Fai pace con la tua storia.

di Mario Barbieri

C’è una nuova recente serie, attualmente disponibile su Netflix, che pur nel suo “fantascientifico” o supposto tale soggetto, propone degli spunti di riflessione tutt’altro che banali.

La prima suggestione, la prima domanda che potrebbe salire alla mente, durante o alla fine della visone di questa 1a stagione – io non so se ne vorrei una 2a tanto la 1a potrebbe considerarsi “finita”, anche se con scenari completamente aperti – è quella che scaturisce di fronte al ritorno di persone scomparse: un dono dal Cielo o un evento potenzialmente capace di distruggere la nostra vita e il nostro “equilibrio”?

Non si tratta di uno scenario da “Il ritorno dei morti viventi” o da “L’invasione degli ultra-corpi” (film cult del 1956), anche se alcuni elementi potrebbero dirsi comuni, ma del veder prendere o ri-prendere vita, persone, individui, esseri, in tutto e per tutto umani, con i loro pensieri, emozioni e apparentemente motivazioni.
Non necessariamente dei morti resuscitati, ma anche “cloni” coesistenti con i loro “originali” – talvolta persino la “versione migliore” del proprio originale – che prendono a convivere nella stessa piccola comunità, costretta a vivere in un disabitato paesino finlandese, bloccato dall’eruzione di un enorme vulcano, le cui ceneri rendono grigio il vivere dalla terra al cielo.

È interessante scoprire la reale profonda motivazione che giustifica, muove, queste genesi: conflitti, sentimenti, paure, speranze, rimpianti, angosce, segreti, amori infranti o sospesi, sono questi in realtà il seme piantato in una fantascientifica – verosimilmente aliena – roccia vulcanica, dalle cui profondità come da un utero, queste figure emergono e iniziano a vivere e convivere con il mondo esterno.
Immaginiamo, i nostri sogni o anche i nostri incubi, quando, credo non di rado, rincontriamo persone non necessariamente decedute, ma perse nella storia e nel tempo, a noi legate per un qualsivoglia motivo e trasferiamo questi sogni, queste persone, nella concreta realtà del giorno dopo, al nostro risveglio.
Scenari e situazioni, consolatorie a volte, di ritrovata gioia anche, ma tal altre, cariche di angosce, di ritrovati conflitti, di introspezioni dolorose… Figure che ritornano.

Quanti avvenimenti, persone, situazioni, abbiamo rinchiuso nel nostro passato per poi “buttar via  la chiave”? Abbiamo chiuso quel sottoscala, quell’abbaino della nostra memoria, quel luogo rimasto oscuro e freddo, come le viscere del vulcano della “fiction”, scegliendo coscientemente di non ritornarvi per nessuna ragione.
Non è che tutto ciò sia sbagliato, talvolta è necessario, è questione di legittima difesa, la necessità di voltare pagina, ma è pur sempre un sorta di realtà sospesa, un binario morto che abbiamo deciso e voluto attivando quello scambio, per restare noi sui binari che procedono verso quell’orizzonte che si spera più sereno.

Tutto questo in una serie televisiva, su uno di canali più in voga, sotto le mentite spoglie di una serie fanta-thriller dagli scenari inverosimili (per noi forse) ma assolutamente realistici?
Beh si, può essere, può essere quando c’è un certo spessore di trama, sceneggiatura e regia (anche se Finlandese ;-), perché no?

A questo punto non vi dirò il titolo della serie, il senso non era una “promo”, ne tanto meno – Dio me ne scampi e liberi – “spoilerare” come usa dire, è solo un invito a riflettere sulle vostre, nostre vite, semmai dovesse capitare quanto fantascientificamente raccontato.

Il senso ultimo è tutto nel titolo di questo articolo.

Per il resto avete abbastanza spunti per andare a cercare la serie da cui sono partito per il mio sproloquio (io me la sono già vista tutta)…

Poi magari ne riparleremo.

Note sull’Autore

Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Nella mente di Tomasi di Lampedusa

(di Cristiana Caserta)

Abbiamo letto tutti Il Gattopardo. Abbiamo visto il film, più verosimilmente.

Abbiamo citato la questione del cambiare tutto per non cambiare niente, quasi sicuramente.

Dimentichiamocene.

 “Ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici”

Lo diceva Italo Calvino. Intendeva: costanti, idee e immagini che si ripresentano allo scrittore e monopolizzano (ossessionano?) la sua attenzione. Immagini pervasive nel Gattopardo:

  • smisuratezza
  • mescolatezza
  • inconsistenza
  • tardività.

[Sulla trama, si può sorvolare: la difficoltosa unione di due famiglie, una principesca l’altra borghese, fra molti dialoghi, descrizioni, soliloqui che mostrano la vita quotidiana del Principe di Salina – risvegli, abluzioni, vestizione, riposi, passeggiate – e della sua famiglia; le loro occupazioni – pranzi, cene, balli, visite, recite del rosario -; la vita pubblica (udienze del Re, colloqui con gli ospiti); le case con i loro ornamenti, le relazioni pubbliche e private.]

Cominciamo dalla smisuratezza. L’elenco non può che cominciare proprio dal protagonista del romanzo, Don Fabrizio, Principe di Salina: “l’urto del suo peso da gigante” sul pavimento della villa, nell’atto di rialzarsi dopo la recita quotidiana del rosario, è il primo impatto che il lettore ha col personaggio.

Sulla smisuratezza fisica del Principe, che viene chiamato “zione” dal nipote Tancredi e dalla bella fidanzata Angelica e “Principone” dalla prostituta Mariannina, Tomasi ritorna svariate volte: per sottolinearne l’altezza, la forza, la potenza della figura; che fa rimpicciolire, per contrasto, tutto ciò con cui egli viene a contatto: la moglie piccolissima, le figlie che egli sovrasta mentre salgono la scala del palazzo Ponteleone, nel capitolo del ballo, nonostante sia un gradino più in basso. Altre cose del romanzo sono piccolissime e tuttavia degne di nota: una macchiolina di caffè sul panciotto bianco guasta l’umore di Don Fabrizio; gigante, egli maneggia con erotica cura viti, ghiere, bottoni, lo specchietto per la rasatura, il pennellino con cui ripulisce uno strumento astronomico (mentre padre Pirrone parla, accalorato, del futuro postunitario della Chiesa).

Ma la potenza attrattiva del grandissimo e del piccolissimo vanno oltre il Principe e la sua persona: grandissimo è tutto ciò che circonda il principe: la zuppiera e i piatti del Principe (gli altri commensali hanno piatti normali), il cane Bendicò (alano), il palazzo di Donnafugata (il più amato), smisurato; ma “sentimentucci” sono per Don Fabrizio quelli della figlia Concetta per Tancredi; “piccolissimo” e “sciacalletto” è Don Calogero, il futuro consuocero.

[Quando Don Fabrizio lo abbraccia, durante la cena di fidanzamento, egli resta con i piedi ridicolmente penzolanti.]

La grandezza smisurata è spessissimo fonte di disgusto e di nausea: come davanti allo smisurato buffet del ballo di palazzo Ponteleone – una celebre descrizione – stracolmo di pietanze.

Mescolatezza è parola sconosciuta ai vocabolari ma eloquente. Non c’è frase, definizione, descrizione del Gattopardo che non contenga un’antitesi, un “ma”, un’ossimoro, a partire dalla “rattoppata tovaglia finissima” per finire col “profumo” “pudrido” del giardino.

Tutto è avvertito da Tomasi come accozzaglia: i colori della nuova bandiera, il frack di Don Calogero (“panno finissimo” ma “taglio semplicemente mostruoso”). Mescolata è del resto la persona stessa del Principe, mescolato il suo “sangue” “in cui fermentavano essenze germaniche”, il suo temperamento mezzo siculo e mezzo teutonico, che lo fanno estraneo ai suoi simili.

La mescola tocca un punto notevole nella breve descrizione del giardino di villa Salina, dove, trapiantate su suolo siciliano le rose parigine si ingigantiscono e diventano “cavoli osceni” (ma ovviamente la madre delle mescolanze è la Sicilia, mescolanza di genti, di produzioni artistiche, di culture).

Il carattere mescolato delle cose è (quasi sempre) degenerazione: la mescola quasi mai riesce e solitamente, è deprecata: quella dei nobili con i villani, quella del nord col sud, quella del nuovo col vecchio. Privilegiato è ciò che è in grado di resistere, secolo dopo secolo, alla mescolanza: a patto però di una altrettanto ‘brutta’ piattezza: la natura, il paesaggio monotono e perenne, teatro impassibile della storia. 

Inconsistenza.  Inconsistenti sono i pensieri del Principe (negli altri Tomasi entra raramente): nel senso non di ‘superficiali’, ma di ‘instabili’, ‘mutevoli’. Don Fabrizio cambia infatti umore e idea con estrema facilità: durante un pranzo, il contatto con la mano della mano della moglie desta in lui il desiderio di un’altra donna – Mariannina – e la conseguente decisione di recarsi a Palermo a vederla; poi la reazione sconfortata dello moglie gli causa un pentimento, senza che tuttavia egli sia capace di revocare la decisione presa; da ultimo, quando è sul punto di entrare nella vettura, don Fabrizio si pente di nuovo, ma stavolta è proprio la reazione esasperata della moglie a confortarlo nella decisione di recarsi a Palermo, non più per desiderio di Mariannina né per la vergogna di revocare l’ordine dato, ma per evitare di assistere alla crisi isterica di Maria Stella.

Questa inconsistenza (“pusillanimità”) è lucidamente intesa dal Principe, in certi momenti, ma come un deus ex machina, sopraggiunge sempre, a schermare la verità, una qualche costruzione ideologica: “la Sicilia”, “il ceto”, la “nobiltà”.

Il centro del romanzo è lo sfarzoso ballo, in un palazzo nobiliare del centro di Palermo. Don Fabrizio è descritto mentre ‘erra’ fra i saloni: gradualmente, egli è preso dalla consapevolezza dell’inconsistenza di tutto ciò che lo circonda. Dapprima ad essere negativamente colpito è il suo senso estetico: un senso di insoddisfazione per l’arredamento, antiquato, per le signore brutte e anziane, per le giovani donne, querule (“bertucce”); poi è la sua intelligenza frustrata dalla stupida ottusità degli uomini, infine il suo senso morale offeso dall’avidità di Don Calogero, incapace di apprezzare la bellezza della sala da ballo, e dall’ipocrisia di Tancredi e di Angelica che ballano, nessuno di loro buono, “ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete”.

Inaspettatamente, dopo questa amarissima notazione, non vi è alcuna presa d’atto, alcuna riflessione!

“Ma cari” prosegue Tomasi, “e commoventi” Con movimento inverso (anticlimax) al salire della nausea di poco prima, adesso la corrente della pietà e dell’amorevolezza da Tancredi e Angelica “comunque cari”, riscende verso le “bertucce” basse e olivastre, verso i nobiluomini ottusi, “il ceto” sociale tutto, ora “i suoi amici”, i soli fra cui è a suo agio etc..

Sotto il segno della tardività è infine tutta l’ultima ‘parte’ del romanzo: dove tardivamente si scopre la verità, la vera misura delle cose: l’amore non era amore; l’odio non era odio; il passato e la memoria di esso si rivelano inservibili, falsi.

Bendicò, il cane amatissimo del Principe, che, morto era stato impagliato e custodito con cura dalle figlie ormai vecchie, ora viene buttato via: con immagine geniale, il corpo di Bendicò gettato sul mucchio della spazzatura – nel lancio – sembra per un ultimo istante il corpo di un cane, vivo.

La forma, la vita, nascono dal gesto postumo, tardivo; sono ri-create (dalla letteratura)! proprio mentre ci si libera della materia di quella forma e di quella vita.

https://it.linkedin.com/in/cristianacaserta

https://independent.academia.edu/CristianaCaserta




Nomadland e l’emozione di tornare al cinema

Frances McDormand in the film NOMADLAND. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 20th Century Studios All Rights Reserved

(di Annalisa Rosati)

Dal 26 aprile in tutta Italia – o, meglio, in tutta l’Italia “gialla” – i cinema hanno finalmente riaperto.

Questa ripartenza, che comunque soffre del coprifuoco, dovendo così rinunciare al secondo spettacolo serale, della capienza ridotta e della voglia di sedersi al tavolino di un bar per l’aperitivo, a differenza della riapertura di giugno 2020, arriva all’indomani della notte degli Oscar© e gode di un’offerta culturale davvero ricca.

La prima settimana di programmazione si apre dunque con un campione che nell’ultimo anno ha fatto incetta di premi: Nomadland di Chloè Zhao, Leone d’Oro a Venezia, due Golden Globes e tre Oscar©, fra cui Miglior Film, Miglior Regia e Migliore Attrice Protagonista all’immensa Frances McDormand, che fra l’altro questo film lo ha anche prodotto.

Il pedigree di Nomadland è presto detto: Chloè Zhao trionfa con il suo film ovunque abbia avuto, in questo anno a luci spente, uno schermo per presentarlo. Passa alla storia come la prima regista asiatica premiata agli Oscar e la seconda vincitrice per la miglior regia in tutta la storia del cinema. E questo già ci dice molto del nostro tempo. Sceglie come interprete principale una donna over 60 e, insieme, calcano il red carpet più famoso del mondo praticamente make up free. Che strano definirla una scelta coraggiosa, ma di fatto sono due antidive che si presentano alla prima occasione sociale dopo la pandemia e, in mezzo a una parata di star, chiedono al loro contenuto di parlare per loro.

Empire, Nebraska, 2011. In seguito alla chiusura della fabbrica cittadina per la crisi economica, la città industriale di Empire viene completamente cancellata dalle cartine americane. Una dei suoi abitanti, Fern, già vedova da qualche anno e inoccupata dopo vari tentativi occupazionali senza successo, carica il suo furgone e parte alla ricerca di incarichi stagionali e di una nuova vita alternativa al “sistema” che per lei non ha funzionato. Tappa dopo tappa, Fern si ritrova parte di una comunità di nomadi, orfani di quel sogno americano che con la crisi del 2006 si è portato via tutto, soldi, sogni e salute, randagi in costante movimento in cerca di una via diversa dal mero materialismo: c’è un reduce del Vietnam che soffre di sindrome da stress post traumatico e ha trovato nella sua solitudine una soluzione pacifica per allontanarsi dai centri urbani e dal rumore della società organizzata, ci sono persone che attraverso il loro “viaggio terapeutico” stanno faticosamente cercando di affrontare un grave lutto, c’è chi non ha più niente, e con niente ha scelto di continuare a vivere. C’è una donna che racconta la storia di un collega e amico che, dopo aver passato un’intera vita dietro alla scrivania, arrivato a un passo dalla sognata pensione, si è ammalato e se n’è andato, sprecando in ufficio i suoi anni migliori, senza avere il tempo e l’occasione di “incassare” la sua libertà, mai arrivato premio per aver servito il sistema una vita intera.

Queste e altre storie Fern incontra sulla strada, la storia di un’altra America, invisibile, drammatica, ma affrontata da Nomadland con una incorruttibile dignità.

Il minimalismo degli oggetti ridotti all’essenziale, fra utensili e ricordi, che i nomadi portano con sé si accompagna al senso di immensità reso dalle inquadrature spaziose di paesaggi sconfinati: come dire, legarsi a niente per avere tutto. Una fotografia poetica insieme al gioco di opposizione tra primi piani e campi lunghissimi, sono il regalo di Chloè Zhao allo spettatore della sala cinematografica, che mette in relazione queste contraddizioni di contenuto e di forma per inondarci di bellezza.

Questa è la scelta stilistica della regista che decide di non soffermarsi, al contrario del libro di Jessica Bruder da cui è tratto il film e di come forse avrebbe fatto Ken Loach al suo posto, sulla scomoda inchiesta del fallimento del sistema capitalistico americano, del precariato e della povertà assoluta in cui versano milioni di “invisibili”. Questo manca un po’ in Nomadland, un approfondimento sulle cause del fallimento, sull’assenza dello Stato nella difesa ai più deboli, sulla tutela dei diritti dei lavoratori schiacciati dal profitto delle “big corporations”.

Eppure Nomadland è nutrimento per la vista e per l’udito, con la colonna sonora firmata da Ludovico Einaudi, di certo un buon inizio per ri-abituarci a spegnere la tv, abbandonare il divano di casa e condividere una visione pubblica su grande schermo.

Nomadland è anche in streaming su Disney+, ma credo faccia bene a tutti tornare al cinema.

A proposito, la Cineteca di Bologna festeggia la riapertura delle sale con un abbraccio particolare a tutto il suo pubblico, usando lo stesso font di Woody Allen.

(foto di Lorenzo Burlando).

https://www.instagram.com/a_nna_lis_a/

https://www.linkedin.com/in/annalisa-rosati/