“Barbie di Greta Gerwig: Un Manifesto Femminista Con Sfumature di Rosa”


di Redazione Online_

Barbie di Greta Gerwig è finalmente arrivato al cinema a partire dal 20 luglio, colorando il mondo di rosa e suscitando grande interesse, meme e una vasta campagna pubblicitaria.

Ora, vale la pena affrontare questa osannata pellicola dopo tutta questa attesa?

Se siete appassionati della celebre bambola, probabilmente sì. Tuttavia, se vi aspettate una commedia spensierata e divertente, potreste rimanere delusi, forse anche un po’ arrabbiati.

La sceneggiatura, creata da Greta Gerwig e Noah Baumbach, moglie e marito, è piena di amore per i dettagli, generando situazioni paradossali e battute perfette per diventare virali.

Gli attori, sia i protagonisti Margot Robbie (Barbie) e Ryan Gosling (Ken), sia i comprimari come Allan (interpretato da Michael Cera) e Gloria (interpretata da America Ferrera), offrono delle interpretazioni magistrali.

Tuttavia, ciò che potrebbe essere problematico è la satira sociale che permea l’intero film. Scherzando si può dire tutto, anche la verità, ma nutriamo qualche dubbio sul fatto che il mondo sarebbe migliore senza gli uomini.

Questa fragilità sottostante permea l’intera narrazione.

Barbie è un film in cui gli uomini sono rappresentati come i villain, non perché commettano azioni malvagie oggettivamente, ma semplicemente perché sono uomini. Nel “perfetto” mondo di Barbieland, tutti i Ken (chiamati tutti con lo stesso nome, ovvero Ken) sono considerati degli imbecilli buoni a nulla.

All’inizio, questa rappresentazione può risultare divertente, ma a lungo andare diventa stancante.

Mentre Barbie ricopre ruoli come presidente, medico, netturbina, astronauta e vincitrice di un Premio Nobel, Ken si riduce alla semplice definizione di “spiaggia”, credendo persino che sia un lavoro. Ken è solo muscoli, birra e risse, non sa fare altro. Non ha nemmeno una casa, o se l’ha, nessuno ha mai pensato a dove possa abitare. È praticamente insignificante.

D’altro canto, tra le Barbie, il supporto reciproco è sempre al massimo livello.

Fatta eccezione per Barbie Stramba, che ha perso la sua bellezza a causa di un passato difficile, e Barbie incinta, considerata una sorta di paria da tutte a causa della sua pancia.

Quando la bravissima Margot Robbie, nei panni di Barbie Stereotipo, si trova a fronteggiare una crisi di nervi insospettabile nonostante la sua vita apparentemente perfetta, è costretta a fare un viaggio nel mondo reale insieme a Ken, che la corteggia da sempre e lei tratta con nonchalance e sorrisi sublimi.

Nel mondo reale, entrambi si confrontano con il patriarcato. Questa esperienza è una pessima notizia per lei, ma per lui è un risveglio dell’anima, finalmente capisce di poter essere qualcosa di più, o addirittura di poter comandare.

Con l’aiuto di due donne umane, una madre e sua figlia, Barbie torna nel suo universo con un forte mal di testa e si trova costretta ad affrontare il temibile “patriarcato”.

Ne scaturisce una guerra tra maschi e femmine, in cui i primi sono rappresentati come stupidi e le seconde come estremamente intelligenti, per natura. Non c’è animosità né rivalità tra le donne, che siano bambole o umane, si sostengono sempre a vicenda.

Non vedremo mai attriti tra Barbie veterinaria e Barbie surfista californiana, perché il vero nemico è l’uomo.

Il messaggio del film, al di là della trama, sembra essere: aspirate a essere “donne ordinarie, felici di arrivare a fine giornata, possibilmente da sole e senza la zavorra di un Ken tra i piedi”.

Barbie va oltre l’esagerazione tipica della satira e promuove la grande, grandissima solitudine come unico modello di vita vincente.

Questa solitudine estrema, quasi aggressiva, mira a sopprimere qualsiasi relazione sentimentale in nome di un bene più grande: combattere il patriarcato.

E per farlo, bisogna combattere contro tutti gli uomini, illuderli, ingannarli e considerarli poco più che accessori decorativi, spesso fastidiosi e pacchiani, poiché, anche se non se ne rendono conto, sono solo degli inutili imbecilli.

Sia Barbie che Ken cercano il proprio posto nel mondo, uno scopo che li faccia sentire completi. Sarebbe stato bello, e anche utile, se entrambi si fossero aiutati a comprendere quale potesse essere la loro strada, partendo dalla stessa situazione iniziale: entrambi sono bambole, non umani.

Invece, Ken è condannato e Barbie è eletta regina, per nascita.

Barbie rappresenta un manifesto femminista distorto, con l’aggiunta di glitter, battute e canzoncine catchy.

Se cercate di spegnere il cervello per due ore, allora Barbie è sicuramente il film adatto a voi.

Che il “pinkwashing” vi accompagni lieve.




The Batman


di Annalisa Rosati

Partiamo dalla fine (per così dire): The Batman dura 176 minuti – dueoreecinquantasei – una durata decisamente impegnativa, soprattutto abituati come siamo alle serie tv. Per cui, scegliete uno spettacolo comodo, fate un respirone e prendetevi un buon caffè.

Dico questo perché dopo averlo visto, e digerito, ho capito che ne è valsa la pena: nonostante sia finito all’una di notte, nonostante la sveglia del giorno dopo, per me merita la nostra attenzione.

Quindi, The Batman. L’uscita era attesissima e aspettando che arrivasse in sala si è parlato parecchio di questo come “il miglior Batman di sempre”. Tra tutti i supereroi, Batman ricopre un posto particolare: non ha superpoteri evidenti, se non il patrimonio di famiglia, ha una psicologia estremamente complessa e si muove in un contesto distopico sì, ma molto credibile e sempre attuale, quello del crimine e della corruzione.

Il Batman di Matt Reeves (già regista di Cloverfield e degli ultimi due capitoli della franchise de Il pianeta delle scimmie) è in un certo senso coerente con la visione illuminata di Nolan: è anche questo un film cupo, senza mezzi termini, crudo, che mette al centro una società distrutta da sé stessa e un grande approfondimento psicologico del suo protagonista e degli altri personaggi. Ma questo film è ancora più intimo, sussurrato, è lo stesso Bruce Wayne a guidarci con la sua voce fuori campo tra gli eventi e soprattutto tra i suoi pensieri durante scene bellissime e immersive, quasi come nella lettura del suo diario di bordo.

Veniamo ai personaggi. Una menzione speciale alla colonna sonora, che per me è super protagonista della narrazione. Tra tutti, due i brani che spiccano e ritornano mescolandosi fra loro quasi come in un valzer: Something in the Way dei Nirvana, che chiudendo il prologo mi aveva già conquistata, e Ave Maria di Schubert, per dare ancora più solennità all’immagine e tenere il livello di tensione sempre alto.

Robert Pattinson regge tutto il film con un’eleganza tutt’altro che scontata. Non è un playboy, non ostenta ricchezza – anzi, si nasconde nel palazzo Wayne – ed è schivo nei confronti delle occasioni mondane. Per la prima volta un Batman grunge. Ripenso agli smoking di George Clooney mentre guardo questo Bruce Wayne prendere in prestito i gemelli di Alfred per andare a un funerale nel suo abito stropicciato e nascosto da quel taglio di capelli anni 2000. Il look di questo Batman è simbiotico con una narrazione psicologica cupa e dignitosa, mai pedante: non indugia mai su pensieri ed emozioni, non apre squarci di coscienza, non ci lascia grandi lezioni di vita. Le cicatrici di questo Batman sono allo scoperto, alcune inedite, ma non spiattellate, facili.

Selina Kyle/Catwoman è la sua controparte femminile, interpretata da una bellissima e bravissima Zoë Kravitz. Non una valletta, non un’amante, non un’antagonista, ma una alleata decisamente all’altezza del “Campione maschile”, in perfetto equilibrio tra la sensibilità dell’animo e la forza e indipendenza di una donna che sa badare a sé stessa, senza rinunciare alle passioni e ai fantasmi del passato, mossa e motivata dal desiderio di giustizia per gli altri. Non dovrebbe stupirci nel 2022, ma di fatto questa Catwoman rappresenta una buona evoluzione nella rappresentazione femminile, anche in un blockbuster come questo.

Chiudo la triade sul cast con l’intensissima interpretazione di Paul Dano nei panni dell’Enigmista. Molto meno macchiettistico rispetto a come lo ricordavamo nella rappresentazione di Jim Carrey (sempre bravissimo), questo Enigmista è un serial killer degno dei più famosi horror movie, reso ancora più contemporaneo dalla componente terroristica, dall’uso delle tecnologie e dei media. Un gran bel villain.

Qualche cenno alla regia e alla costruzione del film. Non sono una tecnica e non pretendo di sbilanciarmi su questioni che non padroneggio, ma Matt Reeves ci regala effettivamente immagini molto belle, esteticamente curatissime e potenti, intense, in contrasto con il pudore dei dialoghi che, come detto sopra, non oltrepassano mai il limite in epiche esternazioni.

Ho colto un discreto numero di citazioni non esplicite alla cinematografia di Batman e non solo: un po’ il look and feel di Blade Runner, inquadrature anni ’90 alla Mission Impossible, inseguimenti alla Fast and Furious e cose così. Degli omaggi, più che altro, che a noi cinefili ci fanno bene al cuore.

Qualche difetto di sceneggiatura qua e là: perché il tiratore aspetta così tanto a mirare? Perché Selina non soccorre Batman ma indugia sul bacio? Imperfezioni. Il finale, invece, è proprio un fallimento – non potevo parlarne solo bene! – ecco, nel finale ci sono tutti quei 40/50 minuti di troppo che si approfittano della nostra concentrazione e appesantiscono la visione. Non ho una spiegazione per questo, forse come spesso capita non sono state fatte le scelte necessarie e si sono tenute aperte tutte le porte possibili, ma comunque non fila. Il pubblico inizia a essere stanco e i passaggi non sono abbastanza collegati fra loro, fatto sta che si esce dalla sala un po’ più frastornati del dovuto.

A parte questo, nel complesso, a me The Batman è piaciuto. E’ una storia che in fondo ci parla anche di noi. Questi tre personaggi si trovano a fare i conti con gli errori della generazione dei loro padri e nonni. Una generazione in cui il patriarcato e il capitalismo, al massimo della loro espressione, l’hanno fatta da padroni, ma che adesso sta rivelando tutte le sue falle. L’ultramachismo dei bei tempi andati (soldi, potere, fama) non ha generato ricchezza, rilascia invece le esalazioni tossiche del degrado sociale, della solitudine e della sfiducia. Il sistema ha delapidato la comunità e tocca agli eredi innocenti e disillusi assumersene la responsabilità: ma da questo nasce un nuovo sistema di valori che unisce tutti gli orfani nel comune obiettivo della responsabilità collettiva e della ricostruzione.

PS: sono già previsti due sequel e due serie spin-off.

Avanti Vendetta, mettiamoci nei guai..”


Annalisa Rosati

Il mare e i miei viaggi. Un gin tonic e un hamburger. Jeans e maglietta bianca.

Da dieci anni mi occupo di promozione cinematografica e culturale, marketing e comunicazione. Ho co-fondato un concorso di illustrazione, sono legata alle tematiche femministe e tutti gli anni inizio (e abbandono) uno sport nuovo.

Qui scrivo degli ultimi film che ho visto e delle cose che mi piacciono.




Solo gli amanti sopravvivono.

“Solo gli amanti sorpravvivono”_ immagine tratta dal film di Kim Jarmusch

La [non] recensione di Cristiana Caserta_

Le tre grandi crisi degli anni duemila – terrorismo, crisi finanziaria, pandemia – hanno indotto un generale ripiegamento sui bisogni elementari: fisiologici, di sicurezza, di appartenenza. E hanno ulteriormente appiattito l’orizzonte ad un presente infinito, al quale costringiamo i nostri corpi negando loro l’invecchiamento e le nostre anime consumando e scartando come mode anche le idee.

Se ‘vita’ è bellezza, conoscenza, verità, pienezza ecco che siamo – senza saperlo – ‘morti’. Zombie. Esseri distruttori e autodistruttori. Un modo diverso di riflettere sull’autodistruzione e sulla salvezza – se non avete gradito Don’t look up, o anche se lo avete gradito – è quello di Jim Jarmusch. Il film è di diversi anni fa, ma è quanto mai attuale: Solo gli amanti sopravvivono. (Only Lovers Left Alive, 2013)

Gli amanti sono Adam ed Eve, a cui prestano volti e corpi – bellissimi, senza tempo, sensuali – Tilda Swinton e Tom Hiddleston. Lei vive a Tangeri, fra i libri e l’arte. Lui a Detroit, fra le chitarre e la musica. Hanno vissuto per molti secoli, conosciuto pittori e poeti, musicisti e scienziati. Sono vampiri. E si amano. Di un amore senza storia. Si amano di un amore delicato e profondo: lei luminosa, quasi abbagliante, e pronta a cogliere la bellezza – anche in un mondo che l’ha perduta – lui più inquieto e cupo ed esitante sul vivere o morire. 

Parlano, si amano, ballano, si baciano come se ogni bacio, ogni danza, ogni parola fosse fuori dal tempo, assoluta, prima e ultima, come forse è stata all’inizio dei tempi, prima dell’umanità. Le stelle, la poesia, il destino delle città, i silenzi riempiono le loro conversazioni e la freschezza della sera in cui essi necessariamente vivono si riverbera sui loro sentimenti e sui loro sguardi e li colma di bellezza e malinconia, pur sullo sfondo di una Detroit deserta e dozzinale, brutta e logora.

Sono vampiri che hanno imparato a resistere al richiamo brutale e primitivo del sangue cercato con la violenza: si nutrono di sangue ‘pulito’ che dottori e ricercatori lautamente ricompensati producono per loro. Con parsimonia e moderazione. E con rispetto per la vita degli zombie, che invece così miserevolmente la sprecano. 

Ed ecco che tocca ai vampiri ricordarci che cosa è propriamente ‘vivere’: prendersi cura l’uno dell’altra con rispetto e gentilezza, regalarsi, nutrire di amore e comprensione profonda ogni piccolo gesto, comunicare in tutti i modi possibili, col tatto, con la musica – che accompagna ogni momento del film – con il corpo, con la parola. 

Lunare, notturno, poetico. È il mondo che gli amanti – solo gli amanti – possono ritagliare per sé nell’inconsistenza rumorosa e arrogante della post-modernità, mortifera e distruttrice. Scampoli di una natura sfregiata lo popolano insieme ai resti del passato – fotografie, oggetti, abiti, storie e ricordi – come relitti dopo un naufragio: levigati dal tempo e addolciti dal tocco lieve e stupito di Eve, che ‘nomina’ e riconosce con gratitudine ogni essere vivente che incontra, fosse un fungo o una puzzola. E conservati con cura ansiosa da Adam.

Ma anche i vampiri devono ad un certo punto scegliere fra sopravvivenza e vita: costretti a scappare per la sventatezza della avida e incontrollabile sorella di lei, Ava, i due amanti restano privi di nutrimento e scoprono anch’essi la fame e la sete da cui si erano tenuti lontano. 

L’amore per il genere umano, per la musica, per la bellezza, domina il finale in cui il vecchio archetipo del vampiro viene piegato ad un significato del tutto inedito, di positività e fiducia.


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.