Cinque falsi miti [e una verità] sulla nostra mente.

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto_E’ vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta dell’Autore

di Christian Lezzi_

Che siamo bombardati dalle notizie, senza nemmeno avere il tempo di verificarne la correttezza e la provenienza, è un dato di fatto. È la natura stessa delle nostre comunicazioni, il supporto tecnologico che le veicola, il ritmo di vita a cui tutti siamo sottoposti, nonché la fretta che ci autoimponiamo, a determinare questa velocità che, se da una parte ha l’indiscutibile beneficio di tenerci informati e aggiornati, dall’altro assume il sadico piacere di portarci fuori strada, facendoci credere ai falsi miti (di qualsivoglia materia) per fretta, semplicità o convinzione, quindi per coerenza con il nostro punto di vista su quelle tematiche.

Tra i tanti miti che ci giungono ogni giorno, ci sono quelli dovuti alla cattiva informazione, allo scarso livello di approfondimento, alla superficialità di chi dà vita a queste falsità (che a volte sono solo mezze verità o errate interpretazioni, più o meno a scopo di lucro), conoscendo a malapena l’argomento e spacciandosi come luminari dello stesso.

Ecco che quindi, in ambito business, dove la crescita personale e professionale è pane quotidiano o, per lo meno tale dovrebbe essere, i miti privi di fondamento alcuno, in tema di psicologia e mente umana, la fanno da padroni.

Facendo riferimento al bellissimo quanto utile libro “50 Great Myths of Popular Psychology” (spiacente, non credo esista la versione italiana) scritto dallo psicologo statunitense Scott O. Lilienfeld, in collaborazione con Steven Jay Lynn, John Ruscio e Barry L. Beyerstein, approfondiamo insieme alcuni tra i più famosi miti sulla mente umana e, più in generale, sulla psicologia.

In chiusura parleremo anche di una curiosità controintuitiva del nostro stesso funzionamento, qualcosa a cui difficilmente pensiamo e che raramente sappiamo spiegarci. A cui forse, nella sua banalità, nemmeno avremmo pensato.

Uno tra i falsi miti più famosi e longevi, deve la sua origine alle parole travisate del ben noto William James, il quale, ormai un secolo fa, o giù di lì, dichiarò: “sinceramente dubito che le persone usino più del 10% del loro potenziale intellettuale”. Da lì in poi, il disastro. Il potenziale umano, nella dozzinalità delle cattive interpretazioni che diventano falsi miti formativi, è giunto fino a noi diventando “usiamo solo il 10% del cervello”, diffondendosi a macchia d’olio, dando vita a teorie speculative che pretendono di aumentare quella percentuale (non sempre il 10%, a volte ci si spinge addirittura al 7 o al 4) attraverso corsi di formazione più sciamanici che scientifici, atti a “riaccendere il cervello sopito” (si, dicono esattamente così). Ora, è indubbiamente vero che una mente allenata, proprio come un muscolo, possa aumentare la sua efficienza, la prontezza, la potenza di elaborazione e di immagazzinamento dei dati. Può farlo anche di molto, prove alla mano. Ma si parla di potenziale, non di cervello, di processi cognitivi, non di fisiologia. Per sfatare questo mito, qualora la logica non fosse sufficiente e la differenza tra cervello e potenziale non fosse così lampante, basti pensare che, il cervello umano, rappresenta grosso modo il 3% del peso corporeo e che, nonostante il suo evidente stato di minoranza fisica, “brucia” più del 20% dell’ossigeno che respiriamo. Possibile che l’evoluzione abbia permesso un così immotivato dispendio di risorse vitali? Esiste il risparmio cognitivo, vero, ma tenere spenta parte della macchina-cervello non sarebbe produttivo. Domande retoriche a parte, le Neuroscienze non hanno mai trovato un riscontro oggettivo all’esistenza di aree silenti del cervello (per lo meno in assenza di traumi rilevanti).  Nemmeno la corteccia silenziosa è davvero tale (infatti oggi si definisce corteccia associativa, non più silenziosa). 

Ma non complichiamoci la vita inutilmente e andiamo avanti.

Un altro pericoloso stereotipo (un falso mito, col tempo diventa tale, nella mente delle persone) è quello che vorrebbe la scarsa autostima, come protagonista assoluta di ogni problematica psicologica. Anche in questo caso, a travisare il concetto, stravolgendolo e utilizzandolo a evidente scopo di guadagno, sono stati moltissimi formatori e autori di crescita personale che, per il proprio tornaconto, hanno spinto sull’acceleratore di un concetto sbagliato: nessun problema di ansia, di successo, di depressione o relazionale, discende da una cattiva autostima. L’analisi di oltre 15.000 casi clinici, da parte del prof. Roy Baumeister, nel tentativo di confutare questi presunti legami, ha di fatto smentito la tesi. Non solo non è riscontrabile alcun legame concreto con l’abuso di alcol, farmaci o droghe, ma nemmeno vi è un concreto nesso logico tra la bassa autostima e la depressione. Resta ovvio che il giusto atteggiamento semplifica le cose, ma è una questione di atteggiamento, appunto, non di autostima. Una considerazione, semplice e lapidaria, demolisce per sempre questo falso mito: sono i risultati a far crescere la stima in noi stessi, non il contrario. What else?

Procediamo il viaggio, entrando nel merito del processo cognitivo che tutti gli altri sostiene: la memoria. Il falso mito imperante, nella psicologia popolare, la vorrebbe meccanicamente simile a un videoregistratore. Ma al di là di ciò che crediamo, la nostra memoria non è così infallibile e i nostri ricordi non sono fedeli e testuali come vorremmo o come ottimisticamente speriamo. Essi, infatti, sono soggetti a deformazioni e distorsioni, a condizionamenti esterni, a suggestioni che ne alterano i contorni, all’effetto della cultura che ci impregna, ai tabù e alle fobie da cui siamo dominati, che li plasma e li modifica, fino a snaturarli del tutto. La psicologa Elisabeth Loftus, che ha dedicato buona parte della sua attività professionale a questo argomento di ricerca, ha ampiamente dimostrato la fallacia dei testimoni oculari, quando questi sono oggetto di disinformazione. Addirittura i falsi ricordi possono essere letteralmente impiantati, attraverso processi suggestivi e d’immaginazione. Diversamente, in tribunale, i testimoni oculari avrebbero molto più peso di quanto realmente hanno. Poco o niente!

Un’altra credenza popolare, totalmente destituita di fondamento ma che continua a piacere, mai assente dalle conversazioni “popolari” è il vecchissimo adagio secondo cui “Gli opposti si attraggono”. Una convinzione radicata nel 77% della popolazione, che è diventata lo slogan di molte agenzie matrimoniali e siti d’incontri. Quindi, ancora una volta, una bugia a scopo di lucro. Studi approfonditi, dando sostanza all’altro più approfondito proverbio “gli opposti si attraggono, ma solo chi si somiglia si piglia”, hanno dimostrato scientificamente che, soprattutto nel caso delle relazioni sentimentali, gli opposti proprio non si attraggono. Al contrario, sono i tratti in comune, a costruire una fiducia, un rapport, una complicità duratura, un vero e proprio stato di felicità condivisa. Una mosca bianca, in un gruppo di mosche nere, potrà anche attirare l’attenzione, ma sarà esclusa dalla gran parte delle possibilità riproduttive. Questo falso mito, che tanto piace alla commedia romantica, si basa sulla presunzione del completamento di noi stessi grazie all’altro, ovvero del luogo comune secondo cui, in una coppia, ci si completi a vicenda. Aspetto poeticamente affascinante, in minima parte vero, ma scientificamente inconcludente.

Un mito tra i più pericolosi, invece, è quello che vorrebbe i criminali più furbi, capaci di ottenere l’infermità mentale in tribunale. Non solo questo concetto è totalmente erroneo (ci sono molte perizie di parte e controparte, in un processo, per giungere a tale concessione) ma nella mente comune è dilagato al punto da credere che, quella dell’infermità mentale, sia una richiesta diffusissima. Questa convinzione trae origine anche dalla mentalità forcaiola, che considera la pena un atto di vendetta e la presunta patologia una via di fuga, quasi un regalo al colpevole. Recenti statistiche ci dicono che, negli Stati Uniti (è da lì che arriva il libro) tale richiesta è formulata solo in un risicato 1% dei processi e che viene concessa solo nel 25% di quei casi. Diversamente, in carcere, ci sarebbero solo i secondini, mentre i colpevoli sarebbero tutti in strutture psichiatriche giudiziarie, per quanto queste ultime possano essere addirittura peggiori dell’esperienza carceraria.

La verità è che i falsi miti e le spiegazioni semplicistiche ci piacciono e ci rassicurano. La mente umana agisce spesso in virtù del potentissimo principio di coerenza e, in ossequio a esso, formula e apprende. Coerenza verso noi stessi e le nostre credenze e convinzioni, certo, ma occorre ricordare che, quelle che crediamo nostre sincere convinzioni, altro non sono che la media di quelle della nostra cerchia di riferimento. È qui che entra in gioco la capacità di analizzare le informazioni, approfondirle e metterle alla corda del pensiero critico, cum grano salis

Uno stereotipo, messo sotto sforzo dalla ragione, rompe la crosta della superficialità e implode sotto il peso della propria insussistenza, lasciando spazio alla verità. Acquisita la capacità di osservare le cose con coscienza, presenti a noi stessi, ragionatamente per non ingoiare ogni fandonia ci giunga, potremo dirci soddisfatti di aver aumentato l’utilizzo del nostro potenziale intellettuale (con buona pace di William James).

Concludendo, una curiosità sul funzionamento della nostra mente. Non un falso mito, bensì una verità scientificamente provata, nonostante sia controintuitiva e difficile da accettare a rigor di logica. 

La nostra mente riesce a elaborare le idee migliori, quando è stanca! 

Sembra assurdo, vero? Eppure, i ricercatori hanno dimostrato come, l’impossibilità momentanea di opporsi alle idee strane e inconsuete, o di fare muro contro il pensiero laterale ricorrendo a stereotipi o bias cognitivi, o riducendo la propria elasticità mentale, ci permette di non precludere ciò che, diversamente, nemmeno avremmo preso in considerazione o che, addirittura, avremmo considerato folle, in un altro momento della nostra giornata. 

E questo spiega la produttività della doccia, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro o dopo l’allenamento, o di quel momento magico che precede l’addormentamento, quando la coscienza stremata apre le porte della percezione (non quelle farmacologiche di Aldous Huxley) permettendoci di vedere le cose da prospettive nuove, diverse e mai osate a mente fresca.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.