“Qualcuno aveva fatto qualcosa” – 11 settembre 2001.

David D’Amore_China su carta

di Andrea Avolio_

11 settembre 2001.

Erano le tre del pomeriggio mentre mi si allentava la mandibola guardando alla TV quella che sembrava la versione alla Blair Witch Project di un film di Michael Bay.

Un grosso buco, da cui usciva fumo nero, piazzato poco sotto la cima di una delle Torri Gemelle, quella con l’antenna. 

“Un incidente?” – pensai-.

A smentirmi arrivò un aereo da fuori l’inquadratura. Dritto, orizzontale. Si schianta. Forte. Veloce. Esplode. Un buco di fuoco sull’altra Torre, quella senza antenna.

Non era un incidente. E non era neppure un mockumentary. Era reale. Stava succedendo adesso.

Trascorsi il resto della giornata incollato alla televisione. Vidi gli incendi divampare, le persone ridotte a puntini neri lanciarsi dalle Torri, nel pomeriggio le Torri collassarono inesorabili e precise, come nei filmati dei crolli controllati.

Vidi i pompieri, la polizia, il groviglio di travi di acciaio, detriti di calcestruzzo, la polvere sbiancava i volti in preda al panico, i cavi elettrici come arterie recise. In serata, altrettanto inesorabile, crollò anche il Building WTC 5.

Andai a dormire tardi, mentre i cronisti mostravano frammenti di discorsi di George W. Bush, ci spiegavano che si era trattato di un attentato terroristico ad opera di Al-Qaida, ennesimo gruppo terroristico islamico dal nome a me incomprensibile, di stanza in Afghanistan. Avevo 20 anni all’epoca, a stento sapevo dove si trovasse l’Afghanistan, sapevo solo che era una delle ex-repubbliche socialiste sovietiche e che il nome Al-Qaida mi suonava incomprensibilmente uguale a quello di tutti gli altri innumerevoli gruppi di fanatici religiosi medio-orientali, Fatah, Hamas, Hezbollah, chi vattelapesca sciita e chi come-si-chiama sunnita. Cinquanta sfumature di odio.

Andai a dormire dopo aver assistito agli effetti fisici del potere della religione, ormai storia antica in Occidente, che tornavano a farsi sentire dopo oltre duecento anni dall’Illuminismo.

Da allora sono passati 20 anni; nel frattempo, oltre a imparare dove si trova l’Afghanistan, ho imparato anche che le religioni monoteiste, le tre cosiddette “del libro”, nascono essenzialmente per normare e regolamentare comunità eterogenee e distribuite su vasti territori, attraverso l’utilizzo di una narrazione suggestiva. Nel caso dell’ebraismo la legge religiosa serviva a conservare, e tenere insieme dal punto di vista delle tradizioni e prassi, una comunità frammentata e sparsa per tutto il mondo conosciuto, la cui priorità era il mutuo e vicendevole soccorso in territori perennemente stranieri. Nel caso del cristianesimo, e del cattolicesimo soprattutto, la legge religiosa serviva alla diffusione del culto stesso, ovvero funzionale alla moltiplicazione del clero e alla sua accumulazione di ricchezza e consolidamento del potere, centrale e locale (lo stesso fenomeno che avviene nelle grandi aziende, solitamente quelle ad azionariato pubblico, quando si moltiplicano le scrivanie dei dirigenti). Nel caso dell’Islam, la legge religiosa era funzionale a supportare la conquista indiscriminata, essendo la cultura dei popoli medio-orientali per motivi di scarsità di risorse locali, votata al saccheggio e alla conquista di territori più prosperi (la stessa cosa la facevano i Vichinghi, altra cultura radicata in un territorio climaticamente ostile). 

Le società occidentali classiche, quelle greco-romane politeiste, erano di gran lunga più laiche di quanto noi siamo riusciti ad essere dal XVIII secolo in poi; a tenerle unite e renderle omogenee era solo la legge e non, come attuato dalle religioni cristiane e musulmane, la narrazione della legge. Basti pensare a quanto fosse inclusivo e rispettoso l’atteggiamento della Roma imperiale nei confronti delle culture locali delle proprie colonie, di certo molto più di quanto lo siano stati i Gesuiti in America latina nel XVI e XVII secolo, per non parlare invece dei Saraceni nel Mediterraneo ai tempi in cui noi ci godevamo il nostro Medio-Evo.

La religione monoteista nasce sostanzialmente per risolvere il problema di “omogeneizzare” usi e costumi di numerose ed eterogenee comunità, ciascuna con stratificazioni storico-culturali profondamente diverse, al fine di consolidare la gerarchia di potere. E per far bene questo lavoro devi disporre di tre cose: leggi chiare da imporre, una storia suggestiva con cui convincere e delle scuse con cui tacitare qualsiasi obiezione. Ovvero prassi, promesse e dogmi.

La solfa è sempre la stessa : la divinità è antropomorfa, il suo concept è creato dagli uomini a propria immagine e somiglianza e viene pertanto istintivamente accettato. In quanto antropomorfo predilige chi rispetta le leggi riportate nel testo di riferimento, riservandogli un posto speciale dopo la morte; per tutto ciò che non si riesce spiegare (anche compreso il perché dovrei accettare tutto ciò o perché me la passo così male nonostante faccia il bravo) la risposta è semplice: è la misteriosa volontà di dio (in altri termini “è così perché lo dico io”).

Questo risulta il modo più efficace di inculcare norme e comportamenti nelle menti degli uomini che, a causa della consapevolezza della propria finitezza, hanno terrore della morte, sono sollevati all’idea che se rigano dritto e fanno ciò che gli si dice avranno un posto in prima fila nel regno dei cieli (o nella janna, o nell’Eden) con gran gioia di chi così si garantisce decenni o secoli alle redini del potere (prelati, imam o altri santoni).

Peccato che un orafo tedesco di nome Gutenberg, verso la metà del 1400, abbia inventato la stampa a caratteri mobili e abbia così avviato lo scardinamento, almeno in Occidente, del primato culturale (in realtà meramente tipografico) della religione cattolica, rendendo possibile la divulgazione anche di testi differenti da quelli approvati dal consiglio vaticano.

Tuttavia l’uomo rimane essenzialmente lo stesso, nonostante la rivoluzione illuminista, l’affermarsi delle scienze empiriche, lo sviluppo commerciale, le scoperte geografiche, i prodigi della tecnica, egli non ha ancora sconfitto la paura di morire.

A partire dal XVIII secolo però il suo orizzonte di soddisfazione delle aspettative si è accorciato; mentre i suoi omologhi servi della gleba o uomini liberi di qualche secolo addietro riponevano tutte le aspettative nella vita oltre la morte, adesso le sue aspettative si sono imborghesite, e stavolta vuole godersela preferibilmente prima della sepoltura. 

In questo modo tutte le nuove idee liberali, filosofiche, scientifiche ed economiche tipiche del tardo illuminismo, vanno a riempire il vuoto lasciato dall’ormai demodé religione cattolica, assumendone così le stesse forme – prassi, promesse e dogmi- nelle forme dell’idealismo (soprattutto di stampo Hegeliano e Marxista).

Il più grande sforzo di laicizzazione della cultura Occidentale dai tempi dell’Impero Romano si risolve così nella nascita delle ideologie.

La solfa è sempre la stessa : il modello ideologico/politico/economico è antropomorfo, il suo concept è creato su misura dagli uomini che vi riversano le loro aspirazioni terrene, che verranno puntualmente soddisfatte qualora siano rispettate le condizioni di base del modello stesso. Qualora questo non accada, la colpa sarà dell’esecutore e giammai del modello, eventuali dissensi ed eterodossie prevedono la tacitazione forzata o il ludibrio pubblico o accademico.

Tutte le ideologie sono accomunate dalla promessa della realizzazione di una società perfetta, prospera e senza rischi, in pratica il vecchio Paradiso/Janna/Eden ora non è più ultraterreno ma realizzabile hic et nunc; dobbiamo solo essere tutti d’accordo e se non sarà proprio un paradiso daremo la colpa a qualcuno che non ci sembrava troppo convinto e ricominceremo con ancor più convinzione.

Dio, nella sua essenza, è solo il nome che diamo a quella casualità che domina buona parte delle nostre esistenze, offrendoci opportunità ed esponendoci a rischi; l’altra parte delle nostre esistenze, quella in cui cogliamo le opportunità o tentiamo di mitigare i rischi, si chiama libero arbitrio.

Secondo le ideologie novecentesche, dio (la casualità) è superato dal modello ideologico stesso (che si fonda su una promessa realizzabile, ovvero predittivo, dall’esito certo), a patto che ciascuno aderisca ai pre-requisiti del modello stesso, ovvero che lo si accetti incondizionatamente, ovvero che ciascuno rinunci al libero arbitrio.

Ne abbiamo visti parecchi di esempi del genere: anarchismo, socialismo, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo. Cinquanta sfumature di invidia sociale.

Il perché sia i precetti religiosi quanto le costrizioni ideologiche facciano così rapida presa nelle menti umane, credo sia facile da spiegare.

L’uomo conserva sempre e comunque l’istinto di auto-conservazione animale e al contempo deve convivere con la consapevolezza della propria finitezza. Vuol dire che ha coscienza della impredicibile casualità che domina la sua vita e, mediamente, è maggiormente terrorizzato dai rischi a cui potrebbe essere esposto di quanto non sia ingolosito dalle opportunità che gli si possono presentare. 

L’osservanza dei precetti religiosi lo illude di garantirsi una vita prospera nell’aldilà mentre le rinunce imposte dall’ideologia lo illudono di garantirsi una vita sicura nell’aldiqua. Con grande gioia di tutti i ministri di fede, imam, commissari, segretari di partito, gerarchi, duci e ducetti che di volta in volta tengono le redini della gerarchia.

La tradizione cristiana, con il libero arbitrio, ha consentito all’occidente di potersi emancipare dalla religione stessa, pur sostituendola successivamente con le ideologie; ci sono voluti circa quattro o cinque secoli per emancipare parzialmente l’occidente dalle credenze e ancora oggi c’è tanto da fare sul piano della laicizzazione istituzionale, sia religiosa che ideologica.

La tradizione islamica, che in luogo del libero arbitrio prevede la sottomissione, invece incorpora in un unico colpo sia la religione che l’ideologia e pertanto è, sostanzialmente, ferma al palo uguale a sé stessa da parecchi secoli.

Nel caso dell’occidente a trazione cristiana, il processo di emancipazione dalle credenze è agevolato dall’alfabetizzazione diffusa.

Nel caso dei paesi a trazione musulmana, vista l’impossibilità di sostituire le credenze con le ideologie in quanto queste ultime già incorporate nella legge religiosa e, soprattutto tenuto conto dell’elevato tasso di analfabetismo, è praticamente impossibile pensare di poter emancipare una roba del genere nell’arco di un ventennio (ma neppure nell’arco di mezzo millennio).

Quel giorno, l’11 settembre 2001, ho quindi assistito allo scontro – fisico – di due retaggi storici molto diversi e, allo stato dell’arte, totalmente inconciliabili tra loro.

Simbolicamente sembravano la classica forza inarrestabile che si scaglia contro il classico oggetto inamovibile, solo che qui non siamo nel mondo dei simboli e lo scontro si è risolto con esplosioni, crolli e tanti morti.

Il giorno dopo il crollo delle Torri Gemelli, la narrazione era già abbondantemente all’opera.

George W. Bush parlava di guerra al terrore, “Non dimenticheremo”, il volto di Osama Bin-Laden, il ricercato numero uno, era su tutti i canali, ad una prima occhiata del tutto identico al classico arabo con barba e turbante uscito da un’edizione illustrata delle Mille e Una Notte, ma senza tappeto volante.

Quella stessa notte, scoprì più tardi, non ero stato l’unico a dormire poco.

Oriana Fallaci aveva scritto di getto “La Rabbia e l’Orgoglio” mettendo in parole il pensiero (e soprattutto il sentimento) di molti di fronte all’accaduto; J.M. Straczynski in quella stessa notte aveva buttato giù la sceneggiatura del n. 36 di Amazing Spider-Man, infondendo negli eroi superumani lo stesso shock, il senso di impotenza, il dolore, che molti semplici umani su entrambe le sponde dell’Atlantico stavano provando. 

Potere della narrazione polimorfa. Quella cosa che ha preso il posto, nell’immaginario collettivo occidentale, dell’ideologia.

In Occidente la fine della Seconda Guerra Mondiale aveva, in via ufficiosa, decretato il declino delle ideologie, almeno del fascismo e del nazismo. Per il comunismo ci vorrà qualche decennio in più, del resto l’Unione Sovietica era tra i vincitori, quindi alcuni orfani ideologici avevano ancora un modello di società perfetta cui aspirare salvo poi scoprire, dopo la caduta del muro di Berlino, che quella società perfetta era costata circa 15 milioni di morti e non era riuscita neppure ad inventare gli assorbenti igienici per le donne.

Nei fatti a decretare il declino delle ideologie fu in realtà la diffusione della televisione.

Non dimentichiamo che l’ideologia aveva solo sostituito nell’immaginario collettivo il ruolo che fino all’Illuminismo ricopriva la narrazione religiosa.

Per colmare quel vuoto, per saziare la fame umana di credere in qualcosa, occorreva qualcosa di nuovo, una narrazione che ancora una volta veicolasse regole e portasse promesse, ma stavolta senza commettere l’errore del dogmatismo.

Quindi occorreva non una sola narrazione centralizzata, ma tante narrazioni apparentemente diversificate.

In questo modo la pluralità delle narrazioni avrebbe consentito di eludere l’imbarazzo del non-spiegabile senza più ricorrere al dogma, bensì rimandando ad un’altra narrazione, complementare o antitetica.

In pratica, a partire dagli anni ’50, è stato liberalizzato il mercato delle narrazioni e, di conseguenza, si è aperta a tutti la possibilità di scalare, in maniera stavolta non cruenta, la gerarchia di potere, rendendo così la capacità economica equipollente al potere costituito. 

Le prime narrazioni sono state quelle veicolate da chi ereditava il potere politico, da Hollywood a Cinecittà, dalla narrazione anti-comunista a quella anti-fascista, l’importante era stabilire il primato culturale dello status quo vigente, stigmatizzando i demeriti altrui e romanzando i meriti propri.

In quegli anni gli italiani, che in meno di due secoli erano passati dal predominio culturale religioso cattolico a quello fascista (con intermezzi liberali di cui molti ancora oggi faticano a ricordare figuriamoci a coglierne il significato), ora guardavano golosamente Lascia o Raddoppia, sperando di parteciparvi per rimpinguare le proprie finanze (aggirando così la fatica dell’ascensore sociale), acquistavano i vinili dei cantanti di Sanremo, facevano la fila al cinema per vedere i film americani e acquistavano gli abiti dei divi, si indebitavano per acquistare la 500 o una casa di nuova costruzione.

Il potere era liberalizzato. I potenti e gli aspiranti potenti avevano trovato il modo più efficace per consolidare le loro posizioni, non più con l’imposizione fideistica né con quella ideologica, non con violenza e prevaricazione ma offrendo a tutti un catalogo vastissimo di favole a cui credere; invece di dilapidare finanze nazionali per imporre la propria visione, oggi si vedevano invece remunerati per le narrazioni che andavano propinando. 

La narrazione mainstream è così divenuta la cifra culturale dell’Occidente post-bellico, un capolavoro di pluralismo che, in mezzo a tanto materiale di terz’ordine, ha generato tuttavia numerosissimi esempi di rilievo ma che, sostanzialmente, ha distrutto il tetragono paradigma della fissità culturale che aveva caratterizzato i secoli precedenti.

La diffusione di internet e dei social network, a partire dall’anno 2000, ha ulteriormente liberalizzato il mercato delle narrazioni, scardinando il primato di televisione e cinema, rendendolo democraticamente accessibile a chiunque abbia qualcosa da dire, indipendentemente se trattasi di balle belle e buone o di analisi approfondite e circostanziate.

La narrazione mainstream, compresa anche quella della contro-cultura degli anni ’70 che di fatto era talmente diffusa da essere mainstream esattamente come la televisione pubblica, fino agli anni ’90 aveva sempre un azionariato di supporto di cui si limitava ad essere espressione propagandistica.

L’avvento di internet ha invece ribaltato i ruoli creando uno spazio, quello della narrazione polimorfa, dove andare a pescare idee da cooptare.

Quindi, invece di proporre al pubblico narrazioni da acquistare, faticose da confezionare secondo i dettami dell’azionariato di supporto e ancor più faticose da rendere appetibili per il pubblico, perché non andare a raccontare al pubblico direttamente quello che vogliono sentirsi dire, visto che ce lo scrivono loro stessi?

Geniale. 

Perché invece di spremerci le meningi per azzeccare ciò che vuole che piace al pubblico e vuole l’azionariato, non pescare ad arte tra quelle idee compatibili, già pronte, che sembrano più popolari per poi rivenderle a tutti?

Dal 2010 in poi è stato infatti possibile, a patto di disporre di un po’ di soldini, dire all’azionariato di potere esistente cosa piaceva al pubblico, che a sua volta poteva efficacemente dire al pubblico cosa doveva piacergli.

Una manna per gli aspiranti gruppi di pressione emergenti: chiunque può oggi mettere in circolo una balla qualsiasi, con un investimento minimo guadagnarsi qualche migliaia (o milione) di visualizzazioni, per poi farsi cooptare il contenuto da un esponente di potere (mediatico o istituzionale) che a sua volta lo renderà narrazione ufficiale, senza tener conto che magari si trattava di una panzana colossale.

La solfa è sempre la stessa: questo racconto è corretto e fondato perché soddisfa il tuo bias di conferma (invece di promesse io ti offro certezze, cioè quelle che già possiedi ), unica regola per poter rimanere nel nostro circolo di illuminati è contrastare con ogni mezzo a tua disposizione qualunque parere differente (invece di regole a cui sottostare io ti offro un popolare ruolo di araldo della verità, ti faccio direttamente prelato), in caso di dubbi o di domande aspetta il sequel, o il prossimo post, dove troverai altre “verità e indizi” per saziare il tuo bias di conferma (invece di dogmi io ti offro un fantastico piano di fidelizzazione, una forma di dipendenza culturale).

Ora, tenuto conto che il grosso della gente smette di avere dubbi e di imparare cose nuove tra i 25 e i 30 anni, e che da quel momento trascorrerà il resto della sua vita alla forsennata ricerca delle mitiche parole “Hai ragione!” immaginiamoci gli effetti devastanti che la narrazione polimorfa può avere nei confronti di masse di persone che votano, che lavorano, che consumano e che interagiscono mutuamente fra loro.

E che, nonostante la proliferazione delle fonti scritte, s dimostrano sempre più pigri e refrattari a leggere più di due frasi subordinate.  

La Babele polimorfa di internet, in cui è possibile sentire sedicenti esperti di economia che parlano di corbellerie euro-scettiche, milioni di utenti che condividono il negazionismo anti-semita, migliaia di persone che organizzano convegni per mostrare le evidenze a sostegno della teoria della terra piatta, esponenti politici convinti che ai vertici bancari vi siano i Rettiliani.

Tutte narrazioni che fanno leva sul bisogno innato dell’essere umano di credere in qualcosa; tutte narrazioni che, per la loro essenza di latrici di “verità fideistiche” sono intrinsecamente divisive.

Una volta ero convinto che il laicismo avesse un valore intrinseco.

Ritenevo che l’emancipazione dalle credenze religiose nell’ambito delle decisioni, soprattutto quelle che hanno impatto fuori dalla propria sfera individuale, fosse un presupposto necessario per qualunque forma di progresso.

Evidentemente mi sbagliavo.

Perché il laicismo collettivo che auspicavo presupponeva a sua volta una generale presa di coscienza, una cultura, una preparazione e un criticismo che la maggior parte delle persone semplicemente non ha.

In assenza di questi pre-requisiti, il tramonto della religione (un tempo oppio dei popoli) ha solo generato un vuoto enorme nelle menti delle masse.

L’alluvione di informazioni che ci travolge da oltre 50 anni ha poi riempito nelle menti di massa quel vuoto lasciato dalla scomparsa della religione, che è stata via via sostituita dell’ideologia politica, dall’ortodossia lealista-istituzionale, dal complottismo, dalle bagatelle mediatiche.

Per ritrovarci oggi a vivere in un mondo composto da masse di estremisti assortiti, con a disposizione un catalogo sconfinato di argomenti (più o meno futili) su cui prendere bellicosamente posizioni antitetiche. Alla faccia della maieutica Socratica o della certezza dialettica Hegeliana.

Per farvi capire quanto sia forte il potere della narrazione, provate oggi a ribadire in pubblico un fatto reale, supportato da dati concreti come questo: l’Italia e la Spagna sono i Paesi Europei con il minor numero di “femminicidi”, sia in valore assoluto che come percentuale della popolazione.

In Italia la media dei “femminicidi” si attesta in un intorno dei 40 casi annui, peraltro con tendenza in calo (fonte Report 2019 dei Carabinieri sulla violenza di genere, https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/violenza-su-donne-Report-Carabinieri-uccisioni-in-calo-nel-2019-69f4ed1a-41c9-418e-9270-a7cdffdf1702.html) e, da un confronto effettuato, il nostro paese risulta detenere un primato, una volta tanto positivo, per minor numero di caso rispetto al resto della UE (https://www.agi.it/fact-checking/femminicidi_dati_italia-6157007/news/2019-09-10/).

Eppure, se ci si azzarda a profferire una simile affermazione, ci si espone al linciaggio pubblico.

Questo avviene perché, in oltre un decennio, sono tantissime le aziende operanti nel cosiddetto terzo settore che hanno trovato ampi spazi di crescita e remunerazione proprio veicolando una narrazione che prevede di classificare il fenomeno come strage. 

Queste aziende, negli ultimi 15 anni, sono cresciute creando posti di lavoro, effettuando investimenti e generando un volume di affari notevole (basti pensare che nel mio comune, di poco più di 100.000 abitanti, l’Accordo Quadro triennale stipulato nel 2016 con una di queste ONLUS prevedeva una remunerazione di circa € 100.000 annui a fronte del servizio d counseling psicologico e del gazebo Codice Rosa da installare presso l’Ospedale), un tale giro economico ha bisogno di essere continuamente alimentato pena la sua palese insostenibilità, attraverso la pressione politica e la veicolazione della narrazione stragista.

Basti pensare che un fenomeno statisticamente ben più rilevante, quello delle morti sul lavoro che si aggirano nell’ordine delle 1.000 unità annue, non gode di alcuna popolarità nell’immaginario collettivo poiché narrativamente poco veicolato, in quanto la sua narrazione non è cooptata da nessun azionariato di riferimento operante sul mercato, essendo la problematica appannaggio dei sindacati (che non operano in regime di libero mercato e che comunque non sarebbero capaci di agire di conseguenza) ed è chiaramente in conflitto con interessi economici dal maggior peso specifico che sono tranquillamente in grado di tacitare, o di far ignorare ai media mainstream, la narrazione stragista.

Il potere democraticamente eletto non può prescindere dagli effetti di massa della caotica narrazione polimorfa, ciò vuol dire che quella tecnica nata proprio per legiferare e consolidare la gerarchia di potere (la narrazione) nella sua attuale forma polimorfa è in grado di modellare l’indirizzo del potere poiché, essendo più rapida della narrazione mainstream, riesce a scovare nuove nicchie di malcontento laddove nessuno dei narratori mainstream aveva pensato di guardare.

Così accade che le deliranti cazzate scritte a ruota libera contro il signoraggio bancario diventino elementi di campagna elettorale, gli sfoghi complottisti per spiegarsi come mai non si è diventati ricchi come promesso dalla pubblicità diventano agenda di partito (o di “movimento” che suona meno elitario), inneggi al duce che “ha fatto tante cose buone e faceva andare i treni puntuali” (i treni all’epoca erano semplicemente molti di meno), fino ad arrivare ai pareri pseudo-scientifici dei no-vax che spesso non riescono neanche a mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio.

La narrazione religiosa offriva una vita prospera nell’aldilà, la narrazione ideologica offriva una vita sicura nell’aldiqua, la narrazione polimorfa offre un po’ di popolarità e uno sfogo immediato dei propri rigurgiti oggi stesso.

L’uomo, nel suo intrinseco bisogno di credere in qualcosa, ha drasticamente ridimensionato le sue aspettative, passando dalla beatitudine eterna ad un pugno di like.

La narrazione mainstream degli Stati Uniti, per cercare di accaparrarsi nicchie di consenso, ha via via rimodulato la sua reazione agli attentati dell’11 Settembre, passando dal proclama di vendetta “Non dimenticheremo” alla più hollywoodiana “Guerra al terrore”, per poi trasformarla (quando i consensi repubblicani hanno cominciato a scemare) nella ben più nobile e sofisticata “Esportazione di democrazia”. Facendole fare poi un rassicurante salto tecnologico col cambio di presidenza, in cui Obama, eroe del popolo, non volendo mollare il medio-Oriente (evidentemente la Clinton e Kerry hanno ancora molti affari in sospeso da quelle parti, tra smercio di uranio impoverito ed emancipazione dell’Iran dai combustibili fossili in chiave nucleare) iniziò ad utilizzare intensivamente i droni nella regione: per il pubblico si trattava di un videogioco in fondo, in cui nessun militare americano rischiava la pelle. Infine con Trump, che oggi sembra un seppur esecrabile esempio di coerenza, ci si decide ad iniziare il tanto atteso disimpegno militare NATO dell’Afghanistan, da attuarsi secondo una road-map che prevedeva il raggiungimento di precisi obiettivi di stabilità (politica ma soprattutto militare) da parte del paese prima di ritenerlo sufficientemente e democraticamente autonomo.

Tuttavia, nei 20 anni di narrazioni presidenziali, la narrazione polimorfa, con il suo portato di manichee divisioni e di violente polarizzazioni antitetiche, ha colpito ben più profondamente delle conferenze stampa dalla Casa Bianca.

Lo slogan politico statunitense post 11 settembre è passato dall’essere un atto che “Non dimenticheremo mai” ad una situazione in cui semplicemente “qualcuno aveva fatto qualcosa” (Ilhan Omar, membro Democratico della Congresso USA, 23 marzo 2019).

L’esportazione della democrazia, la guerra al terrore, il primato dei valori moderni liberali, l’ascensore sociale a trazione capitalista, la conciliazione di libertà e sicurezza, tutto cancellato, rimangiato, abiurato pur di rosicchiare nuove nicchie di consenso, pescando dal mare del malcontento polimorfo in vista delle presidenziali 2020.

Infine, pur di cancellare al più presto gli effetti delle scelte presidenziali precedenti (tra cui c’erano anche quelle di Obama), il neo-eletto presidente Joe Biden offre lo spettacolo di un’America cento volte più inesistente sul piano internazionale di quella di Trump : disimpegna le truppe di stanza in Afghanistan con una ritirata rapida e raffazzonata, nessuna road-map, nessuna milestone, nessun obiettivo di stabilità. Fuori, via, tutti, subito, tranquilli lasciate dietro basi, armamenti, tanto i nostri fratelli afghani sono ormai al sicuro, ci lasciamo dietro uno stato laico, stabile e democraticamente determinato.

Ai talebani, che nel frattempo se ne stavano rintanati nelle loro caverne e di sicuro avevano parecchie entrature nel governo democraticamente eletto di Ashraf Ghani, sono bastati quattro giorni per riprendersi quello che la missione NATO aveva faticosamente e dolorosamente costruito in 20 anni.

A suggellare il tutto, i discorsi di Biden all’indomani della conquista talebana di Kabul sembrava un’imitazione anacronistica dei discorsi di George W. Bush, la narrazione ufficiale ha cortocircuitato dopo aver tentato di inseguire la narrazione polimorfica per 20 anni, ritrovandosi ad usare le stesse parole e le stesse “giustificazioni” di quando era cominciata l’occupazione NATO e da cui i Democratici avevano promesso di prendere le distanze. O più probabilmente, il discorso gli è stato scritto da un social media manager che, come la maggior parte delle persone, non ha memoria storica. 

Di sicuro la democrazia non si esporta, di sicuro non si crea un aspirante ingegnere se si regala un Lego Technics ad un bambino di 3 anni che sa solo scavare la sabbia con pala e secchiello.

È simbolico che di fronte al più preoccupante evento internazionale di quest’anno, dalle nostre parti la Babele pubblica discuta animatamente di altrettanti, ben più futili, estremismi.

Tipo gli estremisti no-vax che danno addosso agli ortodossi del vaccino (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti non si sanno mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio).

I crociati della libertà che danno addosso ai lealisti del Green Pass (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno ha mai letto Tocqueville, Locke e neppure il nostrano Einaudi).

Gli antifascisti che danno addosso ai fascisti (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno saprebbe individuare neppure le date o i presupposti storici dei fenomeni).

Oppure le femministe integraliste che danno addosso agli storicisti patriarcali (qui invece nessun viceversa, pena il linciaggio pubblico, o secondo alcuni la carcerazione preventiva).

Il laicismo da solo non basta a garantire il progresso, ci vuole molto altro, ci vogliono anni di curiosità e preparazione.

La maggior parte di noi evidentemente ha ancora solo bisogno di credere strenuamente in una puerile favola che li veda sempre rigorosamente nella parte del buono (noi) in lotta contro il cattivo (loro).

Una volta per schierarsi dalla parte dei “buoni” bastava un sacramento, o una conversione o un diritto di nascita.

Oggi, per schierarsi fieramente dalla parte dei “buoni” e imbracciare le armi contro i “cattivi”, basta leggere qualche post su internet.

In un simile contesto, è facile capire perché gruppi estremisti religiosi abbiano ancora così tanta presa in molte aree del pianeta, perché i loro valori integralisti sono, in realtà, ancora in larga parte condivisi dalla popolazione in virtù di secoli di stratificazione “culturale” a senso unico. Il loro oscurantismo è tetragono, solido, si fonda sull’ignoranza e sulla fame di credenze, non accetta compromessi e grazie all’analfabetismo diffuso è graniticamente autoreferenziale.

D’altro canto, è altrettanto facile capire che il combinato disposto di pluralismo indiscriminato unito alla becera democratizzazione della narrazione, in assenza di meccanismi individuali di salvaguardia intellettuale, ci rende estremamente vulnerabili e a perenne rischio di radicalizzazione su qualunque questione, anche le più puerili.

A noi occidentali sono state regalate le barchette con cui navigare il mare della narrazione polimorfa ma, purtroppo, la maggior parte naufraga perché le bussole per orientarsi nella navigazione restano a pagamento, costano impegno e preparazione.

I talebani trovano più efficace negare direttamente che il mare esista, che l’unico orizzonte culturale possibile sia quello, ben più circoscritto e controllabile, di una caverna afghana.


Andrea Avolio è un millennial DOC. Nato nel 1981, è cresciuto negli anni ’90 illudendosi che il futuro apparteneva alla sua generazione e che tutti si sarebbero arricchiti (compreso lui). Si è laureato nel 2006 in Ingegneria Elettronica e ha iniziato a lavorare in contemporanea con la peggiore crisi economica degli ultimi 80 anni. Attualmente rientra a pieno titolo nelle statistiche sulla sua generazione perché, a dispetto della sua ininterrotta stabilità lavorativa, non dispone di alcuna liquidità finanziaria. La cosa non lo turba minimamente perché la sua vera aspirazione è diventare un eclettico (termine obsoleto, oggi si dice tuttologo) ed è a buon punto perché ha già raggiunto il livello di qualunquista finemente edotto. E’ un supernerd, colleziona comics, ama i blockbuster e il buon cinema, adora la musica prog (in tutte le sue declinazioni) ma nell’intimità ascolta il metal, legge libri che solitamente vendono poco, è un estimatore di vini, distillati e abiti stilosi (soprattutto scarpe e pochettes), unico sport praticato è la contemplazione a livello agonistico, è un liberale convinto, è sufficientemente curioso da riuscire ad imparare cose nuove anche dopo i 30 anni e pare addirittura che riesca a convincere parecchie persone circa le sue competenze in ambito filosofico, economico, politico ed esoterico, ritiene che il lavoro specializzato sia sopravvalutato, è aconfessionale, detesta la gente perché preferisce gli individui, parla fluentemente inglese, sa cucinare, pulire la casa e possiede la patente B. 

Come tutte queste cose possano coesistere senza aver mai subìto un TSO resta un mistero.




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Anna Cervetto [ annalatati_sketch]_Piovra_Orange Series

di Christian Lezzi_

Tutti noi abbiamo guardato (forse anche più volte) le varie trasposizioni televisive delle umane vicende di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e tutte le altre vittime di quella immonda vigliaccheria che, genericamente, chiamiamo mafia. Film (o telefilm) che, a volte bene, altre molto male, puntano l’occhio indagatore sulle vicende del diretto interessato, sul suo lavoro, tra luci e ombre, sulle vittorie professionali e le umane sconfitte, su ciò che lo ha portato alla morte e, a volte, come nel caso di Falcone, anche al pubblico linciaggio (guitto mediatico, Falcon Crest, il giudice abbronzato, l’amico dei socialisti… ce le ricordiamo queste infamie, lanciate al suo cospetto da buona parte dei “giornalisti” italiani?).

Si parla solo di rimbalzo, spesso come se fosse una componente secondaria, il poco importante contorno al piatto di portata, della loro famiglia, delle persone ugualmente importanti che, del personaggio principale, hanno condiviso ansie e dolori, gioie e paura, percorsi di vita e, a volte, di morte.

Per quanto sia stato da poco l’anniversario della morte di Falcone (23 maggio) e appena passato quello di  Borsellino (19 luglio), e per quanto non sia mai abbastanza lontano nella memoria l’estremo loro sacrificio (29 anni) non è dei protagonisti del Pool antimafia e del maxiprocesso di Palermo, che voglio parlare. Non di mafie ma di rispetto e, per una volta, voglio dare luce e voce a chi, silenziosamente, ha rischiato e sofferto, pur di restare al fianco dei protagonisti di queste brutte storie di sopruso e inumana violenza. Mogli, figli, in primis, travolti dal pericolo che, dal loro congiunto, come un cancro, si è esteso fino a loro. Famiglie intere stravolte dal cambiamento delle abitudini, dovuto alle minacce e alla non-vita sotto scorta, tra canne di pistola e luci blu. Qualunque cosa, ogni sacrificio, pur di restare accanto alla persona amata che, non per eroismo (e di questo abbiamo già parlato qui  ) bensì per un altissimo senso del dovere e dello Stato, hanno deciso di giocare il proprio ruolo fino alle estreme conseguenze, fino a quel sacrificio, di cui avrebbero fatto volentieri a meno, che era parte del gioco.

“Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.”

(Paolo Borsellino, a proposito di senso del dovere).

Ed è proprio di senso del dovere, inteso come forma di rispetto per le altre persone coinvolte dalle nostre scelte e dalle nostre azioni, che desidero parlare. E voglio farlo riportando alla memoria di tutti noi, un episodio di vita quotidiana, di desiderio di normalità e di ritorno alla vita, che comunque di rispetto e di senso del dovere, nobilmente si ammanta. Quella percezione di un dovere che non è un obbligo, bensì una scelta, libera, sofferta, ragionata, ma voluta e difesa perché sfida l’inevitabile, che ci fa alzare in piedi e dire “Presente“, quando la situazione lo richiede. Senza eroismi. Solo perché è giusto così.

Oggi voglio parlare di loro, anzi, di una di loro, in particolare. Tra i tanti, diretti congiunti dei troppi caduti per mafia, voglio ricordare l’integrità morale e la forza d’animo di Lucia Borsellino, senza per questo sminuire il sacrificio e l’abnegazione dei suoi fratelli minori Fiammetta (la piccola di casa) e Manfredi, il secondo nato. E nemmeno privando di memoria il sacrificio e la disponibilità di Agnese, madre e moglie esemplare che mai, nemmeno per un istante, vacillò nel suo appoggio al giudice, ben consapevole del rischio e anzi, cosciente della certezza di quanto, prima o poi, soprattutto dopo lo scempio di Capaci, sarebbe accaduto anche a suo marito.

Ma io voglio ricordare Lucia, perché all’epoca dei fatti era solo una ragazza di 23 anni, magra e delicata, forse troppo sensibile per sopportare senza piega la scorta, la paura, l’esilio forzato all’Asinara, le corse nella claustrofobica auto blindata e quel telefono che, in casa Borsellino, seminava il terrore a ogni squillo.

Lucia, che tra mille disagi interiori, dovuti non solo alla situazione contingente, ma anche all’età fragile di per sé, al suo diventare donna, giorno dopo giorno, al bisogno negato (per forza di cose) di libertà e indipendenza, alla necessità di essere serena e di non aver paura, che seppe, nonostante tutto e malgrado tutti, farsi interprete di un’educazione morale eccellente (grazie a papà Paolo e a mamma Agnese) e di un altrettanto eccellente senso del rispetto e del dovere che mai fu solo parole o sterile proclama.

Lucia Borsellino, nel mio immaginario incarna il senso del dovere e del rispetto quanto (e forse più) del suo indimenticato genitore. Quel dovere così sintetizzato dall’insegnamento del Dalai Lama “Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”. Perché, in estrema sintesi, il rispetto è anche una forma di responsabilità, quando la responsabilità diventa un dovere.

“Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”.

DALAI LAMA

Fu Lucia a voler vedere e a ricomporre i resti martoriati del padre, nella camera mortuaria, nel tentativo di restituirgli quella dignità che la bestialità del tritolo aveva cancellata, distruggendo il suo corpo e quel sorriso che mai dimenticheremo.

Un atto di coraggio, quello di Lucia, che preannuncia l’essenza della donna che sarà, ricca di valori e di forza etica, di senso del dovere, della capacità di dire “ci penso io”, anche quando si trattava di avvolgere di dolorosa pietà (per quanto possibile) i resti del suo povero papà, morto da poche ore.

A tutti noi capita di rinviare un impegno, un appuntamento, solo perché piove, perché siamo stanchi, perché siamo pigri, perché abbiamo altro da fare o perché, tutto sommato, di quell’impegno ci importa poco, togliendo de facto il rispetto alle persone da esso coinvolte. Ma Lucia no, lei ha risposto “Presente“, anche nel momento probabilmente più duro e cupo della sua vita. Un “Presente” che, nelle sue sfumature, aveva la voce di Paolo, artefice di quell’educazione e della trasmissione di cotanto senso civico.

Ed è proprio frutto di quella educazione, di quella formazione genitoriale, di quella percezione del dovere, se Lucia, pochi giorni dopo i tristi fatti di via D’Amelio, con i resti carbonizzati del padre ancora negli occhi (temo per sempre nella mente) decide di onorare l’impegno di un appello universitario, nonostante le validissime giustificazioni che poteva addurre e alle quali nessuno avrebbe potuto obiettare, presentandosi alla commissione e sostenendo un esame universitario, tra lo stupore di professori e studenti presenti..

Perché rispettare i propri impegni, la parola presa, farsi carico dei doveri assunti, è un atto di rispetto, forse il più alto e nobile che l’essere umano possa esprimere e tributare. E Lucia Borsellino, grazie anche all’esempio di Paolo, ne è stata insuperabile interprete, rispettando la memoria di suo padre, le aspettative della sua famiglia, il lavoro dei docenti e la sua stessa dignità.

Oriana Fallaci ha scritto e non a caso: “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”. Quella dignità che Paolo Borsellino, come tutte le altre vittime di mafia, ha rispettando, pagando con la vita il suo inarrestabile senso del dovere. 

“Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”.

ORIANA FALLACI

Ma Lucia, sua figlia, ci ha dimostrato che di senso del dovere non si muore soltanto. Di senso del dovere si vive, ci si migliora, ci si allontana dalla bestia (come direbbe Immanuel Kant) dando forma alla propria esistenza, alla propria umanità, alle proprie scelte, perché il senso del dovere è, tutto sommato, l’espressione più immediata e tangibile del rispetto che tributiamo agli altri (coinvolti dalle nostre scelte) e a noi stessi, di quelle scelte artefici e protagonisti, nel bene e nel male.

Grazie Lucia. Il tuo esempio ci ha resi persone migliori.


Note sull’Autore_

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.