si rivela esauriente nello spiegare come una persona possa “vedere” senza l’ausilio dei propri sensi, e addirittura da prospettive assolutamente non coincidenti con quella osservabile dalla posizione del proprio corpo.
Ogni tentativo di ricondurre il tutto ad una sorta di spiegazione razionale, sembra essere rimesso in discussione dalle esperienze di NDE raccontate dai bambini i quali , pur essendo privi delle costruzioni mentali degli adulti e non avendo quindi ben chiari i concetti di vita, morte e aldilà, stranamente riferiscono esperienze simili e analoghe a quelle degli adulti, e questo sin dalla più tenera età. Considerando che la percezione della morte nei bambini dovrebbe essere diversa, tutto ciò risulta molto strano.
Ecco allora che le varie teorie appaiono tutte come supposizioni assolutamente insufficienti, perché è altamente improbabile che “riproduzioni virtuali” possano essere dei meccanismi di difesa e delle proiezioni di fantasie che un cervello adulto metterebbe in atto per preservare la propria incolumità.
In qualsiasi caso, il quadro generale è comunque molto complesso e ancora lontano dall’essere spiegato in modo esaustivo.
Nel mondo, com’era quando il protagonista aveva otto anni, la vita scorreva tranquillamente finché… amici, parenti, estranei iniziarono a svegliarsi nella notte per scrivere frasi strane, incitamenti sovversivi e di denuncia e ad avere sempre più spesso visioni correlate ad Averroè: una folla di persone che si divide in due per far passare un cavaliere che sorregge una persona morta con un braccio e nell’altro tiene una pila di libri.
Queste persone diventano gradualmente entità che non sono più vive ma nemmeno morte.
La società si arresta e da settantadue anni niente è più cambiato. Le TV sono rimaste quelle vecchie, le trasmissioni e i film sono sempre gli stessi; le persone assistono a queste progressive mutazioni chiedendosi se e quando arriverà il proprio turno.
Come sono vissute le relazioni fra umani? Le famiglie come vivono la perdita dei propri cari? Soprattutto, come viene vissuto il rapporto con gli Zombi?
Gli affetti possono ancora essere coltivati di fronte all’eterna sensazione di incertezza?
Il protagonista è un anziano ottantenne che è stato segnato in prima persona da queste entità a cavallo fra la vita e la morte; questi racconta il nuovo equilibrio sociale che si è creato, dove le debolezze umane spesso prevalgono di fronte all’alienazione degli Zombi.
Il punto di vista dell’anziano narratore è lucido nel racconto e riconosce le implicazioni legate alla vecchiaia; questi riesce ad essere indipendente fisicamente e mentalmente nonostante gli impedimenti fisici e psicologici che la sua storia personale gli ha lasciato.
Nell’ambito di una società che sta andando alla deriva, un medico, Tancredi, impegna tutto se stesso nella ricerca delle cause del disastro sociale al fine di trovare una cura che possa interrompere le mutazioni. Tancredi, ci riuscirà?
L’umanità ha qualche speranza di riprendersi?
I colpi di scena sono assicurati!!
“La carne” mette in discussione la nostra società così dinamica e in continua evoluzione ma forse solo all’apparenza. L’abbattimento e l’appiattimento intellettuale sono soltanto un presentimento dei più pessimisti o c’è un fondo di verità…
L’apatia verso certe dinamiche di discriminazione e di sottomissione sociale sono soltanto contestazioni perpetuate da complottisti esaltati?
Alla fine non stiamo diventando Zombi… forse!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Nello sport (soprattutto di squadra e di contatto, calcio in primis) si definisce così, quell’atto scorretto e spesso violento, sicuramente posto fuori dal regolamento vigente, mosso in risposta al torto ricevuto. Una violenza che risponde alla violenza, una scorrettezza che ne paga un’altra, un momento d’impazienza e di frustrazione che reagisce ai gesti o alle offese ricevuti.
Mi offendi? Ti ingiurio! Mi tiri un calcio? Ti restituisco un pugno!
Banale e ancestrale, istintivo e animale, codificato perfino dai sacri versi dell’occhio per occhio e dalle leggi sulla legittima difesa (che ne regolando anche un suo eventuale eccesso colposo).
È indiscutibile che, una violenza, sia sempre da condannare con forza e decisione, chiunque l’abbia agita, qualunque sia stata la causa scatenante. Perché il ricorso alla violenza, sia essa fisica o verbale, è la fine del dialogo, della civile coesistenza e dell’urbano convivere. Rompe la fiducia interpersonale, tirando fuori il peggio di noi.
Un atto bestiale quindi, etologicamente parlando, da condannare tout court, senz’appello alcuno, a prescindere dalle situazioni, condizioni e contesti a margine. Fatta salva forse l’esasperazione che, se proprio non giustifica, per lo meno riesce a rendere più comprendibile l’atto di risposta.
Attenzione! Spiega, ma non giustifica.
La violenza, anche quando è conseguenza inevitabile di gravi mancanze, operate nei nostri confronti, è sempre e comunque un atto da stigmatizzare e punire. Se le dispute si potessero risolvere a suon di pugni, vivremmo ancora sugli alberi, ma siamo esseri umani (comunque animali), seppur dotati di parola e intelletto, intrisi di impulsi e paure, tic e fobie, ambizioni e frustrazioni, emozioni e (neanche a dirlo) reazioni, convogliate da pulsioni spesso ataviche e inspiegabili, anche a noi stessi, data la natura istintiva di ogni reazione brutale.
Per sbagliato che sia, resta impensabile che un atto lesivo, ricorrente e continuato nel tempo, presto o tardi, non finisca per scaturire una reazione contraria, determinata dal momentaneo crollo nervoso ed emotivo, quando la rabbia acceca e impedisce il controllo ragionato. È nella natura delle cose, fa parte del funzionamento degli esseri emotivi che pensano (quali tutti noi siamo), incapaci di gestire in toto quelle emozioni, quando snervati e stressati oltre ogni umana sopportazione.
Ed è proprio l’atto lesivo ripetuto, stante la condanna alla reazione, quello da crocifiggere, rappresentando la mano che arma la proverbiale pistola, una mancanza di rispetto e una grave carenza attitudinale all’umana interazione sociale.
Una mancanza di rispetto! Eccolo il nodo gordiano nel ragionamento.
La violenza è sempre sbagliata, per quanto la reazione, atta a contrastarla o a contenerla, a volte sia legittima (è infatti prevista come tale dal codice penale) e altre sia sproporzionata (eccesso colposo). Ma ciò che troppo spesso estromettiamo dal ragionamento, è il rispetto per l’altro, che nell’azione lesiva ripetuta e continua, quasi sistematica, viene omesso, negato, stravolto e calpestato. Come calpestata è la pazienza di colui che, quella mancanza di rispetto, sopporta e subisce, finché la misura è colma e scocca la proverbiale scintilla.
Come una goccia che a poco a poco, scava la roccia. Anche a quella roccia salterebbero i nervi, se solo li avesse.
Una questione di rispetto. Forse aveva ragione Bukowski quando, probabilmente stanco dei rimproveri e degli appunti mossi al suo atteggiamento, senza che venisse contestualmente analizzata la causa scatenante la reazione, scriveva: “La manipolazione è quando ti rimproverano per la tua reazione alla loro mancanza di rispetto”. Una citazione che, seppur leggermente fuori contesto, ci è utile a chiarire il concetto.
Certo, la violenza è sempre sbagliata (e tre!), anche quando è una risposta snervata a quella subita, seppur solo verbale o di atteggiamento, perché siamo esseri fallibili, soggetti alla neurochimica del nostro cervello e alla cultura ambientale che c’impone un codice comportamentale. E abbiamo una pazienza, tutt’altro che illimitata e, al pari nostro, umanamente fallibile.
Per questo prevenire è meglio che curare, laddove la prevenzione assume le sembianze di un comportamento rispettoso dell’altro e delle sue istanze, spesso legittime e motivate.
Forse è proprio nella prevenzione, nel buon gesto a prescindere, la quadratura del cerchio, se solo fossimo disposti a sostituire la fallace astrazione della legittima difesa (anche e soprattutto nel caso del suo eccesso colposo), con una più moderna e inclusiva, oltreché concreta, idea di legittimo rispetto preventivo, potenzialmente più capace di edificare un’agognata, nuova e migliore, società civile.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Il silenzio delle labbra cucite non è silenzio.
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La cultura del “pensiero correttissimo” che dilaga ormai negli Stati Uniti e che rende i campus luoghi di censura e ipersensibilità, è stata riportata in primo piano dall’incidente di percorso della Commissione Europea alla Parità che, attraverso il documento “Linee guida per la comunicazione inclusiva”ha in qualche modo squalificato, a causa di una mancanza di buon senso e una certa approssimazione culturale, contenuti che ovviamente meritano la massima attenzione.
Cosa c’è nel documento?
Nelle 32 pagine di Linee guida, si affrontano i temi considerati più sensibili: c’è una parte relativa al linguaggio di genere, in cui si invita a preferire espressioni più neutre. Ad esempio, a meno di una preferenza esplicitata già dalla persona a cui ci si rivolge, evitare di usare “Miss o Mrs” e preferire “Dear colleagues”, “cari colleghi”, che in inglese non ha genere. Anche nel caso della disabilità i suggerimenti vanno nella direzione di non identificare la persona con la sua menomazione: non parlare di “disabili” ma di “persone con disabilità”. Allo stesso modo, per la diversità di culto : “Quando comunichiamo, potremmo inconsciamente ricadere nell’uso delle forme apprese nel linguaggio– si legge nel testo. Invece di seguire stereotipi dannosi, dobbiamo sforzarci e aprirci a un atteggiamento espansivo di connessione. Qualsiasi lingua che esprima intolleranza o giudizio verso un gruppo religioso, alimenta stereotipi”.
Per la Commissione bisogna dunque “considerare la diversità di culture, stili di vita, religioni” in tutti i contesti realizzando una comunicazione che tenga conto dei diversi tipi di celebrazioni e rituali popolari in diverse parti dell’UE.
Come in tutti i capitoli, anche in quello relativo alla diversità religiosa vengono forniti suggerimenti: “Evitate di pensare che tutti siano cristiani. Non tutti celebrano le feste cristiane, siate sensibili al fatto che le persone seguono diverse religioni e calendari”. E ancora: “Negli esempi e nelle storie non usate nomi che siano tipici di un’unica religione”. Nelle raccomandazioni fornite viene suggerito di cambiare la frase “le feste di Natale possono essere stressanti” con “il periodo delle feste può essere stressante“. E così via..
L’Europa, e lo dicono i numeri, è sempre più culturalmente e demograficamente complessa. 450 milioni di abitanti, di cui 25 milioni sono cittadini di paesi extraeuropei e 4 milioni nati al di fuori dai confini dell’Unione stessa.
Una complessità culturale che la sta esponendo ai venti della “Woke Culture”.
Woke è sinonimo di “vigile allerta” nella lotta contro le “ingiustizie della maggioritaria e prepotente cultura dei maschi bianchi”, che penalizza gli afroamericani, le donne, le identità sessuali diverse da quelle biologiche e così via.
Negli ultimi due anni la Woke Culture è sbarcata in Gran Bretagna e in Francia, e da li sta prendendo piede un po’ ovunque.
In un contesto già indebolito dalla Brexit e dai sovranismi reazionari di alcuni paesi dell’est europeo, la Comunità Europea e gli stati membri dovranno fare appello alle migliori risorse culturali e politiche per contrastare un fenomeno che si presenta come l’inizio di un nuovo squadrismo culturale che rischia di diventare pericoloso.
Perché è pericolosa? Innanzi tutto perché tutti possono essere sottoposti ad una sorta di giudizio degli attivisti del movimento, che possono accusare una persona di discriminazione razziale, sociale e sessuale, partendo da pubblicazioni o libri, ma anche più semplicemente da mail, battute, o discussioni che avvengono anche durante incontri privati.
Una forma di sottile delazione in pratica.
La Woke Culture è una forma di censura morale e pubblica nei confronti di soggetti ritenuti colpevoli di idee e comportamenti disallineati da valori considerati progressisti e, in generale, politicamente corretti.
Una forma di censura che arriva a vietare in alcuni casi anche di poter esprimere pubblicamente idee non conformi alla pubblica opinione, non allineati al pensare comune, delegittimando coloro i quali non la pensano in maniera conforme alla massa, anche in maniera dialetticamente violenta, sui social o sui media tradizionali.
Nei casi più estremi gli ideologi della woke culture affermano l’inutilità della lettura di testi di autori non conformi ai canoni woke – è in questi casi è inevitabile il rimando alle lugubri immagini dei roghi dove i nazisti bruciavano i libri e i quadri di autori considerati decadenti e non conformi alle parole d’ordine della nuova Germania del Terzo Reich.
Una matrice comune, dunque, che ricorda quanto avvenuto agli albori delle ideologie totalitarie del secolo scorso è che si basa esattamente su questo: il rifiuto del dialogo e del confronto.
La mancanza di un confronto con la diversità e la creatività nelle sue molteplici forme di espressione è la strada che ci conduce contro chi è diverso da noi, nei tempi, nei gusti, nelle passioni, e in generale nella cultura.
L’identità culturale, pur non essendo un dogma intangibile, è il punto di partenza per aprirsi comunque ad un confronto, e rimane il primo mattone per costruire il destino comune di una società che voglia proiettarsi nel futuro
Si tratta di un tema cruciale che invitiamo ad approfondire, perché le società umane stanno cambiando molto e molto velocemente, ad una velocità che non si era mai vista prima nella storia.
La credibilità delle fonti che forniscono informazioni e la qualità dei contenuti stessi, in un modello di società come la nostra, immersa totalmente in una comunicazione disordinata e non sempre verificabile, è ancor più messa in discussione da una sterminata disponibilità di strumenti comunicativi e una quasi totale mancanza di forme di intermediazione.
Lo sviluppo di idee che si trasformano in decisioni e poi successivamente in azioni, non può prescindere dalla disponibilità di informazioni corrette e verificate.
Le informazioni devono necessariamente essere disponibili in forma comprensibile, nel modo più chiaro possibile, senza distorsioni e in forma tale da poterne verificare l’attendibilità.
E’ ormai un mondo diverso: la produzione e la condivisione delle informazioni si è praticamente ridotta in tempo reale. Il modo di comunicare è totalmente cambiato, il tono, la forma del linguaggio, la grafia stessa e alcune parole hanno totalmente perso o cambiato significato.
E’ innegabile che siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione culturale, linguistica e comportamentale. Siamo noi stessi gli artefici e allo stesso tempo i destinatari.
La cultura, ad esempio, una volta era destinata ad ambienti circoscritti, così come il mondo della ricerca, di cui oggi si parla in particolare, e dunque anche molti altri settori, oggi, sono chiamati loro malgrado a confrontarsi con una platea sterminata di commentatori ed “esperti” , che possono sostenere teorie non supportate da dati scientifici, e renderle immediatamente pubbliche, trovando anche , ma non solo, attraverso i nuovi media ampia risonanza, consenso e seguito.
Naturalmente non è solo storia recente: attraverso una comunicazione distorta per uso strumentale sono nate, cresciute e prosperate ideologie che hanno fatto la drammatica storia del mondo.
Ma oggi è ancora più semplice indirizzare comportamenti e decisioni su argomenti anche molto delicati, pensiamo alla alimentazione, la salute, con il rischio di conseguenze drammatiche.
Il dissenso critico va sempre dimostrato e verificato, applicando il metodo scientifico, e non ricorrendo ad una narrazione accattivante e persuasiva, ma priva di dati.
Quando accade questo, il pifferaio magico è in grado di incantare il seguito di topini, farli entrare in un mondo di teorie, supposizioni, quanto meno discutibili, e farsi seguire verso destinazioni pericolose e rischiose per loro e la comunità che intendono rappresentare.
La responsabilità della comunicazione condivisa, la competenza per poterne parlare, dovrebbero sempre essere il punto di partenza senza le quali non è nemmeno il caso di mettersi in cammino.
Una buona ed efficace comunicazione, capace di sapersi muovere con strumenti e contenuti credibili, e all’interno di un campo di competenza riconosciuto e riconoscibile, favorisce la crescita di cittadini consapevoli ed informati, e permette loro di comprendere la complessità che caratterizza la nostra Società attuale, esercitando anche una importantissima funzione formativa.
Non stiamo parlando di semplificare concetti e dati che per loro natura devono essere inseriti in griglie complesse ed interpretabili da professionisti del campo, ma saper fornire strumenti idonei per interpretare una mole di informazioni affinchè l’affollamento informativo, amplificato dai vari media, non si trasformi in un incomprensibile rumore di fondo che non aiuta ad orientarsi.
Strumenti capaci di unire e integrare culture e «mondi» diversi, capaci di intrigare e interessare i «nativi» e i «tardivi» digitali.
Perché per tutti l’accesso alle conoscenze, alle informazioni, al riscontro delle fonti sono strumenti necessari per sviluppare la comprensione critica dei dati e l’usabilità degli stessi.
Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.
L ‘amore quando c’era racconta momenti di vita di coppia che in un modo o nell’altro abbiamo vissuto tutti, dietro ai quali si nascondono dinamiche legate ad un rapporto con noi stessi non del tutto risolto o a traumi ancora sanguinanti.
Amanda è single e non riesce a instaurare rapporti di coppia duraturi; qualcosa la rende inquieta e non riesce a darsi le giuste risposte.
Un giorno la donna propone un tema sulla felicità ai suoi alunni; i lavori che le vengono restituiti le fanno scattare qualcosa che la obbligano a guardarsi dentro alla ricerca di quello che non riesce a farla stare bene.
Almeno una volta è successo a tutti noi; nei momenti in cui ci sentiamo fragili, e un pò soli, ci guardiamo indietro alla ricerca della persona che abbiamo amato e con la quale non abbiamo più rapporti.
Dopo tanti anni impulsivamente Amanda decide di mandare una mail al suo ex fidanzato, Tommaso, con il quale aveva vissuto una storia d’amore molto intensa ma che aveva lasciato all’improvviso, senza motivazioni evidenti.
Amanda gli scrive per inviargli le sue condoglianze per la perdita del padre.
Inizia così uno scambio di corrispondenza virtuale, all’inizio dai toni formali dove l’uomo apprezza il pensiero della ex e pone la conversazione su un tono distaccato.
Entrambi si ricordano l’affetto provato reciprocamente; Amanda è cosciente del dolore causato a Tommaso quando lo lasciò improvvisamente.
Tommaso è sposato e ha due bambini: una vita all’apparenza perfetta.
È proprio l’affetto che li ha legati a far aumentare la confidenza delle conversazioni; il mezzo informatico, senza contatto umano, rende più semplice lasciarsi andare a confidenze, momenti di riflessione e ricordi di una passione vissuta.
Piano piano la vita familiare e coniugale di Tommaso non si presenta più così soddisfacente e completa.
Perché i figli mettono così in difficoltà i coniugi?
I due protagonisti resisteranno alla tentazione di rivedersi?
Armanda riuscirà a trovare la sua serenità?
I temi affrontati Chiara Gamberale non sono nuovi e risultano già dibattuti sotto tanti punti di vista; leggerli fa sempre comunque riflettere e ci fa buttare un occhio sullo stato della nostra quotidianità…!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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Di norma i tasti sono complessivamente ottantotto: cinquantadue bianchi e trentasei neri.
Alt, non è un indovinello! Perché ne sarebbe troppo scontata la soluzione.
Il pensiero corre alla gamma di combinazioni musicalmente possibili e alla nostra vita, il cui ritmo viene scandito dalle dita che si muovono, abili, sulla tastiera, in una mirabile alternanza di contrasti e conflittualità di opposti in grado,però, di realizzare un’idea di convivenza armonica tra quei tasti bianchi e neri.
Un tremito sottile scuote il corpo e l’anima mentre, rapiti, sperimentiamo la strabiliante familiarità delle vibrazioni del suono realizzando che ci rianima e ci consola:qualche volta induce perfino a iniziare a canticchiare il motivo accennato dallo strumento. Succede a tutti e non si richiede affatto di dar prova della perfetta intonazione per partecipare a una forma di esibizione corale.
La melodia ci fa sentire vivi, vivi nel presente…nel qui e ora.
Pure la vita va vissuta così: ricordando sempre che ci sono momenti in cui il mondo deve rimanere ad attenderci fuori. Non importa se per un minuto o per un’ora.
E noi dobbiamo favorire questo salvifico isolamento senza sviluppare sensi di colpa, affinché ogni angolo della nostra mente possa essere permeato da energia: quella che ciascuno di noi è perfettamente in grado di irradiare mentre, con un’inconfondibile – a tratti goffa – presenza, cerca di farsi strada nel mondo.
Possiamo limitarci ad ascoltare un’armonia che si sviluppa attraverso l’alternanza del bianco e del nero, oppure scegliere di comporla e suonarla in prima persona, decidendo dove condurrà noi e il nostro pubblico.
Non è una valutazione agevole e, spesso, passa attraverso il dubbio, il pianto e l’incapacità di frenare i contristati sussulti di un cuore frastornato che,però, trova sempre il modo di tornare a palpitare quando la musica è nuova, intensa e struggente.
Una vita veramente libera è innanzitutto una vita responsabile e alla conquista di sé stessi , di uno spazio in cui la coscienza delle proprie, infinite potenzialità espressive si identifica con l’affermazione incondizionata dell’IO che, senza alcuna pretesa di egotismo, emerge dall’ombra del qualunquismo e dell’ovvietà e, appunto, vive.
L’uomo è libero quando trova l’incastro giusto rispetto al puzzle dell’esistenza: quello che si sceglie da solo, non quello che altri vorrebbero scegliere per lui.
La libertà non è preda di facili seduzioni, rifugge dalle convenzioni, dagli standard e dai luoghi comuni ma il motivo non risiede in una diversità che ha del mostruoso o del ridicolo: in fondo, è un privilegio essere dotati di un patrimonio spirituale attraverso il quale poter sancire il proprio distacco da un mondo manovrato a dovere dalla logica della privazione, dello stantio e del nulla più assoluto.
Il pericolo vero,tutt’al più, è subire una coazione, diretta e indiretta, della propria volontà: essere pilotati come marionette, da chi, facendo leva sulla disistima di sè e sulla sfiducia nelle proprie capacità, dimostra di non arrendersi all’idea che si possa vivere affrancati e non omologati.
Al contrario, chi si affranca, si salva sempre e necessita di un rigeneramento emozionale continuo per non perdere di vista il bisogno, quasi ancestrale, di stabilità che dovrebbe rappresentare l’ideale traguardo dell’esistenza.
E quell’angosciosa inquietudine che, irrimediabilmente, ci assale astraendoci dall’anonimo cortometraggio di una realtà in cui, senza accorgercene, stiamo vegetando – e non vivendo – va coltivata, perché ci sta avvertendo che la musica è cambiata e noi non la stiamo ascoltando.
Se, dall’esterno, sopraggiunge un tocco indulgente sui tasti bianchi e neri, consente di non farci smarrire il senso della melodia e di non rinunciare alla musicalità che accompagnano i singoli vissuti, ma alla fine tocca a noi dover gestire le energie, gli obiettivi, l’ardita ripidezza di alcune scale musicali.
Insomma, bisogna essere disposti a salire su una montagna russa con la consapevolezza che ne scenderemo completamente – ma positivamente – stravolti.
Come quei pianisti, un po’ invasati,che accompagnano l’esecuzione dei loro brani con movenze smodate:veri e propri spasmi, che sembrano interessare tutto il corpo e non solo le dita delle mani.
A prima vista sembrano pazzi: in realtà, sono i veri vincenti…quelli che,della vita, hanno capito tutto.
Il pianoforte ha una precisa collocazione rispetto all’ambiente in cui la sua musica risuonerà:dobbiamo imparare a pensare a noi allo stesso modo.
Perciò, è auspicabile che il pianto duri solo il tempo di un concerto per lasciare il posto, nel domani, a un sorriso pieno, schietto e disimpegnato che si vada a disegnare, lieve lieve, sul volto:sarà il sorriso di chi, grazie al suono di una melodia finalmente riconoscibile, avrà imparato a esercitare e a far valere il proprio diritto a vivere da persona libera.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Un inverno senza fine.
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di REDAZIONE FUORI
L’arrivo in Europa della variante sudafricana, indicata con il nome di Omicron, alimenta di nuovo il timore di un “inverno pandemico” senza fine, una visione tragica da film apocalittico.
Al di là di una visione pessimistica della situazione, il timore di una previsione basata su fatti e dati concreti potrebbe essere giustificata almeno riguardo la speranza di una rapida uscita da questa crisi sanitaria (ed economica, e sociale).
Stiamo entrando nel terzo anno di pandemia, e comincia a farsi strada il pensiero di una convivenza con il virus.
La domanda rischia di diventare lecita, forse anche doverosa: “e se non dovesse mai finire? se dovessimo convivere per gli anni a venire con un “inverno” senza fine “?
È una domanda che è utile farsi, perché intanto è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che, attraversata una soglia critica, diventa cronica.
“Stiamo attraversando un periodo temporaneo di sofferenza” ci siamo detti, ” ma non dobbiamo essere pessimisti perché nessuna notte è infinita”.
Bisogna avere la forza di superare il momento di difficoltà, rinchiuderci, pregare il dio che avevamo dimenticato, e aspettare la luce del giorno.
“Torneremo ad abbracciarci tutti”, si diceva dai balconi, tra un canto e l’altro.
Grazie al sostegno di questo archetipo della speranza umana, e dell’umana saggezza, abbiamo retto anche in parte sorretti dalla novità, al primo spaventoso lockdown, poi alla seconda ondata, poi alla terza.
L’arrivo del vaccino, al netto dei no-vax, annunciava la luce del giorno tanto attesa.
Oggi, ad inizio dicembre 2021, con la quarta ondata che già sommerge buona parte dell’Europa, forse è necessario smettere di contarle.
Forse è più utile attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso una stagione che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un autunno perenne.
Un viaggio con destinazione sconosciuta.
Farneticazioni apocalittiche in stile hollywoodiano ?
Se avessimo il coraggio di tenere lo sguardo fisso sull’abisso, potremmo accorgerci che ci siamo già abituati ad un’emergenza permanente, quella ambientale.
Da decenni viviamo tutti in un mondo le cui condizioni climatiche vanno peggiorando in maniera progressiva, costante e probabilmente incontrovertibile.
Senza rendercene conto, ci stiamo rassegnando, e adattando, a eventi metereologici estremi, estati torride, inverni cataclismatici, devastazioni.
Ci stiamo rassegnando alle crisi migratorie, con le stragi in mare, che non sono più una notizia da prima pagina.
Siamo forse in grado di reagire a questi avvenimenti che occupano ormai la nostra quotidianità?
Politicamente sappiamo che non ne siamo capaci.
Il “mezzo successo” della COP26 di Glasgow non è forse un fallimento?
Riconoscere i nostri insuccessi, come comunità, è un passo doveroso e necessario. Prendere coscienza che il modello basato sui cicli di “morte e rinascita” dell’alternarsi delle stagioni applicato alla modello di società nella quale viviamo, comporta il riconoscimento della inadeguatezza della politica convenzionale come soluzione per risolvere i problemi di una comunità che ormai va considerata come una e sola, a prescindere dalla latitudine e longitudine di dove si vive.
La pandemia, e il cambiamento climatico sono scorie tossiche della globalizzazione.
La politica, con le sue cerimonie inamidate ancora basate su procedure del secolo scorso, non sembra in grado di saperle affrontare.
Se l’emergenza sanitaria diventerà cronica, così come ormai sono quella migratoria ed ambientale, si rischia di assistere, come già sta avvenendo in fondo, a forme di potere politico che si basano sulla sospensione o addirittura cancellazione delle consuetudini democratiche.
Le leadership populiste, i partiti che si rifanno al sovranismo, troveranno terreno fertile e sapranno raccogliere consensi dalle persone ormai sfinite da una condizione di continua emergenza sociale e privata.
Prendiamo coscienza che un’epoca è finita, che un’altra è cominciata, e prepariamoci ad affrontarla con uno spirito di adattamento a livello globale, e non con la rassegnazione di miliardi di singoli individui malinconici, rabbiosi e in fondo, disperatamente soli.
Questi ultimi due anni, caratterizzati da un periodo pandemico che sembra si stia avviando alla quarta ondata, dovrebbero ricordare ad ognuno di noi quanto è importante il contributo, apparentemente insignificante ma in realtà determinante, per riuscire ad evitare un nuovo lockdown, cogliendo anche l’opportunità offerta dalla scienza medica.
Anche se minoritaria, la voce di chi si oppone ad una evidenza supportata dai numeri rimane rumorosa eppure, in nome di un mal compreso ed egoistico principio di libertà e di fare ciò che si vuole, senza rispettare i propri simili, si rischia una ricaduta che sarebbe per molte persone, lavoratori, aziende, e dunque famiglie, probabilmente fatale.
Queste persone sono convinte di sapere esattamente come stanno le cose, e con una presunzione pari alla loro ignoranza, si ritengono pensatori liberi, che combattono il sistema e la dittatura sanitaria, a differenza del resto del mondo (superiore al 90%) che sarebbero invece sottoposti al lavaggio del cervello.
Pur in buona fede, almeno la maggior parte, queste persone parlano senza avere una vera conoscenza dell’argomento, e si limitano a ripetere concetti, slogan e ragionamenti urlati da altri.
Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro passioni una citazione, le loro esistenze una parodia. (Oscar Wilde)
Naturalmente è improbabile che chi ragiona così sia disposto a cambiare parere, o anche solo a limitarsi ad ascoltare un parere differente dal loro, dunque cercare di fargli capire che un atteggiamento e modo di comportarsi come questo, non ha niente di intelligente, razionale, o libero, rischia di essere un esercizio infruttuoso.
Però una riflessione andrebbe fatta, almeno tra chi come noi non appartiene a questa schiera di complottisti.
Dubitare e non fidarsi di chi ci “comanda” è sano.
Maturare una forma di pensiero critico, antidogmatico è, o dovrebbe sempre essere, l’obiettivo finale di ogni persona che ambisca a percorrere una strada che lo porti ad essere un “pensatore libero”.
Da dove deve partire questo percorso?
Potremmo dire che una scuola che forma l’atteggiamento critico è una scuola che è capace di indirizzare verso un atteggiamento democratico. Se la scuola sapesse formare una comunità di “pensatori critici” sarebbe una scuola perfetta. Ma la scuola è formata da insegnanti , che sono persone, la maggior parti delle quali non hanno queste capacità formative ed anzi, spesso, sono le prime che avrebbero necessità di impararle.
In un mondo ipotetico, tutti dovremmo aspirare ad essere autentici e liberi “pensatori critici”.
Ma la differenza tra pensatori critici e pensatori selettivi, cioè coloro i quali non si fidano di nulla e nessuno e vedono complotti ovunque, è che questi ultimi sono fermamente convinti di essere in possesso della verità assoluta, mentre i primi rappresenterebbero la massa , il gregge, i pecoroni.
Lo ribadiamo: bisogna sempre imparare a ragionare con la propria testa e mettere in discussione l’autorità.
Questo è doveroso farlo, sempre.
Ma bisogna farlo sulla base di fatti, prove, e non solo perché abbiamo una ideologia basata su convinzioni personali.
Se non riusciamo a costruire una capacità critica basata sui fatti oggettivi, sulla analisi dei dati che abbiamo in possesso, rischiamo di essere davvero come creta plasmabile in mano a chi ci vuole condurre verso obiettivi e tornaconti personali.
Non dobbiamo dubitare di tutto, naturalmente, così come non dobbiamo credere a tutto.
La credenza, senza motivazioni fondate, non ci aiuta a capire la realtà.
Ma allo stesso modo, il rifiuto basato sul pregiudizio non ci aiuta a capire la differenza tra qualcosa che potrebbe essere vero o falso, e qualcosa che in fondo, vorremmo che fosse vero (o falso).
Chi possiede la conoscenza possiede il potere.
Perché la conoscenza ci permette di capire di più e meglio.
Cerchiamo di coltivare sempre questa capacità di “sapere” e rendiamola ogni giorno più forte con l’arte del dubbio, che è un formidabile strumento di conoscenza.
In una società che abbonda di (dis)informazioni, i demoni dell’oscurantismo e del pregiudizio sono una conseguenza inevitabile.
Impariamo ed insegniamo ai nostri figli a pensare in maniera critica ma scientifica, basandoci sui fatti oggettivi e non sul sentito dire.
Potrebbe essere l’unico strumento che ci separa dal buio che ci circonda.
Redazione FUORI.
Comfort Zone [uscirne o allargarla?]
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Sophie Jodoin_Close your eyes | Richmond Art Gallery | Richmond,BC,Canada.
Uscire dalla comfort zone, saltarne fuori d’impulso, d’imperio, come se non ci fosse un domani, come se nemmeno ieri avesse più un posto nella memoria. Schizzare via dalla situazione attuale, per fiondarsi nella nuova situazione, nella nuova dimensione, rompendo le abitudini, le consuetudini, le comodità, appunto.
Fallo e basta, è l’essenza del tormentone, della presunta necessità di lanciarsi a piè pari nella nuova avventura, nella prossima competenza, nella mansione in divenire, come un paracadutista che, in un solo istantaneo gesto atletico, abbandona la tranquillità del velivolo, per approcciare una nuova incerta dimensione fatta di libertà, planando sospesi nel vento, cullati dalle correnti ascensionali.
Quante volte abbiamo sentito dire queste frasi? Quante altre volte ci è stato inculcato questo concetto, questa immediatezza, quasi un’urgenza che non prevede transizioni, passaggi intermedi, curve di apprendimento e tabelle di marcia?
Nel mondo del business (o comunque dell’evoluzione personale e delle proprie competenze) questo è un concetto travisato, estrapolato dal contesto logico ed erroneamente applicato, spesso allo scopo unico di creare l’ennesima formuletta magica, tipica di molti (pessimi) corsi e percorsi di crescita personale. Uno stereotipo formativo atto solo a far ricadere la totale responsabilità su noi stessi, attribuendo all’azione spontanea e istantanea, l’illusione del risultato.
Come se la programmazione e il ragionamento, fossero definitivamente démodé.
Ma la realtà si compone di una diversa natura e, per ogni abilità dello scibile umano, fatte salve le funzioni fisiologiche delegate al subconscio, è necessario un percorso, un adeguamento, una scaletta crescente di difficoltà e di elementi da apprendere. Come i bambini che imparano a parlare, a camminare, a giocare, modellando gli altri, questo percorso è necessario e imprescindibile in ogni campo, anche a scuola, nello sport, nell’arte, in qualsiasi altro ambito dell’umano scibile che possa venirci in mente. Uscire di colpo dalla zona di comfort, può solo (nella stragrande maggioranza dei casi) sortire un effetto depressivo, un’ancora negativa legata alla cattiva esperienza, una frustrazione che, di fatto, può inibire il percorso futuro e il desiderato raggiungimento dell’obiettivo.
E può portare al disastro, se quel salto comporta conseguenze dannose che, presi dalla foga del fare, non avevamo preso in considerazione.
Perché la questione non riguarda l’abbandono o meno del metaforico tepore della comodità. Questo è un concetto imprescindibile, necessario alla crescita e all’evoluzione umana. La questione è semmai da collocare nella gradualità, nella tempistica dell’azione, nella sequenza di passi da compiere e di cose da imparare, prima di fare quel salto nel buio.
Perché occorre essere preparati, anche per improvvisare.
Diversamente, non esisterebbero percorsi articolati a difficoltà crescente, per giungere al tanto agognato titolo di studio. Non si passerebbero dieci anni chini sulla tastiera di un pianoforte, per diventarne maestro, non ci sarebbero interminabili allenamenti per giungere alla condizione atletica desiderata e necessaria al raggiungimento di una maestria superiore. Esisterebbe solo un salto nel vuoto, fatto d’improvvisazione avventata e di forza di volontà, ma privo di ragionamento, di programmazione e di quella razionalità capace di gestire l’irrazionale emotività.
Uscire dall’inerzia, dall’apatia dettata dall’immobilismo e dalla mancata azione, questo significa uscire dalla zona di comfort. E se si tratta di un’attività che già sappiamo svolgere, come ad esempio tuffarci nell’acqua gelida, allora si, senza ragionarci troppo, trarremo un bel respiro e ci immergeremo per poi arrivare, nuotata dopo nuotata, a padroneggiare la nostra acquaticità. Ma uscire dalla zona di comfort è qualcosa di più importante e complesso dell’atto meccanico che rende azione un istinto, del fare ciò che già è alla nostra portata ma che comporta uno stress, un atto di volontà, quasi di fede, per portarlo a termine.
Uscire dalla metaforica comodità è soprattutto imparare, ogni giorno, qualcosa di nuovo, mettendoci alla prova e aggiungendo, ad ogni momento, l’ipotetica medaglia della nuova competenza acquisita.
Ma facendolo per gradi, seguendo un percorso logico, che ci motivi grazie ai piccoli traguardi raggiunti. Si esce dalla propria comfort zone, per piccoli passi, non fuggendo a perdifiato, come da un pericolo mortale, senza valutare cosa c’è oltre l’ipotetico confine.
Non si mangia un cocomero da otto kili in un unico grande morso. Non si diventa campioni solo con la volontà. Non ci si laurea esclusivamente con il desiderio. Nemmeno con il grande “Perché“, se nel tempo non si è acquisito un “Come” altrettanto solido e grande. E nemmeno si avvia un business senza le condizioni minime e necessarie a tenerlo in vita, proprio come non si mette in acqua un’imbarcazione, se la profondità dello specchio d’acqua non è sufficiente a sostenerla e a ospitarne il pescaggio.
La vita è fatta di procedure, di verifiche, di tappe da raggiungere, di obiettivi che, da linea di traguardo, possano diventare un nuovo inizio, una nuova linea di partenza verso un obiettivo più alto, più complesso, più difficile e appagante da raggiungere. E di condizioni a margine, minime e necessarie, per raggiungere quel nuovo step fino alla meta.
Chi guida, sa bene che ha dovuto seguire delle tappe obbligate e imprescindibili, per imparare a farlo. Ma se invece della piccola macchinina da autoscuola, fosse stato messo a guidare una Porsche Gt2, fin dalla prima esperienza, fin dalla prima prova di guida, cosa sarebbe accaduto? Probabilmente i tempi d’apprendimento si sarebbero allungati a dismisura, data la difficoltà di guidare una vettura sportiva (per un principiante, almeno) facendo scaturire, nell’apprendista, un’importante dose di frustrazione, fino al probabile abbandono del progetto o dell’obiettivo. Fino a diventare incapacità appresa.
Il mondo del business è un po’ più complesso di quanto descritto da tanti aspiranti startupper e imprenditori (ma solo sulla carta), o dai tantissimi “guru” che impestano i social con le loro frasette estrapolate dal contesto, stiracchiate in un nuovo presunto significato, rubate al filosofo antico e attribuite (per dar loro maggiore peso e valenza nel contesto) all’imprenditore di successo moderno.
Uscire da quella palude comportamentale, non è come varcare un banale segno di gesso, ma significa rivedere e correggere il proprio assetto mentale, per diventare ogni giorno qualcosa (o qualcuno) di nuovo, di migliore, di vincente. Ciò che si è sempre sognato essere. E lo si fa, necessariamente, per gradi, con i giusti passi e con i corretti tempi, fino ad allargare la nostra zona di comfort, invece di abbandonarla, rendendo comodo ciò che tale non era, in attesa della sfida successiva.
Non basta la volontà di uscire da quell’area di comodità, per diventare persone migliori. Abbiamo bisogno anche di una bussola e di un orologio. E di saperli usare, senza che sia una forzatura, bensì un percorso fluido e appagante verso il livello superiore.
Altrimenti, lo stereotipato concetto, forzato all’estrema conseguenza, a ogni costo, in ogni condizione, rimarrà sempre e solo un cumulo di sciocchezze. Sontuose, inascoltabili e pericolose sciocchezze!
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Noi viviamo come se dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili.
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Di Paul Gauguin – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=717355
La classica domanda a cui cercano di rispondere le religioni e le filosofie è “chi siamo, da dove veniamo e perché”.
Un po’ meno scontato, ma a nostro avviso egualmente interessante, è invece chiedersi perché l’uomo senta la necessità di porsi questo quesito.
È vero che i filosofi, sono coloro i quali hanno fatto di questa indagine il perno dei propri studi e della propria riflessione teorica, ma secondo noi, il movente che li ha spinti in questa direzione non è soltanto quello intellettuale.
Pertanto, partendo dalla premessa che la “domanda delle domande”, ben prima di essere formulata da filosofi e teologi, è ragionevole ritenere che essa sia stata affrontata almeno una volta nella vita da chiunque sia in grado di intendere e volere, ci metteremo nei panni di chi, come noi, magari fin da ragazzi, ci siamo posti lo stesso interrogativo.
Osservare la questione da un altro punto di vista.
Come tutti gli esseri umani, secondo un’interpretazione psicologica, se accettiamo il presupposto della teoria freudiana così come viene enunciato nel libro intitolato “Al di là del principio del piacere”, due sarebbero gli istinti o le pulsioni, per lo più inconsci, che guidano il comportamento umano.
Il primo è la pulsione alla vita, il secondo la pulsione alla morte.
Diciamo subito che questi due termini non vanno presi alla lettera e quindi direttamente associati al significato che essi assumono nel linguaggio comune, in quanto Freud per elaborare questa teoria, si era ispirato al pensiero del filosofo ellenico Empedocle il quale, nella sua visione cosmologica prevedeva, oltre a quelle che lui definiva le 4 radici dell’esistenza, ovvero aria, acqua, terra e fuoco, anche l’esistenza di due poteri divini, ovvero “φιλότης/filotes- amicizia” e “νεῖκος/neikos – lite”.
In termini metaforici questi due termini condensavano su di loro due principi.
Filotes, il cui scopo era “fondere”, “riunire”, “attrarre” le 4 radici, mentre neikos, aveva la finalità di “allontanarli”, “dividerli” , “separarli”.
Trasponendo questi principi sul piano psicologico, potremmo dire che il primo rappresenterebbe, sempre usando una terminologia freudiana, la pulsione che spinge l’individuo a crescere, ad espandersi, ad avere sempre di più, a voler occupare spazi sempre maggiori, il secondo invece, a ritirarsi, a rinchiudersi in se stesso quando sopraggiungono eventi ritenuti ostili.
Gli stessi termini, secondo invece la terminologia usata da altre correnti di studiosi, sarebbero rispettivamente l’istinto di espansione ed l’istinto di conservazione.
La maggior parte delle teorie basate sull’osservazione dei fenomeni naturali, sull’analisi del comportamento sociale ed individuale, hanno preferito per dare maggior importanza e quindi a focalizzare studi ed analisi, intorno all’istinto di conservazione, che è quello che polarizza i sentimenti e quindi, le scelte che facciamo, quando la priorità del momento è quella di difenderci da un evento esterno percepito come pericoloso o frustrante.
Ma come sostiene lo psicanalista junghiano Louis Corman, ciascuno di noi è sottoposto ad entrambi le pulsioni, (tralasciamo in questo contesto per semplificazione e praticità che secondo lo psicoanalista Carl Jung, saremmo invece soggetti, ad un numero maggiore di “sollecitazioni inconsce ad agire” da lui definiti complessi) che prendono il sopravvento a seconda dei momenti.
Dell’istinto di conservazione si è detto e scritto molto, mentre di quello di espansione, se ne parla in riferimento a quegli aspetti legati alla vita adulta che sfociano nella spinta al possesso impulsivo di beni materiali, in ambito lavorativo a voler fare carriera a tutti i costi o nel come caso dei governanti del passato, ad ambire alla conquista territoriale mediante l’uso della forza.
L’istinto di espansione come pulsione primaria.
A noi interessa in particolare, soffermarci su quell’impulso che si manifesta fin dai primi giorni di vita e che orienta i comportamenti del neonato nei confronti dell’ambiente esterno con lo scopo di prenderne il possesso.
Ci riferiamo all’istinto primigenio, quello che spinge il bambino ad assimilare nel senso più ampio, ovvero a mangiare spinto oltre che dalla soddisfazione del “principio del piacere”, anche dal desiderio di apprendere per imitare e relazionarsi i suoi genitori, dette anche figure di riferimento e crescere, per migliorare le proprie le proprie capacità motorie in modo da “padroneggiare” l’ambiente che lo circonda.
Ma è dall’interazione e dal confronto con coloro che costituiscono il primo contatto con il mondo esterno, sia dal punto di vista materiale (i genitori si prendono cura di lui quando ha bisogno di sfamarsi, di muoversi o di cambiarsi), che emotivo (lo scopo di coloro che si prendono cura del neonato è quello di creargli un ambiente emotivamente il più possibile sereno) che egli sentirà di non essere più al centro della loro attenzione e quindi sperimenterà le prime frustrazioni.
Tutto ciò mette in discussione il cosiddetto “Es” o “Id”, ovvero, quella componente primitiva della personalità, che fino a qualche tempo prima gli forniva l’illusione, ogni qualvolta le richieste venivano prontamente esaudite, di essere onnipotente.
Ed è a questo impedimento alla manifestazione libera del proprio “Es”, che il piccolo reagisce in maniera per lo più elementare, ovvero facendo prevalere gli istinti primordiali che lo inducono ad esprimersi in maniera aggressiva e rabbiosa mediante pianti, urla, pugni stretti e vibranti e sguardi astiosi nei confronti dell’oggetto di amore/odio che non ha soddisfatto prontamente le sue pretese.
È la complessità della relazione che fa sorgere in lui la consapevolezza di non essere, come aveva ritenuto all’inizio, al centro di quel universo da dominare con la propria personalità e quindi, prende il sopravvento l’istinto di conservazione che lo guiderà verso comportamenti più maturi che tengano conto dell’esistenza di altre identità con le quali confrontarsi.
Solo in un secondo momento, grazie allo sviluppo ed all’affacciarsi delle capacità intellettive, prenderà piede in lui quella riflessione, che lo condurrà ad indagarsi sul perché soffre e quali possano esserne le vere cause, nella speranza che grazie alla loro conoscenza possa o prevenirle oppure mettere in atto comportamenti che hanno lo scopo di limitarne gli effetti.
È come se dalla presa di coscienza di non poter avere sotto controllo tutti gli aspetti della propria vita, sorgesse in lei o lui, la speranza o l’illusione, che la conoscenza la o lo possa preservare in futuro da ulteriori fonti di ansia o di dolore.
Come si manifesta l’istinto di conservazione ?
A questo punto l’individuo, di fronte al dilemma ontologico, mette in atto tre tipi di risposte.
Il primo modo, consiste nel attuare l’istinto di conservazione in senso stretto ovvero, ritraendosi completamente in sé stesso per tenere lontane quelle che sono ritenute le cause della sofferenza.
Questa strategia, per così dire rinunciataria, consiste o in quella che i filosofi epicurei definivano “l’atarassia”, ovvero nel ritrovare la pace interiore mediante l’uso di tecniche che portino alla liberazione dalle passioni, oppure far ricorso alla virtù degli stoici, la cosiddetta “apatia”, ovvero la qualità raggiunta dai saggi che consisteva nel ottenere il distacco dai patimenti della vita.
Oppure infine, perseguendo una vita virtuosa con l’aiuto della “catarsi”, ovvero mediante la pratica di riti purificatori che liberano dal dolore interiore, accedendo a riti o pratiche di meditazione che permettono di riacquisire l’equilibrio o la pace interiore messe in discussione dai contrasti o dagli accadimenti della vita.
Ma esiste una seconda reazione, tipica invece di coloro che di fronte a limiti ed ostacoli, si prodigano in una ricerca intellettuale, che consiste nel porsi domande intorno al senso ultimo dell’esistenza partendo dal presupposto, che dalla scoperta della causa prima, si possa dare un senso alla sofferenza e quindi alleviarla.
Questo è il percorso delle filosofie e dei filosofi, i quali sono alla ricerca di modelli che cercano di fornire un senso all’esistenza.
Ma esiste anche una terza alternativa.
Stiamo parlando delle religioni, che forniscono una dottrina che attribuisca un significato all’esistenza ed alla sofferenza, partendo da assiomi non necessariamente dimostrabili, così come vengono intesi dall’uomo del XXI secolo, ma ipotizzando l’esistenza di uno o più creatori ritenuti i motori primi e la causa sia di un mondo immanente che di uno materiale.
Secondo questa visione, sarebbe compito della religione, la cui missione in senso etimologico consisterebbe nel “ricollegare “(dal latino “re-ligere”) l’uomo al cielo, fornire un senso escatologico all’esistenza ed alle sofferenze umane.
Osserviamo che seppure queste ultime due strade pur condividendo la medesima domanda, ovvero “soffro , ma allora, perché soffro?”, in realtà propongono due soluzioni divergenti.
Infatti, mentre per la filosofia il dibattito intorno alla ricerca del senso dell’esistenza è fluido, in continua evoluzione e nessuna risposta è mai definitiva, nel caso delle religioni il dibattito è possibile solo nella misura in cui non si entri in contrasto con i dogmi o la rivelazione.
Il senso dietro alla ricerca del fine ultimo.
Desideriamo concludere questa breve riflessione, rimarcando che in accordo con l’ipotesi da noi formulate, al di là delle risposte che il singolo, che si tratti di un intellettuale, di un teologo o di una persona comune, cerchi di darsi, essi sono accomunati da una pulsione, una spinta od una motivazione, che prima di essere intellettuale o spirituale, proviene una necessità interiore e quindi psicologica, di placare l’incertezza del vivere e sperimentare le proprie fragilità soprattutto quando si tratta di affermare se stessi o quando ci troviamo in competizione con gli altri.
Pertanto, a nostro avviso, è dalla reazione alla fragilità umana, quello che abbiamo chiamato istinto di conservazione e non, dall’ambizione dell’intelletto umano, in altre parole dall’istinto di espansione, che nasce il bisogno di cercare una risposta intorno al fine ultimo della vita.
Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale è importante tanto quanto quella razionale.
Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.
Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.
Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.
Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.
Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.
Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.
Dentro la mia bottiglia vuota stavo costruendo un faro, mentre tutti gli altri stavano facendo navi.
C’è una stanza, illuminata di giorno e di notte, è circolare nonché piena di pulsantiere a pannello e spie colorate.
Fa venire voglia di pigiare a caso, di far parte del meccanismo, di vivere l’incertezza che può scatenare la pressione su uno qualsiasi dei tasti.
Se ci si accosta alle immense vetrate, un po’ appannate dalla salsedine e dalla condensa, si vede il mare da qualsiasi angolazione.
Il cielo è sempre all’altezza del cuore e lo si dipinge a piacimento, con i colori della quotidianità.
Il fragore del moto ondoso e il turbinio dei venti che soffiano,incalzanti, scandisce lo scorrere del tempo, così come gli stati d’animo. Dalla tempesta, al sereno in un batter di ciglia:mentre, in realtà, magari, in quella stanza, è già trascorsa una vita intera.
E’ un rifugio, per quanti vivono un idealismo di trincea e una parossistica sete di conoscenza.
Lo si raggiunge dopo aver percorso un intricato labirinto sulle cui scivolose pareti scorrono, in rapida sequenza, voci, suoni, volti e immagini del passato:la sola chiave di lettura di un presente ricurvo su se stesso e spasmodicamente teso alla ricerca di un sano intimismo contemplativo e di una nuova naturalità del sentire.
Una specie di piccolo regno proibito, in cui gettare via l’usuale costume di scena fatto di spavalderia e granitiche certezze e farsi lacerare, tramortire dal dubbio e da tutto quel che provoca scissione tra la dimensione fisica e spirituale dell’Essere.
In codesta stanza, la legge che regola gli improvvisi aneliti del pensiero e i suoi incauti slanci verso il Superiore, stenta a contrastare la potenza e il vortice delle pulsioni terrene che tengono il corpo saldamente ancorato al suolo.
È lì dentro che si aprono infinite fessure su storie di imperfezione umana, brandelli solitari di vite consunte dal pianto e da ordinari, inconfessati strazi: si gioca con la logica stringente della fine che si fa principio e del principio che si fa fine, alimetando continui capovolgimenti di ruolo tra un nuovo essere (e seppure,poi, che cosa?) e un poco rassicurante esser stati (piuttosto misera cosa).
In questo stato di imperterrito fervore, si cerca di stanare una preda chiamandola per nome a occupare un posto in un non luogo del non spazio e del non tempo che la mente stenta a prefigurarsi: è un eterno delirio di fronte a misteri incommensurabilmente più grandi rispetto alla conoscenza di sé; chissà…forse, chi arranca nella tempesta di profezie e promesse di un mondo migliore, in quella stanza trova solo l’approdo più sicuro. La propria, personale dimensione di quiete.
La protezione da chi, là fuori, schernisce ma non vuol essere schernito e riesce a dar senso alla propria esistenza solo assaporando il gusto della sfida, rovesciando, con mano nuda e ferma, la sfolgorante clessidra che regola l’andamento di vite semplici, tendenti alla mitezza, al sorriso e alla voglia incontenibile di capirsi.
All’interno della stanza, può capitare di voltarsi fulmineamente e di non vedere più il cielo e il mare, tutt’intorno.
A volte, è l’irrimediabilità a governare, incurante della danza di turbini di sabbia finissima e colorata che, agitandosi tra le vitree pareti di una storia, nascondono la verità mentre schiere di errori mai perdonati e occasioni sfumate si presentano alla porta, bussando con insistenza.
Con il collo stretto dal giogo del cadenzato rincorrersi dei giorni sull’orologio della vita, chi occupa quella stanza di forma circolare persevera ingaggiando disperate battaglie con il nemico TEMPO, colpevole di aver disperso, come foglie al vento, gli echi di lacere esistenze e voci di una guerra mai sopita.
Resta la speranza di invertire il corso degli eventi: è una spada con cui si può fendere l’aria e, allo stesso modo, la propria, personale storia. E più si assestano colpi, più è possibile sentire quella speranza aumentare dentro di sé.
Non sbarrare la porta vuol dire rifuggire gli stati monocordi e i toni monocromatici del quadro dell’esistenza, dipingere il giorno e la notte con gli unici e soli colori che si riescano a distinguere mentre, confusi, giacciono su deboli cuori a forma di tavolozza. Perchè è da quei colori che nascono i migliori dipinti del mondo.
Vedere mani che si muovono sulla tela del tempo con inusitata certezza e sembrano orientarsi con estrema disinvoltura tra le pieghe di uno straordinario vortice cromatico in cui, ciò che siamo, diventi centralità assoluta:questo è dare senso alla permanenza in quella stanza.
Breve o lunga, non ha importanza.
Viaggiando attraverso gli ingranaggi e i precisi meccanismi della caleidoscopica, affascinante realtà racchiusa in quel piccolo microcosmo, si riesce persino ad apprezzare la vita e la si vede finalmente assurta alla realizzazione della sua massima aspirazione:l’atarassia, una specie di avveniristica panacea alle inquietudini e ai mali del nostro tempo.
La mia stanza sta in cima a un faro. Il faro sorveglia tutt’intorno e mi sorveglia dentro con la lentezza tipica della sua luce rotante. Al tramonto, quando le sfumature di rosa e arancio si disegnano nel cielo e prevalgono, come ad annunciare la fine della burrasca, la mia anima sorride e si libera, insieme ai gabbiani, in un volo disordinato ma imperturbabile.
Mi piace indugiare in cima al faro e in quel volo, soprattutto quando non condivido le dinamiche di ciò che avviene sulla Terra, quando quel che vedo non mi piace e mi fa male.
Perciò vi chiedo scusa se ,anche per oggi, non scendo e mi trattengo ancora un po’.
L’importante è che sappiate sempre dove trovarmi. Facciamo finta che, ogni tanto, da qualche parte, su questa Terra, si possa contare anche su di me.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Parlando di rigidità cognitiva, ci riferiamo a quella resistenza mentale che, sempre pronti a riscontrare negli altri, spesso non siamo capaci di percepire in noi stessi. Si tratta di una resistenza psicologica che ci esclude dalla visione altrui e che, da buona parte degli alternativi punti d’osservazione, il nostro sguardo preclude, negandoci panorami inediti e realtà parallele, comprese quelle soluzioni che, per effetto di questa rigida imposizione, stentiamo a trovare o siamo impossibilitati a elaborare.
Sigmund Freud ha definito la rigidità cognitiva come “una miniera da scoprire e un ponte da superare” perché, grazie a questa presa di coscienza, è possibile far emergere molto della psicologia di un soggetto o del paziente. Secondo il padre della psicoanalisi, la resistenza al cambiamento rappresenta quel punto in cui emergono atteggiamenti e comportamenti che ostacolano la guarigione rappresentando, al tempo stesso, la punta dell’iceberg di un problema soggiacente.
Al di fuori dell’ambito terapeutico, riconoscere la propria rigidità di pensiero, non può che essere foriera di una personale elevazione.
Occorre proprio entrare nell’ottica di un miglioramento possibile, per comprendere che, gran parte del nostro quotidiano e ordinario “disagio di vivere“, così come buona parte delle nostre inadeguatezze, deriva dalle nostre convinzioni inamovibili, da quell’ecosistema di certezze e credenze che riteniamo verità assoluta e che, divenuto Bias comportamentale, definisce il nostro agito. Una forma mentis che si nutre della cultura e dei valori tipici del nostro ambiente di vita, che c’impregna dei suoi stereotipi, alla quale ricorriamo con slancio e senza esitazione alcuna, per strutturare la nostra stessa vita, recintandola in un perimetro/realtà monotono e monocromo, invariabile, privo di slancio ed entusiasmo per il nuovo, per il cambiamento e per l’opportunità.
Riconosciuto il limite autoimposto, si può scoprire molto su noi stessi e conoscendoci, come auspicava Socrate, iniziare un percorso di miglioramento profondo e personale, appagante e produttivo, che ci migliori, elevandoci dalla miseria di un quotidiano autoimposto.
Gli psicologi statunitensi Gould, Robinson e Strosahl, nel libro “Real Behavior Change in Primary Care” del 2011, ci spiegano che la rigidità cognitiva è definita da tre elementi fondamentali:
Mancata connessione con il presente;
Incapacità di riconoscere e gestire le priorità;
Intolleranza nei confronti dell’incertezza.
Secondo i ricercatori, i soggetti succubi della rigidità cognitiva, spesso vivono in una dimensione mentale esterna al presente nella quale, ogni apertura destabilizzante, è sistematicamente chiusa. Lo scopo è evidentemente quello di evitare paura e incoerenza, facendo muro contro muro ed ergendo vere e proprie barricate verso quelle aperture, foriere di nuovi aneliti d’alternativa interpretazione. Vivendo strettamente concatenati con le cause degli eventi (almeno secondo il loro personale punto di vista), dall’attualità di quegli eventi si scollegano, rinchiudendosi nella lamentela e nel rimpianto dei “bei tempi” andati. “Si stava meglio quando si stava peggio” è l’esempio lampante, ignorando che, già all’epoca le lamentele fossero le stesse di oggi e che, per effetto della resistenza al cambiamento e dell’essersi resi alieni ai propri tempi, la nostra mente chiusa sovrascrive un ricordo, rendendolo reale, al di là delle oggettive smentite. Basterebbe leggere un qualunque quotidiano degli anni ’70 dello scorso secolo, per renderci conto di come i problemi e le relative lamentele, siano ciclici e sempre fedeli a se stessi. Basterebbe ascoltare la canzone “Svalutation” di Adriano Celentano che, seppur pubblicata nel 1976, sembra un testo dei giorni nostri, per rendercene conto. Passa il tempo, cambiano le mode ma le parole di chi rigidamente rifugge le novità, restando arroccato nel proprio piccolo mondo antico(citando a sproposito Antonio Fogazzaro), piangendosi addosso invece di far qualcosa per togliere le castagne dal fuoco, sono sempre le stesse.
Il secondo elemento preso in esame nel libro, ci porta alla valutazione del corretto ordine delle priorità, che rende chiaro ogni processo, ogni tabella di marcia, ogni sequenza procedurale, scadenze comprese. Conoscere se stessi, conoscendo e abbattendo i propri limiti, tra cui la rigidità cognitiva, aiutano ad aprirsi al nuovo, al cambiamento, alle diverse prospettive, senza la paura dello sconosciuto o dell’errore, per cogliere finalmente le opportunità a esse correlate. Al contrario, una persona soggetta alla rigidità cognitiva, riconoscerà come valide solo le sue stesse regole, procedure e modi di operare, chiudendosi al confronto e alla stessa crescita e arroccandosi nello sterile “si è sempre fatto così“. Non solo. Un soggetto cognitivamente rigido, tenderà inevitabilmente a essere intollerante nei confronti delle idee diverse dalle sue e, addirittura, nei confronti di coloro che reputa diversi da se stesso, per una serie di motivi quali le convinzioni personali, l’idea politica o religiosa, fino ad assurgere all’esasperazione xenofoba: il colore della pelle dei migranti, percepiti come pericolosi invasori, divoratori della nostra cultura e demolitori dei nostri profondi valori. Ma sono davvero così profondi, quei valori, se basta qualche migliaio di disgraziati in fuga dall’inferno, per metterli in crisi?
In ultima analisi, la rigidità cognitiva porta a non tollerare l’incertezza, le variabili, l’inaspettato che, per la natura stessa dell’umana esistenza, sono in continuo agguato. Sempre secondo Freud, è invece l’adattività della mente, una delle più grandi risorse dell’essere umano, permettendogli di pensare e agire fuori dagli schemi, con originalità, flessibilità e creatività. Diversamente, in presenza di questa chiusura, la risposta all’inaspettato sarà spesso quella più radicale e meno adatta ad affrontarlo, al punto da negare i punti di vista alternativi, le strategie nuove o fuori dagli schemi, fino a deridere le innovazioni e negando addirittura il diritto d’espressione altrui.
Eppure, fatti salvi i casi di chiusura mentale patologica, dovuti alla demenza, all’autismo e al disturbo ossessivo compulsivo (o ad altre patologie, per le quali si consiglia il supporto di uno psicoterapeuta) basterebbe aprirci al mondo leggendo, viaggiando, accettando il dialogo e il confronto, imparando sempre cose nuove e cambiando spesso il punto di osservazione sul mondo, guardando quel mondo, ogni giorno, con occhi nuovi, per allenare la nostra mente all’elasticità, alla tolleranza, al rispetto e al dialogo, a quel confronto che tutto permette e ogni cosa rafforza, anche i nostri pensieri, le nostre azioni e la vita stessa di ognuno di noi.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Gli eventi della seconda guerra mondiale sono ben conosciuti da tutti noi ma il dolore nel sentirli raccontare è sempre grande, tutte le volte.
“L’ombra del soldato” è il racconto intenso della convivenza di Luigi, il protagonista della storia, con il fantasma del soldato Luca, che vive in lui.
La terra piange e i ricordi del soldato, militare alpino, sono forti e impietosi sul protagonista.
Gli accadimenti degli alpini in Russia, durante la Seconda guerra mondiale, tornano vivi alla memoria così come le conseguenze scatenate dagli eventi di guerra.
L’alpino amava fortemente Gina e la forza del suo sentimento gli aveva dato la forza di resistere nei momenti più difficili. L’affiatamento che si creò con i compagni alpini al fronte era speciale e le storie dei soldati è commovente e dolorosa: chi di loro era riuscito a salvarsi?
Luigi vive sempre più intensamente le sue visioni, che sempre più difficilmente riesce a gestire in modo distaccato dalla quotidianità.
Cosa rappresenta la misteriosa scatola rossa ritrovata in casa dal protagonista?
Come si legheranno fra di loro le strane coincidenze che avvengono nella vita del giovane Luigi? Luca, il fantasma, è sempre più presente e le persone che hanno rivestito un ruolo importante nella sua vita mano a mano entrano anche nella vita del protagonista.
Per fortuna il giovane viene supportato dalla fidanzata, Pamela, che rappresenterà un sostegno fondamentale alla ricerca della verità sul soldato Luca Biscioni. Nel progredire delle visioni Luigi rischia di perdere il contatto con la realtà e anche con la fidanzata… sarà abbastanza forte la coppia dei tempi moderni?
Cristina Cireddu ci regala un romanzo davvero coinvolgente, per certi punti di vista leggermente e vagamente horror, ma assolutamente ben narrato e appassionante. Gli intrecci della storia di Luigi, giovane “posseduto”, ben si legano a quelli del fantasma alpino, Luca, e non sono mai noiosi o banali.
Dolce Luca, l’alpino, la tua forza e la tua poesia sono un esempio per tutti noi.
Sicuramente “L’ombra del soldato” è anche un omaggio al corpo militare degli alpini, i cui valori sono sempre stati ben difesi dai soldati anche durante il difficile periodo della Seconda guerra mondiale.
Al termine della lettura dell’ “Ombra del soldato” viene naturale prendersi un momento di silenzio da dedicare a tutte le persone rimaste coinvolte nell’orrore della guerra: nel passato e, purtroppo, nel presente.
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Se hai creato una macchina cosciente non si tratta della storia dell’uomo, ma è la storia degli dei.
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https://www.123rf.com/profile_willyambradberry
di Matteo Moro_
Un film del 2004 con protagonista Will Smith, “I Robot” ispirato al libro omonimo di Isaac Asimov, aveva posto in tempi forse non ancora maturi, una questione che sempre di più oggi sta diventando attuale.
Cosa potrebbe succedere se le macchine acquisissero autocoscienza? E fino a che punto può e deve spingersi l’innovazione tecnologica?
I dilemmi propri della coscienza umana sono stati l’elemento centrale di uno studio dei ricercatori di “Allen Institute for AI” con lo scopo di creare un sistema in grado di apprendere norme morali ed assumere comportamenti eticamente fondati, cercando di ottenere risposte a problemi etici che si pongono le persone nella loro vita pratica quotidiana.
Interrogativi come “È morale tradire il mio coniuge? E’giusto aiutare un amico in difficoltà anche se viola la legge?” e altri quesiti che richiedono analisi profonde e sicuramente non logiche.
Il sistema messo a punto, basato su algoritmi di deep learning, è in grado di replicare immediatamente con giudizi e risposte come “sì” o “no”, “è giusto”, “è sbagliato”, “è ragionevole”, “è scortese”, “è pericoloso”, “è irresponsabile”, “non si fa”, anche riuscendo a mettere a confronto diverse situazioni che implicano opzioni etiche.
Lo scopo dichiarato dei ricercatori, è stato quello di testare la capacità di un sistema, ancora in versione beta, di apprendere norme morali e assumere comportamenti eticamente fondati, in un momento in cui l’intelligenza artificiale si diffonde progressivamente nella società e interagisce sempre di più con le attività umane in diversi settori.
All’Intelligenza Artificale vengono ormai affidati compiti sempre più articolati, solitamente quelli dove non vengono considerate implicazioni morali, dalla valutazione dei profili dei candidati ad una posizione lavorativa, alla concessione di prestiti, anche se stanno aumentando i robot che assistono le persone con disabilità, per non parlare ormai dei famigerati chatbot con i quali interagiamo nel servizio clienti di quasi tutte le aziende.
Ma occuparsi dell’etica delle macchine è diventata ormai una esigenza che non si può più rimandare e questo soprattutto per assicurare una più sicura interazione tra sistemi artificiali intelligenti ed esseri umani. È necessario, in particolare, insegnare all’ intelligenza artificiale a comprendere ciò che è sbagliato e ciò che è giusto, a partire dal modo di pensare di una persona comune rispetto alle molteplici e complesse situazioni della vita reale.
L’obiettivo è ambizioso, oseremmo dire irraggiungibile, almeno nel breve termine.
Per cercare di fornire un data base di riferimento è stato creato un archivio che contiene quasi due milioni di esempi di giudizi umani riferiti a questioni concrete.
Il risultato è un prototipo di intelligenza artificiale che mostra grandi potenzialità nel ragionare in modo etico, imitando il pensiero di un individuo medio americano, del quale riflette gli stessi pregiudizi, ma anche forti limiti e lacune.
E’ un sistema che mostra evidenti limiti rispetto ad alcune risposte fornite, ma anche e soprattutto rispetto alla pericolosità di affidare ad una macchina le scelte morali tipiche dell’essere umano.
Il sistema è tutt’altro che infallibile, come ogni esperimento in fase beta erano inevitabili errori, vizi e aggiustamenti, e questo era prevedibile; ma la capacità del modello di auto-correggersi rende il tutto un po’ inquietante e apre a scenari futuri meno scontati e sicuramente sorprendenti.
Matteo Moro
Architetto dati che lavora nel settore dell’informatica e dei servizi. Interessato alla matematica, al monitoraggio delle prestazioni e a tutto ciò che riguarda il Machine Learning. Professionista dell’ingegneria con un Master focalizzato in Matematica e Informatica presso l’Università degli Studi di Roma Tre e l’Univeristé Aix-Marseille.
Alla fatidica, roboante domanda:«Cos’è la felicità?» potrebbero essere fornite miliardi di risposte, tutte ugualmente calzanti e dense di significato, in base al sentire comune.
Se fossi io a dovermi pronunciare, direi senza alcun dubbio che, in questo momento della vita, per me la felicità consiste nell’ascoltare il DAIMON.
Si tratta di una recente scoperta e mi fa piacere condividerla perché mi ha permesso di capire, per esperienza diretta, che la realizzazione dell’individuo, nel corso dell’esistenza, non segue uno schema precostituito,di rigida fissità: per arrivare alla meta non esiste LA STRADA, esistono TANTE STRADE POSSIBILI.
La meta non è altro che il compimento del nostro destino, è ciò a cui siamo singolarmente chiamati per dare senso alla nostra presenza nel mondo. La vocazione, intesa dal punto di vista dell’anima,può essere seguita effettuando una specifica scelta professionale oppure assecondando un’esigenza che spinge, pressante, verso una forma d’arte, un’ideologia, un’attività sportiva, uno stile di vita.
L’essenziale è riuscire a decifrare il codice intimo e recondito che ci è stato individualmente attribuito per dare compiutezza a quella che Paulo Coelho definisce, in maniera mirabile,la leggenda personale. La realizzazione della predestinazione dell’anima contribuisce,oltretutto, ad allontanare la prospettiva di una vita infelice, irrisolta e frustrante, nonchè a farci capire quale essenza incarniamo. Del resto, Platone era solito dire che noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere e questo ragionamento rende scontato che sia necessaria la volontarietà: non devono essere le dinamiche di remissività e mera casualità a scegliere per noi.
A proposito del tema della realizzazione, è chiaro che la naturale attitudine dell’anima non coincide necessariamente con la realizzazione economica – di cui,però, non mi sento di negare la rilevanza ai fini della sopravvivenza – perché si tratta di due sfere distinte:l’una riguarda una dimensione prettamente spirituale, l’altra attiene ai bisogni materiali e terreni.
Il DAIMON, infatti, secondo le teorie filosofiche nate con Socrate e Platone e riprese in tempi più vicini a noi da C. G. Jung e J. Hilmann, non è altro che una sorta di “corredo genetico dell’anima” che viene fornito a ciascun individuo ancora prima di venire al mondo: è la sua dote, il suo patrimonio di talento e creatività (un po’ genio, un po’ sregolatezza) singolarmente instillato e che, una volta che l’anima di ciascuno di noi si è incarnata nel corpo, viene del tutto dimenticato, al punto che ci sembra di essere nati vuoti.
In realtà il DAIMON giace inascoltato e, per lo più, compresso ma è come brace che cova sotto la cenere perché,la sua,è una lotta forsennata per farsi largo e liberarsi dalla gabbia in cui la dimensione della coscienza lo tiene prigioniero. Non si placa fino a quando non viene assecondato.
Essendo un partner della sola anima, fa a botte con la parte razionale di ognuno di noi che, presi come siamo dalle necessità quotidiane, dalle incombenze legate al lavoro e alla famiglia nonché da stili di vita spesso concitati e superficiali, tendiamo a ignorarne il richiamo.
Anche io confesso di aver trascorso buona parte della vita reprimendo la chiamata del mio DAIMON.
Ho sempre nutrito una forte passione per la scrittura ma ho finito con l’accantonarla per anni,in nome di una miriade di quelle che ora, col senno di poi, riesco serenamente a qualificare come false priorità.
Proprio queste ultime, mi hanno reso totalmente sorda e cieca a qualsiasi volontà di appagamento dell’ispirazione creativa che, alla fine, si è manifestata in maniera davvero impellente. E io mi sono dovuta arrendere a questa forza dirompente.
E’ avvenuto tutto in una fase della vita in cui mai mi sarei aspettata il verificarsi di così tanti, concomitanti avvenimenti, alcuni dei quali non lasciavano certamente presagire l’assecondamento, da parte mia, della vocazione alla scrittura.
Innanzitutto, qualche anno fa, ho deciso di lasciare la professione di avvocato dopo più di quindici anni di carriera: è stato difficile, doloroso, un po’ mortificante…forse. Amavo il mio lavoro e ho sempre cercato di dare il massimo. Alla mia età, dopo una delusione del genere, avrei potuto arrendermi…altro che daimon!Ma questo non è accaduto.
Successivamente, è scoppiata la pandemia e, anche in tal caso, avrei potuto lasciarmi travolgere dagli eventi e piangermi addosso.
Invece, proprio in un momento tanto critico, di grandi dilemmi ed altrettanti, mille interrogativi su quello che il futuro avrebbe potuto riservarmi, il mio daimon si è aperto il giusto varco, io mi sono concentrata su quella voce interiore e l’ho ascoltata iniziando un percorso di vera e propria rinascita,riappropriandomi di me stessa e delle mie passioni, ormai da troppo tempo sopite.
D’altra parte nessuno, intorno a me, avrebbe potuto essermi di aiuto perché, se il mondo esterno non è in grado di decodificare il messaggio del DAIMON, neppure il DAIMON riesce a comprendere la realtà che lo circonda. C’è un’incomunicabilità pressoché irrisolvibile, se non da noi stessi, nel momento in cui diamo la possibilità a questa famosa luce interiore di illuminarci il cammino.
Sta di fatto che non solo ho ritrovato le giuste motivazioni per reinventarmi professionalmente ma ho ricominciato anche a scrivere. Ho trovato addirittura il coraggio di pubblicare un libro – scelta che, fino a qualche anno fa, avrei considerato una follia – e, grazie a una speciale energia benefica che mi accompagna ormai da diversi mesi, in questo momento ho persino l’opportunità di poter divulgare i miei contenuti attraverso delle collaborazioni piovute letteralmente dal cielo.
Scrivo tanto, sono ispirata e percepisco, a livello quasi epidermico, quella energia creativa di cui ho sentito ripetutamente parlare documentandomi sui risvolti filosofici e psicologici della teoria del DAIMON. Non è una colpa rispondere alla sua chiamata:non è follia…al contrario, è garanzia di benessere.
Scrivere,infatti, mi fa stare bene e mi aiuta a esorcizzare perplessità, paure e insicurezze. Adoro condividere le mie emozioni con altre persone ma non ne cerco l’approvazione a tutti i costi. Anzi, preferisco pensare che le mie parole generino dibattito e forniscano spunti critici, in modo da poter avere occasioni di confronto, anche a distanza, con quanti mi leggono.
Non so esattamente dove mi porterà il percorso che ho intrapreso e forse neppure sono smaniosa di trovare a tutti i costi una risposta a questo quesito. Sono partita senza pretese, senza darmi obiettivi precisi e totalmente priva di ambizioni:faccio quello che mi piace e, per me, è già tantissimo. Provo a coltivare la mia passione in sordina, a piccoli passi.
L’unica cosa che so è che, dal 2019 ad oggi, non c’è stato un solo istante in cui abbia percepito come infruttuoso, sbagliato, insensato l’ascolto della voce del mio DAIMON.
Lui sapeva già tutto ancor prima che ci conoscessimo. Io no, ma mi sono affidata. E non tornerei indietro, perché ho sperimentato delle emozioni intense e genuine che hanno reso unica e irripetibile la mia personale esperienza.
Una volta il mio DAIMON mi ha detto: “scrivi tanto, non smettere mai perché ti fa stare bene e ti condurrà a cose buone” . Si è avverato tutto.
Rispondere alla sua chiamata, così come decidere di pubblicare un libro – che, tra le altre cose, racconta in nuce di come ho seguito la mia vocazione – è stata una delle cose migliori che abbia fatto nella vita, dopo i miei figli.
Certo, l’esperienza che ho vissuto è decisamente più articolata e densa di aneddoti,ma intendo rispettare una precisa consegna di riserbo e ossequioso silenzio nel non rivelarli. Ho imparato ad apprezzare e praticare la discrezione a oltranza come stile di vita. Credo sia un buon allenamento finalizzato a evitare di ripetere determinati errori e a porre rimedio a quelli ,eventualmente, commessi finora.
La mia sarà anche una storia come un’altra, forse banale…di quelle che passano inosservate ma cedere alla banalità o passare inosservata per non averla raccontata, mi avrebbe resa decisamente più infelice e soprattutto avrebbe impedito a chi la sta leggendo in questo momento di comprendere che, nella ricerca della vocazione spirituale, non si è soli. Anche se, poi, la scelta finale di rispondere alla chiamata è esclusivamente nostra.
Rudyard Kipling diceva “Quando ti fai guidare dal tuo DAIMON ,non cercare di pensare coscientemente. Lasciati andare, aspetta e obbedisci “.
Io mi sono lasciata andare, l’ho ascoltato, ho obbedito e ora non lo lascerò più andare via.
Glielo devo, in nome del sogno di realizzazione interiore che mi ha regalato da cui, francamente ,spero proprio di non svegliarmi.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
A seguito di un recente intervento chirurgico, in fase di risveglio, ho avuto una esperienza di “disfunzione cognitiva” post operatoria (legata agli effetti della anestesia) che potrei considerare come esempio di esperienza allucinogena.
Le sensazioni che ho vissuto in stato di semi incoscienza si erano alterate.
Ricordo vagamente che cercavo di mettere a fuoco il contesto, inutilmente, ed avevo la sensazione di vivere un momento totale in cui l’esistenza acquistava un significato al di là del momento e del posto in cui mi trovavo.
Sentivo voci lontane, forse erano i medici o le persone presenti nella stanza in cui mi trovavo.
Non stavo osservando, ma ero qualunque cosa stesse accadendo.
Avevo la consapevolezza finalmente di avere un ruolo preciso in questo mondo, al pari degli insetti, delle piante e del “Tutto” da cui ero pervaso.
Ero davvero in contatto con tutta l’esperienza: qualunque cosa accadeva faceva parte di me.
Non c’era più presente, passato o futuro, ma solo un’esperienza universale e totale in cui percepivo sì la differenza fra le cose, ma alla fine la differenza mi sembrava arbitraria, sostituibile da un’infinità di altre distinzioni altrettanto valide.
Gli opposti si sono uniti, grande e piccolo, bello e brutto, amore e odio, maschile e femminile e l’illusorietà di questa distinzione era evidente. Tutto era chiaro. Si era rivelato di colpo, con una semplicità sorprendente. I ricordi dimenticati, sono riaffiorati.
Le emozioni erano gestibili, mi sentivo ispirato ed illuminato.
Avevo la percezione profonda di uno stato d’animo positivo, anche un vago senso di sacralità, un contatto con una realtà ultima la cui verità sembrava reclamare la propria esistenza.
Ma non ho mai visto ciò che non c’era.
Ero consapevole di essere vivo e in grado di sperimentare questa esperienza, ma con nuovi punti di vista.
[cambio scena]
Recentemente l’iconico chitarrista Carlos Santana ha rilasciato un’intervista in cui ha parlato di ispirazione, e del ruolo fondamentale della spiritualità nella musica.
“Attraverso l’uso di sostanze in uso a quei tempi” – ha detto – “potevamo raggiungere elevatissimi livelli di creatività, irripetibili altrimenti”.
Lungi da me riconoscere la validità di questa osservazione, peraltro relativa ad un momento storico e culturale di un altro Paese e di un altro secolo.
Del resto, ed è storia della cultura moderna, l’uso e l’abuso dell’acido lisergico si diffuse nei circoli intellettuali e nell’ambiente della psicanalisi, per poi esplodere con la cultura hippie, di cui fu manifesto e principale motore.
“ E siccome la cultura hippie da controcultura si fece rapidamente cultura di massa, ci passarono tutti – milioni di studenti americani e inglesi – ma anche i Beatles e i Rolling Stones, i Grateful Dead e i Jefferson Airplane, Jack Nicholson e Liz Taylor, Allen Ginsberg e William Burroughs, Oliver Stone e Stanley Kubrick, e la lista potrebbe continuare (pochi conoscono, ad esempio, i trascorsi lisergici di Federico Fellini, o Elsa Morante)..”
Oggi, nella Silicon Valley ad esempio, si è diffuso il microdosing, l’utilizzo di quantità minime di acido lisergico per ottenere solo un’amplificazione dei sensi e delle capacità cognitive senza arrivare all’effetto pienamente psichedelico. Secondo studi documentati, l’uso parziale di alteranti di coscienza creerebbe un’effettiva “espansione della coscienza”, mettendo in connessione parti del cervello normalmente non in dialogo e organizzandole in un “ordine armonico”.
L’argomento niente affatto facile della rivalutazione degli psichedelici dopo decenni di moralismi, leggende urbane e false notizie, ci consente di approfondire le capacità di incrementare la propria creatività, attraverso tecniche che oggi vengono amplificate dalla tecnologia (vedi realtà virtuale attraverso i visori 3D, o i videogame immersivi) che ti permettono di provare esperienze tipiche dell’estasi, ad esempio.
Il volo magico, l’ascensione verso il cielo, la discesa agli Inferi, il dominio sugli elementi, e così via – tipiche dello sciamanismo – si rivelano già integrati in una particolare ideologia e convalidati da tecniche e tecnologie specifiche.
Oggi, e lo dico per confortare i moralisti che scriveranno della inopportunità di questo articolo, il mondo della medicina guarda agli psichedelici come una delle frontiere più promettenti per il trattamento delle afflizioni più disparate, dalla depressione, alla prevenzione dell’Alzheimer, dall’ansia nei malati terminali alle dipendenze, o come coadiuvante alla psicoterapia.
Possono essere definiti casa le nostre abitazioni e quelle dei nostri amici e parenti ma anche il contesto delle esperienze vissute e gli eventi che si susseguono dall’infanzia alla vita adulta.
La storia familiare e personale di una persona può essere raccontata in tanti modi e Andrea Bajani utilizza un modo davvero particolare di presentare quella di “Io“.
“Io” si racconta analizzando la casa prima dall’esterno, con un approccio molto tecnico, e poi all’interno descrivendo ogni elemento delle ulteriori “sotto case” che compongono gli avvenimenti accaduti.
La storia di “Io” è piena di dolore e il ricorso ai numeri feedback serve forse a spulciare nella memoria per ricercare i momenti più leggeri e felici, che purtroppo non sono molti.
Il dolore viene raccontato bene dalle numerose “case” che compongono la scena; queste sanno essere davvero impietose nel riportare a galla i comportamenti e le parole che hanno fatto tanto soffrire “Io“.
Io cresce e vive fra Torino e Roma e in entrambe le città non riesce a trovare pace.
“Nonna“, la madre Padre, sa bene che il figlio si arrabbia spesso perché è venuto al mondo e poco valgono la bella casa al mare affittata tutti gli anni per la famiglia e le dolci storie della buonanotte raccontate ai nipoti.
Il dolore e la rabbia di “Padre” sono incontenibili e tutti in qualche modo ne vengono coinvolti, senza troppe vie d’uscita.
“Nonna” e “Madre” non riescono a proteggere “Io” e “Sorella“; il rapporto fra i due fratelli purtroppo non riesce a rafforzarsi.
“Padre” non lascia spazio alle unioni.
Io riesce a conoscere l’amore e a costruire la casa della propria famiglia ma riuscirà a risarcire le ferite del passato?
Quando “Moglie” dovrà affrontare un momento della vita molto difficile, la casa del loro rapporto avrà fondamenta abbastanza solide?
Con “Figlia“, quale rapporto stabilirà “Io“?
La vita fuori da “Io” non è meno difficile e dolorosa.
C’è la casa di “Prigioniero“: verrà catturato?
C’è la casa di “Poeta“: che cosa gli è capitato nella Roma corrotta?
Alla fine, ci sarà una casa che riuscirà ad alleviare il dolore di “Io“?
Il punto di vista raccontato nel “Libro delle case” è davvero particolare e interessante e il lettore non potrà vivere la storia senza rimanerne coinvolto!
[Nota della Redazione di Fuorimag.it]
Il romanzo di Bajani ha lo scopo di indagare le strutture sentimentali di un uomo attraverso gli spazi reali e immaginari che occupa. Il lettore ha così la possibilità di accedere a diversi ambienti nello spazio e nel tempo. Un capitolo dopo l’altro, un insieme di tessere di un puzzle che prende forma, la vita di “Io” si rivela al lettore nella sua complessità emotiva ed esistenziale.
Attraverso questo percorso, il romanzo racconta pezzi della nostra storia [vissuta in prima persona dal sottoscritto], dagli anni ’70 fino ai giorni nostri: l’uccisione di Aldo Moro, il ritrovamento del corpo martoriato di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, sono ricordi indelebili che irrompono nella narrazione e riaprono ferite mai guarite. [ADL]
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Che siamo bombardati dalle notizie, senza nemmeno avere il tempo di verificarne la correttezza e la provenienza, è un dato di fatto. È la natura stessa delle nostre comunicazioni, il supporto tecnologico che le veicola, il ritmo di vita a cui tutti siamo sottoposti, nonché la fretta che ci autoimponiamo, a determinare questa velocità che, se da una parte ha l’indiscutibile beneficio di tenerci informati e aggiornati, dall’altro assume il sadico piacere di portarci fuori strada, facendoci credere ai falsi miti (di qualsivoglia materia) per fretta, semplicità o convinzione, quindi per coerenza con il nostro punto di vista su quelle tematiche.
Tra i tanti miti che ci giungono ogni giorno, ci sono quelli dovuti alla cattiva informazione, allo scarso livello di approfondimento, alla superficialità di chi dà vita a queste falsità (che a volte sono solo mezze verità o errate interpretazioni, più o meno a scopo di lucro), conoscendo a malapena l’argomento e spacciandosi come luminari dello stesso.
Ecco che quindi, in ambito business, dove la crescita personale e professionale è pane quotidiano o, per lo meno tale dovrebbe essere, i miti privi di fondamento alcuno, in tema di psicologia e mente umana, la fanno da padroni.
Facendo riferimento al bellissimo quanto utile libro “50 Great Myths of Popular Psychology” (spiacente, non credo esista la versione italiana) scritto dallo psicologo statunitense Scott O. Lilienfeld, in collaborazione con Steven Jay Lynn, John Ruscio e Barry L. Beyerstein, approfondiamo insieme alcuni tra i più famosi miti sulla mente umana e, più in generale, sulla psicologia.
In chiusura parleremo anche di una curiosità controintuitiva del nostro stesso funzionamento, qualcosa a cui difficilmente pensiamo e che raramente sappiamo spiegarci. A cui forse, nella sua banalità, nemmeno avremmo pensato.
Uno tra i falsi miti più famosi e longevi, deve la sua origine alle parole travisate del ben noto William James, il quale, ormai un secolo fa, o giù di lì, dichiarò: “sinceramente dubito che le persone usino più del 10% del loro potenziale intellettuale”. Da lì in poi, il disastro. Il potenziale umano, nella dozzinalità delle cattive interpretazioni che diventano falsi miti formativi, è giunto fino a noi diventando “usiamo solo il 10% del cervello”, diffondendosi a macchia d’olio, dando vita a teorie speculative che pretendono di aumentare quella percentuale (non sempre il 10%, a volte ci si spinge addirittura al 7 o al 4) attraverso corsi di formazione più sciamanici che scientifici, atti a “riaccendere il cervello sopito” (si, dicono esattamente così). Ora, è indubbiamente vero che una mente allenata, proprio come un muscolo, possa aumentare la sua efficienza, la prontezza, la potenza di elaborazione e di immagazzinamento dei dati. Può farlo anche di molto, prove alla mano. Ma si parla di potenziale, non di cervello, di processi cognitivi, non di fisiologia. Per sfatare questo mito, qualora la logica non fosse sufficiente e la differenza tra cervello e potenziale non fosse così lampante, basti pensare che, il cervello umano, rappresenta grosso modo il 3% del peso corporeo e che, nonostante il suo evidente stato di minoranza fisica, “brucia” più del 20% dell’ossigeno che respiriamo. Possibile che l’evoluzione abbia permesso un così immotivato dispendio di risorse vitali? Esiste il risparmio cognitivo, vero, ma tenere spenta parte della macchina-cervello non sarebbe produttivo. Domande retoriche a parte, le Neuroscienze non hanno mai trovato un riscontro oggettivo all’esistenza di aree silenti del cervello (per lo meno in assenza di traumi rilevanti). Nemmeno la corteccia silenziosa è davvero tale (infatti oggi si definisce corteccia associativa, non più silenziosa).
Ma non complichiamoci la vita inutilmente e andiamo avanti.
Un altro pericoloso stereotipo (un falso mito, col tempo diventa tale, nella mente delle persone) è quello che vorrebbe la scarsa autostima, come protagonista assoluta di ogni problematica psicologica. Anche in questo caso, a travisare il concetto, stravolgendolo e utilizzandolo a evidente scopo di guadagno, sono stati moltissimi formatori e autori di crescita personale che, per il proprio tornaconto, hanno spinto sull’acceleratore di un concetto sbagliato: nessun problema di ansia, di successo, di depressione o relazionale, discende da una cattiva autostima. L’analisi di oltre 15.000 casi clinici, da parte del prof. Roy Baumeister, nel tentativo di confutare questi presunti legami, ha di fatto smentito la tesi. Non solo non è riscontrabile alcun legame concreto con l’abuso di alcol, farmaci o droghe, ma nemmeno vi è un concreto nesso logico tra la bassa autostima e la depressione. Resta ovvio che il giusto atteggiamento semplifica le cose, ma è una questione di atteggiamento, appunto, non di autostima. Una considerazione, semplice e lapidaria, demolisce per sempre questo falso mito: sono i risultati a far crescere la stima in noi stessi, non il contrario. What else?
Procediamo il viaggio, entrando nel merito del processo cognitivo che tutti gli altri sostiene: la memoria. Il falso mito imperante, nella psicologia popolare, la vorrebbe meccanicamente simile a un videoregistratore. Ma al di là di ciò che crediamo, la nostra memoria non è così infallibile e i nostri ricordi non sono fedeli e testuali come vorremmo o come ottimisticamente speriamo. Essi, infatti, sono soggetti a deformazioni e distorsioni, a condizionamenti esterni, a suggestioni che ne alterano i contorni, all’effetto della cultura che ci impregna, ai tabù e alle fobie da cui siamo dominati, che li plasma e li modifica, fino a snaturarli del tutto. La psicologa Elisabeth Loftus, che ha dedicato buona parte della sua attività professionale a questo argomento di ricerca, ha ampiamente dimostrato la fallacia dei testimoni oculari, quando questi sono oggetto di disinformazione. Addirittura i falsi ricordi possono essere letteralmente impiantati, attraverso processi suggestivi e d’immaginazione. Diversamente, in tribunale, i testimoni oculari avrebbero molto più peso di quanto realmente hanno. Poco o niente!
Un’altra credenza popolare, totalmente destituita di fondamento ma che continua a piacere, mai assente dalle conversazioni “popolari” è il vecchissimo adagio secondo cui “Gli opposti si attraggono”. Una convinzione radicata nel 77% della popolazione, che è diventata lo slogan di molte agenzie matrimoniali e siti d’incontri. Quindi, ancora una volta, una bugia a scopo di lucro. Studi approfonditi, dando sostanza all’altro più approfondito proverbio “gli opposti si attraggono, ma solo chi si somiglia si piglia”, hanno dimostrato scientificamente che, soprattutto nel caso delle relazioni sentimentali, gli opposti proprio non si attraggono. Al contrario, sono i tratti in comune, a costruire una fiducia, un rapport, una complicità duratura, un vero e proprio stato di felicità condivisa. Una mosca bianca, in un gruppo di mosche nere, potrà anche attirare l’attenzione, ma sarà esclusa dalla gran parte delle possibilità riproduttive. Questo falso mito, che tanto piace alla commedia romantica, si basa sulla presunzione del completamento di noi stessi grazie all’altro, ovvero del luogo comune secondo cui, in una coppia, ci si completi a vicenda. Aspetto poeticamente affascinante, in minima parte vero, ma scientificamente inconcludente.
Un mito tra i più pericolosi, invece, è quello che vorrebbe i criminali più furbi, capaci di ottenere l’infermità mentale in tribunale. Non solo questo concetto è totalmente erroneo (ci sono molte perizie di parte e controparte, in un processo, per giungere a tale concessione) ma nella mente comune è dilagato al punto da credere che, quella dell’infermità mentale, sia una richiesta diffusissima. Questa convinzione trae origine anche dalla mentalità forcaiola, che considera la pena un atto di vendetta e la presunta patologia una via di fuga, quasi un regalo al colpevole. Recenti statistiche ci dicono che, negli Stati Uniti (è da lì che arriva il libro) tale richiesta è formulata solo in un risicato 1% dei processi e che viene concessa solo nel 25% di quei casi. Diversamente, in carcere, ci sarebbero solo i secondini, mentre i colpevoli sarebbero tutti in strutture psichiatriche giudiziarie, per quanto queste ultime possano essere addirittura peggiori dell’esperienza carceraria.
La verità è che i falsi miti e le spiegazioni semplicistiche ci piacciono e ci rassicurano. La mente umana agisce spesso in virtù del potentissimo principio di coerenza e, in ossequio a esso, formula e apprende. Coerenza verso noi stessi e le nostre credenze e convinzioni, certo, ma occorre ricordare che, quelle che crediamo nostre sincere convinzioni, altro non sono che la media di quelle della nostra cerchia di riferimento. È qui che entra in gioco la capacità di analizzare le informazioni, approfondirle e metterle alla corda del pensiero critico, cum grano salis.
Uno stereotipo, messo sotto sforzo dalla ragione, rompe la crosta della superficialità e implode sotto il peso della propria insussistenza, lasciando spazio alla verità. Acquisita la capacità di osservare le cose con coscienza, presenti a noi stessi, ragionatamente per non ingoiare ogni fandonia ci giunga, potremo dirci soddisfatti di aver aumentato l’utilizzo del nostro potenziale intellettuale (con buona pace di William James).
Concludendo, una curiosità sul funzionamento della nostra mente. Non un falso mito, bensì una verità scientificamente provata, nonostante sia controintuitiva e difficile da accettare a rigor di logica.
La nostra mente riesce a elaborare le idee migliori, quando è stanca!
Sembra assurdo, vero? Eppure, i ricercatori hanno dimostrato come, l’impossibilità momentanea di opporsi alle idee strane e inconsuete, o di fare muro contro il pensiero laterale ricorrendo a stereotipi o bias cognitivi, o riducendo la propria elasticità mentale, ci permette di non precludere ciò che, diversamente, nemmeno avremmo preso in considerazione o che, addirittura, avremmo considerato folle, in un altro momento della nostra giornata.
E questo spiega la produttività della doccia, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro o dopo l’allenamento, o di quel momento magico che precede l’addormentamento, quando la coscienza stremata apre le porte della percezione (non quelle farmacologiche di Aldous Huxley) permettendoci di vedere le cose da prospettive nuove, diverse e mai osate a mente fresca.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.