La felicità

di Cristiana Caserta_

È forse un dono?

O un demone?

O è qualcosa che si costruisce? O si cerca?

Viene dall’interno? O dall’esterno? 

Dalla famiglia, come nella tragedia greca e nei romanzi russi? 

Qualsiasi risposta è già stata data.

“È un momento” mi disse una volta un amico, nelle acque limpide di Lampedusa, forse per vanto erudito citando un qualche autore di quelli che fanno colpo su una fanciulla che nuota da sola. Tipo Sartre, o qualcosa di simile. Me lo ricordo bene. Fra i ricordi sfocati di un viaggio di maturità, quelli che si facevano un tempo, a luglio inoltrato, con poche lire in tasca.

Arrivavi in un’isola, bianca bianca e con in testa ancora i versi a memoria di qualche tragedia – eit ofel’ Argùs me diaptastai skafos – e subito era scottatura e ubriacatura e amori di una sera.

Un momento, vorrei dirgli decenni dopo, è quello in cui cerchi di afferrarla per fissarla da qualche parte, per ricordartene, per dire agli amici: “ecco, ero felice”, per rispondere alla domanda che crediamo sempre ci venga fatta: “sei felice?”.

Sì: ho le prove! La luce era perfetta, l’acqua era limpida, ci sentivamo fatti l’uno per l’altra, toccarsi era bello e difficile – troppo ustionati! – ma quindi sì: felice!

Ma il fatto è che la luce poi cambia, e insomma non era poi così perfetto, e infatti ognuno ha nuotato per conto suo. 

Non devi cercare di afferrarla: è fragile la felicità! Si accorge se vuoi stringerla e si squaglia prima che tu possa dire: “eccoti!

L’ansia della felicità è infelicità pura. 

L’infelicità invece si lascia fermare volentieri. Gli infelici sono a loro modo felici: perché la loro infelicità è ben solida, personale, intima. È una compagna che non tradisce, che non si allontana, che si fa afferrare, richiede attenzione esclusiva, è gelosa! L’infelice fugge con cura ogni possibilità di felicità: evita di ricevere regali, di portare a termine progetti, di mostrare il lato migliore di sé, evita l’affetto degli altri e il loro aiuto. Tutto ciò lo (la) priverebbe del piacere di essere infelici, dell’autoerotismo dell’infelicità, della ruminazione ansiosa in cui gli altri sono nemici perché felici. 

Vivere accanto a un infelice cronico è l’inferno in terra. 

Sebbene l’infelice sembri amare la solitudine, in realtà odia la solitudine altrui, odia chi non cerca la sua compagnia anzi, chi non ha bisogno della sua compagnia. Il bisogno è nemico della felicità. È quindi illusoria e falsa l’autosufficienza dell’infelice: egli (ella) ha bisogno dell’attenzione altrui, delle energie psichiche, della gioia, dell’entusiasmo che pure critica.

Molto di più dell’esibizione di falsa felicità – quella dei social, delle celebrazioni chiassose, dei selfie sorridenti, del successo esibito – io temo la retorica della non esibizione, l’ostentazione del privato, dell’autosufficienza rancorosa, del compiacimento di gusti elitari e raffinati che ammantano di fascino lo squallido e il disadorno. 

La tragedia greca è – ovviamente – piena di personaggi infelici. Soprattutto donne. Fra le più infelici c’è Antigone. Sappiamo bene che Antigone è un’eroina: vuole a tutti costi seppellire il fratello Polinice e per farlo non esita a scontrarsi con le leggi e con il perfido tiranno Creonte. È inflessibile e rigida, ma lo spettatore è dalla sua parte perché la sua inflessibilità è migliore di quella – opposta – di Creonte. Ne ammiriamo il coraggio e la determinazione: faccia a faccia col tiranno afferma che il morire non le causa nessun dolore e anzi vuole affrettare la Morte. Ma, quando appare per l’ultima volta sulla scena, già condannata, si esprime in modo ben diverso: chiede di essere guardata mentre va a morire, si dispera per non avere conosciuto l’amore coniugale e perché non sarà pianta da nessuno, lamenta l’infelicità sua e della sua famiglia tutta, si autocommisera, non è più sicura che gli dei siano dalla sua parte. Il Coro si dissocia da lei: l’infelicità necrofila che ha coltivato per tutta la tragedia appare ora in tutta la sua inutilità. Nessun riscatto è possibile.  Neanche quello eroico. La sua vita le si rivela arida, povera, solitaria, senza eros, ora che è venuta a cadere la spinta antagonista e ribelle. Coerenza e assenza di conflitto – Antigone è stata incredibilmente sicura di fare bene e che nient’altro esistesse, non l’amore per la sorella né per il fidanzato, oltre al suo dovere di pietà – si rivelano scelte pietrificanti e raggelanti. La morte di Antigone non è ‘bella’ né eroica, ma solitaria e patetica. 

Questa tragedia, così amata, ci mostra che le opposte richieste dei due personaggi, così rigide, non possono essere armonizzate in modo da rendere giustizia ad entrambe: ogni scelta implica il rifiuto di qualcosa, ogni valore si afferma in modo totalizzante e senza appello; per evitare il conflitto e il dolore conseguente, per vivere in modo coerente, Antigone si condanna all’infelicità totale, all’insensibilità, alla solitudine vera.

Felice è il coraggio del vuoto, della non aspettativa, del conflitto, dello spazio aperto a ciò che accade, a ciò che non è nostro e non possiamo possedere, che ci può solo essere regalato e non potremo usare per rispondere “” alla domanda se siamo felici. 

[Perché viene prima il sì e poi la felicità]


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




The Batman


di Annalisa Rosati

Partiamo dalla fine (per così dire): The Batman dura 176 minuti – dueoreecinquantasei – una durata decisamente impegnativa, soprattutto abituati come siamo alle serie tv. Per cui, scegliete uno spettacolo comodo, fate un respirone e prendetevi un buon caffè.

Dico questo perché dopo averlo visto, e digerito, ho capito che ne è valsa la pena: nonostante sia finito all’una di notte, nonostante la sveglia del giorno dopo, per me merita la nostra attenzione.

Quindi, The Batman. L’uscita era attesissima e aspettando che arrivasse in sala si è parlato parecchio di questo come “il miglior Batman di sempre”. Tra tutti i supereroi, Batman ricopre un posto particolare: non ha superpoteri evidenti, se non il patrimonio di famiglia, ha una psicologia estremamente complessa e si muove in un contesto distopico sì, ma molto credibile e sempre attuale, quello del crimine e della corruzione.

Il Batman di Matt Reeves (già regista di Cloverfield e degli ultimi due capitoli della franchise de Il pianeta delle scimmie) è in un certo senso coerente con la visione illuminata di Nolan: è anche questo un film cupo, senza mezzi termini, crudo, che mette al centro una società distrutta da sé stessa e un grande approfondimento psicologico del suo protagonista e degli altri personaggi. Ma questo film è ancora più intimo, sussurrato, è lo stesso Bruce Wayne a guidarci con la sua voce fuori campo tra gli eventi e soprattutto tra i suoi pensieri durante scene bellissime e immersive, quasi come nella lettura del suo diario di bordo.

Veniamo ai personaggi. Una menzione speciale alla colonna sonora, che per me è super protagonista della narrazione. Tra tutti, due i brani che spiccano e ritornano mescolandosi fra loro quasi come in un valzer: Something in the Way dei Nirvana, che chiudendo il prologo mi aveva già conquistata, e Ave Maria di Schubert, per dare ancora più solennità all’immagine e tenere il livello di tensione sempre alto.

Robert Pattinson regge tutto il film con un’eleganza tutt’altro che scontata. Non è un playboy, non ostenta ricchezza – anzi, si nasconde nel palazzo Wayne – ed è schivo nei confronti delle occasioni mondane. Per la prima volta un Batman grunge. Ripenso agli smoking di George Clooney mentre guardo questo Bruce Wayne prendere in prestito i gemelli di Alfred per andare a un funerale nel suo abito stropicciato e nascosto da quel taglio di capelli anni 2000. Il look di questo Batman è simbiotico con una narrazione psicologica cupa e dignitosa, mai pedante: non indugia mai su pensieri ed emozioni, non apre squarci di coscienza, non ci lascia grandi lezioni di vita. Le cicatrici di questo Batman sono allo scoperto, alcune inedite, ma non spiattellate, facili.

Selina Kyle/Catwoman è la sua controparte femminile, interpretata da una bellissima e bravissima Zoë Kravitz. Non una valletta, non un’amante, non un’antagonista, ma una alleata decisamente all’altezza del “Campione maschile”, in perfetto equilibrio tra la sensibilità dell’animo e la forza e indipendenza di una donna che sa badare a sé stessa, senza rinunciare alle passioni e ai fantasmi del passato, mossa e motivata dal desiderio di giustizia per gli altri. Non dovrebbe stupirci nel 2022, ma di fatto questa Catwoman rappresenta una buona evoluzione nella rappresentazione femminile, anche in un blockbuster come questo.

Chiudo la triade sul cast con l’intensissima interpretazione di Paul Dano nei panni dell’Enigmista. Molto meno macchiettistico rispetto a come lo ricordavamo nella rappresentazione di Jim Carrey (sempre bravissimo), questo Enigmista è un serial killer degno dei più famosi horror movie, reso ancora più contemporaneo dalla componente terroristica, dall’uso delle tecnologie e dei media. Un gran bel villain.

Qualche cenno alla regia e alla costruzione del film. Non sono una tecnica e non pretendo di sbilanciarmi su questioni che non padroneggio, ma Matt Reeves ci regala effettivamente immagini molto belle, esteticamente curatissime e potenti, intense, in contrasto con il pudore dei dialoghi che, come detto sopra, non oltrepassano mai il limite in epiche esternazioni.

Ho colto un discreto numero di citazioni non esplicite alla cinematografia di Batman e non solo: un po’ il look and feel di Blade Runner, inquadrature anni ’90 alla Mission Impossible, inseguimenti alla Fast and Furious e cose così. Degli omaggi, più che altro, che a noi cinefili ci fanno bene al cuore.

Qualche difetto di sceneggiatura qua e là: perché il tiratore aspetta così tanto a mirare? Perché Selina non soccorre Batman ma indugia sul bacio? Imperfezioni. Il finale, invece, è proprio un fallimento – non potevo parlarne solo bene! – ecco, nel finale ci sono tutti quei 40/50 minuti di troppo che si approfittano della nostra concentrazione e appesantiscono la visione. Non ho una spiegazione per questo, forse come spesso capita non sono state fatte le scelte necessarie e si sono tenute aperte tutte le porte possibili, ma comunque non fila. Il pubblico inizia a essere stanco e i passaggi non sono abbastanza collegati fra loro, fatto sta che si esce dalla sala un po’ più frastornati del dovuto.

A parte questo, nel complesso, a me The Batman è piaciuto. E’ una storia che in fondo ci parla anche di noi. Questi tre personaggi si trovano a fare i conti con gli errori della generazione dei loro padri e nonni. Una generazione in cui il patriarcato e il capitalismo, al massimo della loro espressione, l’hanno fatta da padroni, ma che adesso sta rivelando tutte le sue falle. L’ultramachismo dei bei tempi andati (soldi, potere, fama) non ha generato ricchezza, rilascia invece le esalazioni tossiche del degrado sociale, della solitudine e della sfiducia. Il sistema ha delapidato la comunità e tocca agli eredi innocenti e disillusi assumersene la responsabilità: ma da questo nasce un nuovo sistema di valori che unisce tutti gli orfani nel comune obiettivo della responsabilità collettiva e della ricostruzione.

PS: sono già previsti due sequel e due serie spin-off.

Avanti Vendetta, mettiamoci nei guai..”


Annalisa Rosati

Il mare e i miei viaggi. Un gin tonic e un hamburger. Jeans e maglietta bianca.

Da dieci anni mi occupo di promozione cinematografica e culturale, marketing e comunicazione. Ho co-fondato un concorso di illustrazione, sono legata alle tematiche femministe e tutti gli anni inizio (e abbandono) uno sport nuovo.

Qui scrivo degli ultimi film che ho visto e delle cose che mi piacciono.




Urbanismo Tattico.


di Francesca Bux

Sempre più spesso capita di vedere in giro per le città (piccole o grandi che siano) degli spazi pubblici riqualificati con nuovi elementi di arredo urbano che incentivano a socializzare e rilassarsi, piste ciclabili colorate, panchine e fioriere in posti normalmente usati come parcheggi o carreggiate.

E’una “tendenza” che piace sia ai cittadini, sia alle Pubbliche Amministrazione e che, sebbene forse in Italia stia prendendo piede solo ora, viene utilizzate nelle grandi metropoli mondiali già da diversi anni.

Stiamo parlando dell’Urbanismo Tattico, ovvero un processo di rigenerazione urbana a basso costo economico, ma elevato impatto sociale.

Tre sono le caratteristiche principali: 

– coinvolgimento delle realtà locali, quali residenti e non delle zone interessate, associazioni, gruppi di volontariato

– basso costo delle opere

– velocità di realizzazione e reversibilità

I lavori ottenuti, che ridisegnano quindi alcune locations specifiche della città come piazze, incroci, zone di passaggio, hanno il compito di ridefinire il concetto di “mobilità” nell’epoca post Covid, elemento da non sottovalutare data anche la necessità di limitare le auto private e potenziare “Car Sharing” e “Micromobilità”(scooter, monopattini elettrici, biciclette a pedalata assistita).

Ma il loro vantaggio è soprattutto quello di far aumentare il benessere della comunità, sia per quando riguarda il senso di appartenenza, sia per promuovere una socialità “sana”, lontano per qualche ora dagli effetti del mondo digital.

Tanto entusiasmo per queste tecniche non convenzionali di riqualificazione urbana si è visto a Milano, ad esempio con il progetto “Piazze Aperte” – realizzato in collaborazione con Bloomberg Associates e con il supporto della National Association of City Transportation Officials (NACTO) e della Global Designing Cities Initiative – ha consentito ai milanesi di riappropriarsi di spazi altamente trafficati, facendo in modo che i cittadini potessero così vivere in prima persona il loro quartiere.

Talvolta, per compiere le opere, vengono anche chiamati artisti di fama internazionale del calibro di Camilla Falsini (delle più famose illustratrici italiane), che ha messo a disposizione la sua arte proprio per ridisegnare uno dei luoghi simbolo del quartiere Isola, Piazza Tito Minniti.

L’urbanismo tattico rappresenta davvero una soluzione che piace a tutti e che serve per creare empatia, collaborazione e dare origine a nuovi spazi.

Può fornire supporto ed affiancare la fase di progettazione iniziale di nuovi interventi, ma può anche essere un mezzo efficace per “sanare” e quindi riqualificare davvero alcuni spazi che, per svariati motivi, hanno via via perso la loro identità e funzione.

Questo tripudio di colori e vivacità comporta però anche delle problematiche importanti da risolvere.

Le auto non spariscono, anzi potrebbero ingorgare vie limitrofe e rendere così un incubo svolgere i normali spostamenti quotidiani, i commercianti potrebbero avere delle difficoltà nelle operazioni di carico – scarico delle merci e atti vandalici potrebbero vanificare il lavoro svolto.

Sicuramente ci vuole l‘impegno e la volontà di tutti, ma come dice Jaime Lerner – architetto, urbanista, ex sindaco di Curitiba (Brasile) “La mancanza di risorse non è più una scusa per non agire. L’idea che l’azione debba essere intrapresa solo dopo aver trovato tutte le risposte e le risorse è la ricetta per la paralisi assicurata. La pianificazione di una città è un processo che consente correzioni”.


Francesca Bux

Classe 1984.

Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.

Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.

Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.

Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.

Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.