Jack Frusciante è uscito dal gruppo – Enrico Brizzi

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. Persino da te stesso”

Illustrazione Federico Fossi_ vietata la riproduzione senza consenso scritto

Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Jack Frusciante è uscito dal gruppo – Enrico Brizzi

Casa editrice: Mondadori 

Anno di pubblicazione: 1994

Genere: narrativa 


Libro della mia adolescenza che racconta l’adolescenza.

La potenza dei libri.. Alex, diciassette anni e protagonista della storia, legge un libro e in lui scatta qualcosa.. inizierà a guardarsi intorno, vivendo tutte le esperienze tipiche dell’adolescenza.

L’adolescenza è la scoperta della consapevolezza della propria individualità, che mette in discussione quello che i genitori e la comunità ci ha insegnato e, a volte, impartito.

È quel periodo dove si mettono le basi per la costruzione della nostra personalità attraverso lo sguardo critico di quello che ci circonda, associato al costante antagonismo verso quello che non riteniamo giusto e verso tutti i tipi di ingiustizia.

In adolescenza si gettano le basi della propria crescita culturale, coltivata soprattutto attraverso la musica; fondamentale è, ovviamente, anche il confronto con le dinamiche dei “grandi”.

Durante questo particolare periodo risultano fondamentali le amicizie; queste possono essere obbligate e/o legate ai compagni di scuola e non sempre riescono a farci sentire del tutto completi. Le amicizie però possono essere coltivate anche con singoli ragazze/i: rapporti elitari nati e coltivati al di fuori dell’ambiente scolastico. 

I grandi gruppi di amici che in alcune occasioni possono non farci sentire accolti e apprezzati a pieno, consentono di condividere avventure ed emozioni affascinanti, spesso proibite, ma che restano nel cuore.

I veri amici, protetti e difesi con affetto, tante volte possono restare al nostro fianco fino all’età adulta.

Nell’avvicendarsi e nell’andirivieni delle amicizie, alcuni adorati compagni di scorribande e di sogni possono trovare difficoltà a gestire i propri limiti, con il rischio di vederli travolti da un mondo più grande di loro, dove gli adulti non riescono a proteggerli e a salvarli.

L’adolescenza, infine, è anche e soprattutto la scoperta dell’amore. L’amore grande, immenso, che ci riempie e ci fa volare.

I primi rapporti sono totalizzanti e ci travolgono, non soltanto dal punto di vista fisico. 

Le giornate si impregnano di sogni e di speranze che a volte s’infrangono, a causa dei primi tradimenti o di eventi indipendenti dalla volontà degli innamorati.

Quando il primo vero amore finisce, il dolore è lancinante e sembra non lasciare scampo..

Il sano passaggio all’età adulta sembrerebbe possibile soltanto se si riescono a vivere tutte le emozioni “previste” dall’adolescenza: amori, delusioni, felicità immense e delusioni cocenti.

Non è facile distinguere se i ricordi provengono dalla lettura del libro o dalle esperienze del lettore.. sicuramente “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” è travolgente e ricorda le preziose emozioni vissute da ragazzi (musica, amore, sofferenze, passioni e musica).

Probabilmente, come Alex, anche noi abbiamo vissuto un viaggio solo e triste “come una birra senz’alcool”.


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Sogno di un’ ombra, l’uomo.

Anna La Tati Cervetto_ Double_tecnica mista.

un racconto di Cristiana Caserta_

“Avevo sempre pensato” – dico al mio amico Vittorio davanti ad un Drambuieche a quest’età sarei stata una persona tranquilla, saggia, pacata…”

“Invece?”

Mi entusiasmo, mi incazzo, sbaglio, mi deprimo come quando…….”

Penso a una me stessa più giovane – a venti, a trenta, a quaranta – e finisco sempre col trovare una persona con la testa sulle spalle. Responsabile, alla fine dei conti. Quindi ‘sta cosa dell’entusiasmarsi, incazzarsi, sbagliare è recente…

È perplesso, lo vedo. Guarda dritto davanti a sé, oltre la ringhiera che separa il nostro tavolino dal mare della spiaggia di Mondello, dove, anche se è sera e se l’estate sta finendo, alcuni ragazzi fanno il bagno ridendo e rincorrendosi.

Che sbagli avrai mai fatto?” 

Mi chiede sorridendo, curioso. Glieli racconto. 

Ego te absolvo…”

Mi dice, facendo una faccia seria e contrita, da vecchio confessore. Rido. 

“A te? che ti affligge?”

Non sono certo di volere insegnare, di essere adatto…”

“Sei più che adatto!”

Sono certa di questo. Siamo stati colleghi per alcuni anni: i ragazzi lo adorano; adorano la sua emotività, il fatto che si commuova declamando certi versi, la sua severità, la sua capacità di leggere dentro di loro, capirne i turbamenti. 

“Ma…tutta la vita? Senza avere mai fatto altro?”

Pare sgomento. Una fila interminabile di anni sempre uguali gli passa davanti agli occhi e gli annebbia lo sguardo. Conosco l’ansia di sentirsi intrappolati, anzitempo. Il desiderio senza oggetto. 

Non dico niente. I pensieri notturni sono così: devono ingigantirsi, allargarsi e gonfiarsi come le nuvole di pioggia nera, diventare tragici fino a consolidarsi in qualche irrevocabile decisione di cambiamento; per poi dissolversi, di mattina, davanti al caffè, quando la realtà consueta appare così compatta e solida che sembra impossibile anche cambiarne anche solo un dettaglio.

“Che vorresti fare?”

Non lo so…” – sospira – “Vorrei passare un periodo di studio da qualche parte. In Francia o in Grecia”.

Si scola il suo cocktail e fa cenno alla cameriera di portarne un altro, per entrambi. 

“Se vai in Grecia, prendi una casa con un letto per me, ti vengo a trovare. C’è la Scuola Archeologica Italiana, ad Atene.”

Atene…”

Guardo i nostri cocktail. Le nostre uscite sono quasi sempre così: bere qualcosa e parlare.

“Ma poi dobbiamo trovare un bar, una taverna…”

“Potremmo studiare di mattina, vagare per l’acropoli di pomeriggio, ubriacarci di Retsina di sera…

L’idea mi piace. Troppo. Il mio sguardo si perde sull’orizzonte, appena rischiarato dalla luna, sulla linea del mare nero, oltre i merli e i fregi liberty del Charleston, che pare senza peso, poggiato sull’acqua a pochi metri da noi. 

E sarebbe facile se vogliamo, prendere un traghetto dal Pireo e passare qualche giorno sulle isole.

A declamare versi…”

Con i piedi nudi nell’acqua…

“Possiamo farlo anche qui, volendo…”

Dopo cinque minuti, abbiamo i piedi nell’acqua tiepida. Il nostro mare non deve essere troppo diverso dal mar Egeo. 

Un lampo lontanissimo illumina l’orizzonte. Parliamo un altro po’ – di amori, di libri, di progetti, del deludere sé stessi – passeggiando sul bagnasciuga e guardando la tempesta avvicinarsi. 

Prof!”

All’improvviso, uno dei ragazzi che fanno il bagno si stacca dagli altri, gocciolante, e ci viene incontro ridendo. È Fulvio, un nostro comune alunno di qualche anno fa. Gli facciamo festa: ci baciamo e ci abbracciamo. Cerca di spiegare ai suoi amici, abbastanza increduli, che noi – con lo sguardo trasognato e i piedi nudi – siamo stati suoi prof… prof veri! di quelli che interrogano e spiegano! Severi! Si ricorda di alcune lezioni. Le enumera:

Machiavelli, che la sera si cambiava vestito per leggere i classici; Petrarca, che cercava la scorciatoia per salire sul monte Ventoso; poi mi ricordo di Tasso … che voleva seguire le regole, ma non ci riusciva, voleva e non voleva… e finì in manicomio!”

Ridiamo della sua foga. Penso a quante cose ha un professore con cui affascinare i suoi alunni. Parliamo dell’estate, di viaggi, di progetti per l’autunno. Gli chiediamo che cosa fa, in che facoltà si è iscritto. Ingegneria gestionale, ci risponde. Gli piace? vogliamo sapere. Sì, gli piace, ma non ne è certo.  

“Prof, si ricorda della lezione sul tetrafarmaco di Epicuro? Quella sulla felicità? O dell’arte di amare di Ovidio?” – si ferma a riflettere, il suo viso si incupisce per la concentrazione. Cerca le parole, ma non le trova – “se tutti i prof fossero stati come voi…”

Ci salutiamo, con altri baci, abbracci e raccomandazioni. Fra poco piove, meglio asciugarsi e rimettersi le scarpe. 

Il mio amico Vittorio è rimasto silenzioso. Capisco il suo dilemma. Mi pento del cinismo con cui ho declassato a ‘notturni’ i suoi pensieri. Mi ricordo che fu del tutto ‘diurna’ la mia decisione di lasciare l’insegnamento. Non ho consigli da dargli, purtroppo. 

Ma, se c’è un senso dell’insegnare, – penso – forse è in incontri come questo, nel ricordarsi di quell’ora di lezione, nel sapere che ci sono – oltre alle cose utili, che servono – anche quelle meravigliosamente ‘inutili’, come i versi di Ovidio, o di Saffo. Mi ricordo di una cosa: “Qual è il verso che ti sei tatuato sul braccio?”

“Skias onar, sogno di un’ ombra”.

“mi ricordavo che c’era anche anthropos, uomo…”

nel verso di Pindaro, sì, sul mio braccio no”.


Skias onar anthropos, “sogno di un’ombra, l’uomo”

(Pindaro)


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Conosci te stesso e le tue emozioni.

Anna La Tati Cervetto_Decadence_tecnica mista.

di Christian Lezzi_

Conoscere se stessi, come se fosse facile, così presi dal quotidiano apparire, dall’ordinario essere (o, per lo meno sembrare) qualcosa che agli altri piaccia, per essere apprezzati, accolti, coinvolti nell’Io collettivo che tanto agogniamo.

Conoscere se stessi, come se fosse semplice da fare e non solo da dire, come se già non fossimo presi, oberati ogni momento, dal vuoto concetto, dal fuorviante miraggio dell’essere se stessi, qualunque cosa voglia significare questo arido modo di dire, seppur consapevoli che ogni azione, ogni pensiero, ogni molecola di umanità, ogni scintilla di vita che ci anima, come un potente propulsore che ci spinge fino alle stelle, ci conduce al miglioramento di noi stessi e del mondo intorno a noi.

Perché la vita è crescita continua – diversamente vita non è! – senza sosta e senza ristoro, per non accontentarsi di ciò che si è e per ambire a ciò che si vuole essere, che si vuole fortemente diventare, in un percorso (a ostacoli) che muove dallo stato attuale e ci conduce a quello desiderato.

Parliamo quindi di auto-coscienza e di auto-consapevolezza, la seconda come ovvia conseguenza della prima (e forse anche viceversa), di presa di contatto con se stessi, con le metaforiche fattezze celate in profondità, nell’intimo, necessarie a scoprire chi siamo, come siamo, quali obiettivi vogliamo raggiungere e quali vette vogliamo scalare. 

Coscienza e consapevolezza di se stessi e delle proprie emozioni, utili e necessarie a conoscere, prima di ogni altro aspetto, i nostri stessi limiti, le carenze che ci trasciniamo dietro, le lacune che ci rendono incompleti, i margini di miglioramento sui quali possiamo attivamente agire e adoperarsi per completare quel percorso di apprendimento ed elevazione che ci rende, per dirla con Lao Tse, non solo intelligenti, da conoscere gli esseri umani, ma anche saggi, da conoscere noi stessi.

Tutto il resto è una vita nell’illusione, nella più sterile aspettativa di ciò che non può essere, o che, in realtà è ben diverso da come lo immaginavamo, presi come siamo dal sogno che c’inganna e che ci porta fuori strada, dall’illusione soggettiva e superficiale che ci delude.

Occorre quindi, per conoscere se stessi davvero, lungi dall’inganno, conoscerle a fondo quelle emozioni, per imparare a gestirle senza ignorarle, senza rimuoverle o respingerle in profondità, per capirle e reagire a esse nel modo più consono e opportuno (che non è mai l’emozione, il problema, ma come noi reagiamo al suo palesarsi), indagando i motivi che le hanno generate, il perché di quel sentire, di quello stato d’animo, di quella rabbia o di quella tristezza, eviscerandole nella loro più realistica verità, soppesandone il vero carico e il reale peso, senza cedere alle nostre soggettive aspettative, per smontarle e depotenziarle, fino a riderci sopra e trasformarle in emozioni positive o, per lo meno, in qualcosa di meno potenzialmente pericoloso.

Ed è proprio qui la difficoltà: razionalizzare le proprie emozioni, ai confini della nostra natura emotiva, senza cadere nel grave e ormai ben noto errore di Cartesio, perché noi umani, nonostante il lascito intellettuale del filosofo francese (ad esempio il suo fuorviante cogito ergo sum) siamo esseri emotivi che pensano, non esseri razionali che si emozionano. 

E la differenza, a ben riflettere, è di vitale importanza.

Analizzare noi stessi, quindi. E le nostre stesse emozioni, allo scopo di superare l’abbaglio delle aspettative e del costrutto immotivato della nostra fantasia. Allo scopo, può essere utile e opportuno confrontarsi con gli altri, discutendo gli accadimenti secondo il nostro e il loro personale punto di vista, aprendosi al confronto più edificante, perché non sia solo la nostra miopia, o l’angolo d’osservazione sbagliato, a determinare il nostro sentire a proposito, ma l’attenta e corale analisi dell’insieme.

Impariamo, cammin facendo, ad apprezzarci. Impariamo a darcela, quella metaforica pacca sulle spalle, ad applaudire i nostri sforzi, ad apprezzare ciò che abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto, festeggiando il risultato, seppur piccolo, che abbiamo raggiungo e conseguito, senza mai sminuirci, senza nicchiare, senza falsa e castrante modestia, senza dar per scontato il successo conquistato a fatica, per quanto piccolo e marginale esso possa essere. 

Che a darci addosso, ad additarci e auto-accusarci, a urlare contro noi stessi, a inveire contro i nostri stessi fallimenti, a darci degli idioti per ogni piccola mancanza, siamo fin troppo bravi!

Sono i piccoli passi, sommati nel tempo, a completare una maratona. L’insieme delle piccole attività, dei piccoli gesti sommati tra di loro, a portarci ai più grandi risultati. Anche a quelli che ritenevamo impossibili. Se non impariamo ad apprezzare quei singoli e apparentemente inutili passi, mai potremo apprezzare (e nemmeno concludere) il sovrumano percorso lungo 42 kilometri e 195 metri, che si snoda dalla partenza al traguardo dell’antica corsa.

Non è ciò che facciamo una volta sola nella vita, magari per caso o per fortuna, a dirci di noi e del nostro futuro. Solo ciò che sapremo rendere quantificabile, misurabile e ripetibile, saprà dirci dove possiamo andare e aiutarci ad andarci davvero. 

Se ti riesce una sola volta, hai avuto fortuna. Se puoi ripeterlo nel tempo, hai una strategia per il futuro.

Impariamo a capirle, quelle emozioni, non solo a comprenderne il perché, ma a valutarne l’intensità e l’incidenza sul nostro stato mentale, in funzione delle risorse a nostra disposizione, della fase della giornata che stiamo vivendo, delle energie di cui disponiamo in quel momento (la stanchezza è bravissima a esacerbare gli animi), del contesto generale e personale, in cui esse prendono vita. 

Estrapolato dal contesto, nulla ha più lo stesso significato. E ciò vale anche e soprattutto per le parole, che quelle emozioni sanno così bene descrivere e ingigantire nella nostra mente, nel bene e nel male.

Non può esservi felicità alcuna, se non impariamo ad apprezzarci, se non altro perché solo accettandoci potremo conoscerci meglio. Non c’è modo di migliorare qualcosa che non si conosce, come non c’è modo di migliorare chi si limita a essere ciò che è convinto di essere, tanto in senso diminutivo che accrescitivo, dando per scontato e per assodato che così sarà per sempre, per tutta la sua vita, perché lui così c’è nato! 

Conoscerci, interrogarci, apprezzarci, valutarci, stimolarci, premiarci, per superare le frasi fatte e continuare il cammino dentro noi stessi e nel mondo, lontani dalla frustrazione delle aspettative immotivate e della carente autostima, ben protetti dai colpi della vita, dai falsi miti e dai modi di dire avulsi dal contesto e dalla logica.

Sii te stesso, è lo stato attuale. Rappresenta ciò che sei qui e ora, dice molto di ieri e di oggi, ma ben poco (se non proprio nulla) di cosa potenzialmente tu potrai fare, diventare ed essere domani. 

Conoscere se stessi, nell’intimo più profondo, è la sfida più entusiasmante, quella che ci porta allo stato desiderato, che porta all’eccellenza (o, per lo meno, da quelle parti) con cognizione di causa.

Nel primo caso sarà una mera accettazione dello status quo, a vincolarci e a permetterci di essere solo in un certo modo, nel rifiuto più totale di crescere e di progredire, chiusi al cambiamento e alle novità. Nel secondo caso, avremo un punto di partenza, un campo base dal quale muovere la nostra scalata verso un Io migliore, evoluto, progredito, dalla mente aperta sempre alla ricerca, pronto a diventare davvero ciò che, da sempre, sognava di essere.

D’altra parte, non si fanno mille e mille corsi di formazione, che siano tecnici o di crescita personale, per rimaner se stessi, ma per conoscersi e imparare a migliorarsi, tirando fuori da noi stessi, con intelligenza e applicazione, la nostra versione migliore. In attesa di scoprire la prossima versione, quella ancora migliore!

Sii te stesso e la tua vita sarà pregna di frustrazione. Conosci te stesso e la tua intera esistenza ti ringrazierà!


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




D’Amore dimore – Silvia Berton.

Memories_ Olio su tela e pigmento 150 x 120 cm

Intervista a Silvia Berton_

E’ in corso in questi giorni, fino al 30 settembre a Noto [SR] , “D’AMORE DIMORE” , la Personale di Silvia Berton.

E’ una mostra di una Artista poliedrica che arriva dalla fotografia, passa quindi alla Pittura, e inserisce, come in questa occasione, una esperienza  sensoriale e tattile con gli spettatori. 

Lo scopo è quello di ampliare ed integrare l’orizzonte di esplorazione della mostra tramite il coinvolgimento dello spettatore a livello personale.

Spero sia una occasione per ‘guardarci negli occhi’ vedere davvero l’altro…portare i miei lavori dal muro, alla terra, corpo“.

Silvia è veneta di nascita ma, dopo esperienze professionali a Milano e a Tel Aviv, si trasferisce a Noto, in Sicilia. 

Il suo stile, minimalista, è ricolmo di significati narrativi profondi e dal carattere molto forte.

Le sue immagini sono state esposte a Milano, Mantova, Brescia, Genova, Copenaghen, Nizza e Rotterdam.

La incontriamo all’ombra delle arcate di Palazzo Ducezio, location della sua Mostra, seduti sui gradini della splendida facciata.

Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.

Imparare a vedere, è il tirocinio più lungo in tutte le arti. La fotografia per me è stata prima una opportunità professionale quando posavo, e poi un mezzo di espressione potente che mi ha permesso di imparare ad osservare, e che ho usato ed uso tutt’oraE’ il mio personale diario emotivolo sguardo se si guarda veramente, ti porta al di fuori del pregiudizio, ti distanzia dal conformismo che portano inevitabilmente all’ omologazione dell’individuo, cosa che itutti i modi vorrei evitare.

Se usata per comprendere e migliorarsi, è uno strumento anche terapeutico e di grande utilità.

Sono d’accordo, anche se spesso è usata in maniera inadeguata e sicuramente è abusata. Il fotografo ha la responsabilità del suo lavoro e degli effetti che ne derivano” 

La fotografia, dunque non è stata semplicemente un’occupazione. 

Non l’ho mai considerata solo come tale. Sia quando posavo, e poi successivamente usando la macchina fotografica, io ho sempre portato un megafono con il quale ho cercato di parlare senza usare le parole.

Quanto è importante cercare dentro sé stessi le motivazioni che poi ti ispirano per le tue opere?

“Non direi che è importante, forse la vera parola e’ urgente, necessario. Un dipinto mentre lo si fa travolge di rovinosa bellezza e incurante distruzione…ci lascia vuoti attorno , ma pienissimi nello sguardo e nell’anima.Riappacificati e pronti per la bataglia di un nuovo vuoto“.

La tua pittura è caratterizzata da un processo di riduzione della realtà, dell’anti espressività, da una apparente impersonalità e freddezza emozionale. Una sorta di riduzione minimale delle immagini che diventa una pittura estremamente raffinata, simbolica, sospesa tra sogno e realtà. Ti riconosci in questa descrizione? 

Io cerco di trovare la sintesi della forma, e questo vale sia per la fotografia che per la pittura. L’incongruenza naturale di un gesto, scarna di ricerca, virtuosismi , velleità artistiche . La discrepanza , un graffio , un taglio che apre finestre laddove prima c’erano muri compatti di colore e certezze, questa per me è bellezza“.

Possiamo aggiungere che una lucida irresponsabilità, una forma di anarchia e una latente disobbedienza intellettuale sono il “fil rouge” della tua produzione artistica?

Posso dire con convinzione che il principale nemico della creatività è il buonsenso“.

Mirabilis_Olio su tela e pigmento_150x150

Che il valore dell’arte dipenda solo o prevalentemente dal suo valore estetico è sostanzialmente una idea che ci piace pensare che sia vera. Ma, partendo da questo presupposto, come può avere successo un’artista che non tiene in considerazione primaria il valore estetico e magari si esprime attraverso corpi smembrati (è un esempio).

L’arte forse dice di un futuro…e non sempre piace. L’arte pone domande…e  non sempre piacciono“.

Il mercato dell’Arte è un mercato che viene spesso considerato sporco ed inquinato da interessi che nulla hanno a che fare con le emozioni che muovono un artista. Il rapporto tra i mercanti d’arte e l’Artista è davvero così?

E’ mercato appunto…merx “merce”….merce sentimentale …forse non è propriamente il giusto binomio…Non so se ti ho risposto…

Quindi a parità di talento è indubitabile che essere notati dal critico influente faccia la differenza, esporre nelle gallerie più importanti faccia la differenza, essere apprezzati dai collezionisti più capaci faccia la differenza e così via….

Cogliere queste opportunità, accettare il compromesso, può condizionare le libertà espressiva sottoponendo l’artista ad una sorta di “prostituzione” al successo. 

Personalmente,in cuor mio io la penso e la vivo cosìPer altri, con altre priorità, il pensiero può essere diverso e va rispettato“.

Il compromesso è una strategia che inevitabilmente è presente in ogni tipo di contrattazione, e dunque la vera domanda è, “sono disposto a scendere a ricatti”?

Ognuno ha il diritto ed il dovere di guardarsi davanti allo specchio e darsi una risposta. Fatto ciò può prendere una strada o l ‘altra in assoluta libertà, pace e coscienza“.

In qualsiasi mercato la manipolazione dei prezzi da parte degli operatori causa distorsioni, carenze ed inefficienza. Ma nelle sue caratteristiche peculiari , il mercato dell’arte primaria funziona e l’arte contemporanea genera decine di miliardi di dollari di entrate ogni anno. La domanda è : la manipolazione dei prezzi, paradossalmente, non sembra garantire una carriera stabile per le élite e per gli artisti.

La stabilità è importante perché molti artisti impiegano decenni per maturare e produrre i loro lavori
 migliori.Se non avessimo tempo di fronte a noi 
 per maturare, alla fine forse non potremmo produrre opere di livello….o semplicemente non potremmo mangiare“.

I commercianti e i collezionisti d’arte credono tutti di avere un ruolo decisivi nell’arte e per la vostra attività e, interessi finanziari a parte, sono preparati per questo ruolo perchè molti di loro sono veri esperti d’arte che vivono non solo di, ma anche e sinceramente, per l’arte. Praticamente trascorrono tutta la vita nel settore, si aggiornano, studiano la storia dell’arte e collocano l’arte contemporanea nel suo contesto storico. Questo gli va riconosciuto: sanno cogliere ciò che la maggior parte di noi “non addetti ai lavori”, non sapremmo cogliere.

“E’ innegabile e giusto che sia così. Questo è un settore nel quale le masse non sono decisive. Facciamo un paragone con un altro mezzo culturale, diciamo la tv per esempio, dove i gusti della maggior parte della popolazione determina la programmazione e la produzione futura. Se ciò accadesse anche nell’Arte, la richiesta del mercato si attesterebbe ad un livello omogeneamente basso.  La pittura, ma ogni forma d’arte e di cultura, è una cosa privata; si lavora solo per pochi. Può non piacere questo concetto, ma è un dato di fatto”.

A parità di talento e di qualità di contenuti, è corretto dire che sarà l’artista che più e più spesso si esprimerà, che si proporrà al pubblico, che si collocherà nelle “grazie” dei collezionisti che contano , ad avere un maggior e più duraturo successo?

” Il principio è lo stesso che vale per altre professioni. Se uno scrittore non scrive e non pubblica, non è uno scrittore, anche se ha talento. Inutile nasconderlo: creare arte è una libertà, ma come tutte le libertà per essere tale ha la necessità di dargli forma e sostanza, altrimenti resta una sacrosanta libertà ma individuale e basta, praticata per essere tale, e come tale, essendo alta, ben poco si interesserà ad essere riconosciuta e gli basterà essere vissuta solo da chi la crea”.

Da quello che abbiamo potuto comprendere osservando le tue opere, è che tu hai un profondo rispetto per te stessa ed un concetto di dignità molto radicato. A volte può sembrare una forma di ego, una considerazione molto alta del tuo lavoro e della tua vita.

In realtà forse ho grande rispetto di quello che amore e lacrime sanno fare e credo che vadano maneggiate con cura,sempre“.


D’AMORE DIMORE

Personale di pittura e arte performativa di Silvia Berton dal 03 al 30 settembre 2021 NOTO

Bassi Palazzo Ducezio – via Silvio Spaventa

La mostra sarà visitabile tutti i giorni della settimana dalle ore 17:00 alle ore 23.00.

Possibilità di apertura mattutina. Per informazioni o appuntamenti 346 8555 368 – prenota la tua performance

Evento realizzato nell’ambito della Rassegna “Percorsi di NOTOrietà” curata da Vincenzo Medica per Studio Barnum contemporary e Patrocinata dall’Assessorato al Turismo e alla Cultura del Comune di Noto.


Silvia Berton si avvicina al mondo della fotografia inizialmente come modella; presto però si interessa più al processo creativo che sta dietro l’obbiettivo, che non a farne da soggetto. Il suo stile, anche se di natura minimalista, rimane denso di carattere, forza e narrazione. Le sue sono immagini che chiedono di fermarsi, riflettere e lasciarsi assorbire. L’immaginario  compositivo sembra provenire quasi da un’altra dimensione e lascia un’impressione duratura. Le composizioni di Silvia creano un’atmosfera seducente e ci portano con lo sguardo in una storia che dobbiamo ancora capire. Quando osserviamo il suo lavoro ci sembra di scivolare nel sogno di qualcun altro: è reale, senza essere vero. E’ misterioso, passionale e quasi sempre ci lascia con un respiro in sospeso, senza raccontarci mai il finale della storia.




“Qualcuno aveva fatto qualcosa” – 11 settembre 2001.

David D’Amore_China su carta

di Andrea Avolio_

11 settembre 2001.

Erano le tre del pomeriggio mentre mi si allentava la mandibola guardando alla TV quella che sembrava la versione alla Blair Witch Project di un film di Michael Bay.

Un grosso buco, da cui usciva fumo nero, piazzato poco sotto la cima di una delle Torri Gemelle, quella con l’antenna. 

“Un incidente?” – pensai-.

A smentirmi arrivò un aereo da fuori l’inquadratura. Dritto, orizzontale. Si schianta. Forte. Veloce. Esplode. Un buco di fuoco sull’altra Torre, quella senza antenna.

Non era un incidente. E non era neppure un mockumentary. Era reale. Stava succedendo adesso.

Trascorsi il resto della giornata incollato alla televisione. Vidi gli incendi divampare, le persone ridotte a puntini neri lanciarsi dalle Torri, nel pomeriggio le Torri collassarono inesorabili e precise, come nei filmati dei crolli controllati.

Vidi i pompieri, la polizia, il groviglio di travi di acciaio, detriti di calcestruzzo, la polvere sbiancava i volti in preda al panico, i cavi elettrici come arterie recise. In serata, altrettanto inesorabile, crollò anche il Building WTC 5.

Andai a dormire tardi, mentre i cronisti mostravano frammenti di discorsi di George W. Bush, ci spiegavano che si era trattato di un attentato terroristico ad opera di Al-Qaida, ennesimo gruppo terroristico islamico dal nome a me incomprensibile, di stanza in Afghanistan. Avevo 20 anni all’epoca, a stento sapevo dove si trovasse l’Afghanistan, sapevo solo che era una delle ex-repubbliche socialiste sovietiche e che il nome Al-Qaida mi suonava incomprensibilmente uguale a quello di tutti gli altri innumerevoli gruppi di fanatici religiosi medio-orientali, Fatah, Hamas, Hezbollah, chi vattelapesca sciita e chi come-si-chiama sunnita. Cinquanta sfumature di odio.

Andai a dormire dopo aver assistito agli effetti fisici del potere della religione, ormai storia antica in Occidente, che tornavano a farsi sentire dopo oltre duecento anni dall’Illuminismo.

Da allora sono passati 20 anni; nel frattempo, oltre a imparare dove si trova l’Afghanistan, ho imparato anche che le religioni monoteiste, le tre cosiddette “del libro”, nascono essenzialmente per normare e regolamentare comunità eterogenee e distribuite su vasti territori, attraverso l’utilizzo di una narrazione suggestiva. Nel caso dell’ebraismo la legge religiosa serviva a conservare, e tenere insieme dal punto di vista delle tradizioni e prassi, una comunità frammentata e sparsa per tutto il mondo conosciuto, la cui priorità era il mutuo e vicendevole soccorso in territori perennemente stranieri. Nel caso del cristianesimo, e del cattolicesimo soprattutto, la legge religiosa serviva alla diffusione del culto stesso, ovvero funzionale alla moltiplicazione del clero e alla sua accumulazione di ricchezza e consolidamento del potere, centrale e locale (lo stesso fenomeno che avviene nelle grandi aziende, solitamente quelle ad azionariato pubblico, quando si moltiplicano le scrivanie dei dirigenti). Nel caso dell’Islam, la legge religiosa era funzionale a supportare la conquista indiscriminata, essendo la cultura dei popoli medio-orientali per motivi di scarsità di risorse locali, votata al saccheggio e alla conquista di territori più prosperi (la stessa cosa la facevano i Vichinghi, altra cultura radicata in un territorio climaticamente ostile). 

Le società occidentali classiche, quelle greco-romane politeiste, erano di gran lunga più laiche di quanto noi siamo riusciti ad essere dal XVIII secolo in poi; a tenerle unite e renderle omogenee era solo la legge e non, come attuato dalle religioni cristiane e musulmane, la narrazione della legge. Basti pensare a quanto fosse inclusivo e rispettoso l’atteggiamento della Roma imperiale nei confronti delle culture locali delle proprie colonie, di certo molto più di quanto lo siano stati i Gesuiti in America latina nel XVI e XVII secolo, per non parlare invece dei Saraceni nel Mediterraneo ai tempi in cui noi ci godevamo il nostro Medio-Evo.

La religione monoteista nasce sostanzialmente per risolvere il problema di “omogeneizzare” usi e costumi di numerose ed eterogenee comunità, ciascuna con stratificazioni storico-culturali profondamente diverse, al fine di consolidare la gerarchia di potere. E per far bene questo lavoro devi disporre di tre cose: leggi chiare da imporre, una storia suggestiva con cui convincere e delle scuse con cui tacitare qualsiasi obiezione. Ovvero prassi, promesse e dogmi.

La solfa è sempre la stessa : la divinità è antropomorfa, il suo concept è creato dagli uomini a propria immagine e somiglianza e viene pertanto istintivamente accettato. In quanto antropomorfo predilige chi rispetta le leggi riportate nel testo di riferimento, riservandogli un posto speciale dopo la morte; per tutto ciò che non si riesce spiegare (anche compreso il perché dovrei accettare tutto ciò o perché me la passo così male nonostante faccia il bravo) la risposta è semplice: è la misteriosa volontà di dio (in altri termini “è così perché lo dico io”).

Questo risulta il modo più efficace di inculcare norme e comportamenti nelle menti degli uomini che, a causa della consapevolezza della propria finitezza, hanno terrore della morte, sono sollevati all’idea che se rigano dritto e fanno ciò che gli si dice avranno un posto in prima fila nel regno dei cieli (o nella janna, o nell’Eden) con gran gioia di chi così si garantisce decenni o secoli alle redini del potere (prelati, imam o altri santoni).

Peccato che un orafo tedesco di nome Gutenberg, verso la metà del 1400, abbia inventato la stampa a caratteri mobili e abbia così avviato lo scardinamento, almeno in Occidente, del primato culturale (in realtà meramente tipografico) della religione cattolica, rendendo possibile la divulgazione anche di testi differenti da quelli approvati dal consiglio vaticano.

Tuttavia l’uomo rimane essenzialmente lo stesso, nonostante la rivoluzione illuminista, l’affermarsi delle scienze empiriche, lo sviluppo commerciale, le scoperte geografiche, i prodigi della tecnica, egli non ha ancora sconfitto la paura di morire.

A partire dal XVIII secolo però il suo orizzonte di soddisfazione delle aspettative si è accorciato; mentre i suoi omologhi servi della gleba o uomini liberi di qualche secolo addietro riponevano tutte le aspettative nella vita oltre la morte, adesso le sue aspettative si sono imborghesite, e stavolta vuole godersela preferibilmente prima della sepoltura. 

In questo modo tutte le nuove idee liberali, filosofiche, scientifiche ed economiche tipiche del tardo illuminismo, vanno a riempire il vuoto lasciato dall’ormai demodé religione cattolica, assumendone così le stesse forme – prassi, promesse e dogmi- nelle forme dell’idealismo (soprattutto di stampo Hegeliano e Marxista).

Il più grande sforzo di laicizzazione della cultura Occidentale dai tempi dell’Impero Romano si risolve così nella nascita delle ideologie.

La solfa è sempre la stessa : il modello ideologico/politico/economico è antropomorfo, il suo concept è creato su misura dagli uomini che vi riversano le loro aspirazioni terrene, che verranno puntualmente soddisfatte qualora siano rispettate le condizioni di base del modello stesso. Qualora questo non accada, la colpa sarà dell’esecutore e giammai del modello, eventuali dissensi ed eterodossie prevedono la tacitazione forzata o il ludibrio pubblico o accademico.

Tutte le ideologie sono accomunate dalla promessa della realizzazione di una società perfetta, prospera e senza rischi, in pratica il vecchio Paradiso/Janna/Eden ora non è più ultraterreno ma realizzabile hic et nunc; dobbiamo solo essere tutti d’accordo e se non sarà proprio un paradiso daremo la colpa a qualcuno che non ci sembrava troppo convinto e ricominceremo con ancor più convinzione.

Dio, nella sua essenza, è solo il nome che diamo a quella casualità che domina buona parte delle nostre esistenze, offrendoci opportunità ed esponendoci a rischi; l’altra parte delle nostre esistenze, quella in cui cogliamo le opportunità o tentiamo di mitigare i rischi, si chiama libero arbitrio.

Secondo le ideologie novecentesche, dio (la casualità) è superato dal modello ideologico stesso (che si fonda su una promessa realizzabile, ovvero predittivo, dall’esito certo), a patto che ciascuno aderisca ai pre-requisiti del modello stesso, ovvero che lo si accetti incondizionatamente, ovvero che ciascuno rinunci al libero arbitrio.

Ne abbiamo visti parecchi di esempi del genere: anarchismo, socialismo, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo. Cinquanta sfumature di invidia sociale.

Il perché sia i precetti religiosi quanto le costrizioni ideologiche facciano così rapida presa nelle menti umane, credo sia facile da spiegare.

L’uomo conserva sempre e comunque l’istinto di auto-conservazione animale e al contempo deve convivere con la consapevolezza della propria finitezza. Vuol dire che ha coscienza della impredicibile casualità che domina la sua vita e, mediamente, è maggiormente terrorizzato dai rischi a cui potrebbe essere esposto di quanto non sia ingolosito dalle opportunità che gli si possono presentare. 

L’osservanza dei precetti religiosi lo illude di garantirsi una vita prospera nell’aldilà mentre le rinunce imposte dall’ideologia lo illudono di garantirsi una vita sicura nell’aldiqua. Con grande gioia di tutti i ministri di fede, imam, commissari, segretari di partito, gerarchi, duci e ducetti che di volta in volta tengono le redini della gerarchia.

La tradizione cristiana, con il libero arbitrio, ha consentito all’occidente di potersi emancipare dalla religione stessa, pur sostituendola successivamente con le ideologie; ci sono voluti circa quattro o cinque secoli per emancipare parzialmente l’occidente dalle credenze e ancora oggi c’è tanto da fare sul piano della laicizzazione istituzionale, sia religiosa che ideologica.

La tradizione islamica, che in luogo del libero arbitrio prevede la sottomissione, invece incorpora in un unico colpo sia la religione che l’ideologia e pertanto è, sostanzialmente, ferma al palo uguale a sé stessa da parecchi secoli.

Nel caso dell’occidente a trazione cristiana, il processo di emancipazione dalle credenze è agevolato dall’alfabetizzazione diffusa.

Nel caso dei paesi a trazione musulmana, vista l’impossibilità di sostituire le credenze con le ideologie in quanto queste ultime già incorporate nella legge religiosa e, soprattutto tenuto conto dell’elevato tasso di analfabetismo, è praticamente impossibile pensare di poter emancipare una roba del genere nell’arco di un ventennio (ma neppure nell’arco di mezzo millennio).

Quel giorno, l’11 settembre 2001, ho quindi assistito allo scontro – fisico – di due retaggi storici molto diversi e, allo stato dell’arte, totalmente inconciliabili tra loro.

Simbolicamente sembravano la classica forza inarrestabile che si scaglia contro il classico oggetto inamovibile, solo che qui non siamo nel mondo dei simboli e lo scontro si è risolto con esplosioni, crolli e tanti morti.

Il giorno dopo il crollo delle Torri Gemelli, la narrazione era già abbondantemente all’opera.

George W. Bush parlava di guerra al terrore, “Non dimenticheremo”, il volto di Osama Bin-Laden, il ricercato numero uno, era su tutti i canali, ad una prima occhiata del tutto identico al classico arabo con barba e turbante uscito da un’edizione illustrata delle Mille e Una Notte, ma senza tappeto volante.

Quella stessa notte, scoprì più tardi, non ero stato l’unico a dormire poco.

Oriana Fallaci aveva scritto di getto “La Rabbia e l’Orgoglio” mettendo in parole il pensiero (e soprattutto il sentimento) di molti di fronte all’accaduto; J.M. Straczynski in quella stessa notte aveva buttato giù la sceneggiatura del n. 36 di Amazing Spider-Man, infondendo negli eroi superumani lo stesso shock, il senso di impotenza, il dolore, che molti semplici umani su entrambe le sponde dell’Atlantico stavano provando. 

Potere della narrazione polimorfa. Quella cosa che ha preso il posto, nell’immaginario collettivo occidentale, dell’ideologia.

In Occidente la fine della Seconda Guerra Mondiale aveva, in via ufficiosa, decretato il declino delle ideologie, almeno del fascismo e del nazismo. Per il comunismo ci vorrà qualche decennio in più, del resto l’Unione Sovietica era tra i vincitori, quindi alcuni orfani ideologici avevano ancora un modello di società perfetta cui aspirare salvo poi scoprire, dopo la caduta del muro di Berlino, che quella società perfetta era costata circa 15 milioni di morti e non era riuscita neppure ad inventare gli assorbenti igienici per le donne.

Nei fatti a decretare il declino delle ideologie fu in realtà la diffusione della televisione.

Non dimentichiamo che l’ideologia aveva solo sostituito nell’immaginario collettivo il ruolo che fino all’Illuminismo ricopriva la narrazione religiosa.

Per colmare quel vuoto, per saziare la fame umana di credere in qualcosa, occorreva qualcosa di nuovo, una narrazione che ancora una volta veicolasse regole e portasse promesse, ma stavolta senza commettere l’errore del dogmatismo.

Quindi occorreva non una sola narrazione centralizzata, ma tante narrazioni apparentemente diversificate.

In questo modo la pluralità delle narrazioni avrebbe consentito di eludere l’imbarazzo del non-spiegabile senza più ricorrere al dogma, bensì rimandando ad un’altra narrazione, complementare o antitetica.

In pratica, a partire dagli anni ’50, è stato liberalizzato il mercato delle narrazioni e, di conseguenza, si è aperta a tutti la possibilità di scalare, in maniera stavolta non cruenta, la gerarchia di potere, rendendo così la capacità economica equipollente al potere costituito. 

Le prime narrazioni sono state quelle veicolate da chi ereditava il potere politico, da Hollywood a Cinecittà, dalla narrazione anti-comunista a quella anti-fascista, l’importante era stabilire il primato culturale dello status quo vigente, stigmatizzando i demeriti altrui e romanzando i meriti propri.

In quegli anni gli italiani, che in meno di due secoli erano passati dal predominio culturale religioso cattolico a quello fascista (con intermezzi liberali di cui molti ancora oggi faticano a ricordare figuriamoci a coglierne il significato), ora guardavano golosamente Lascia o Raddoppia, sperando di parteciparvi per rimpinguare le proprie finanze (aggirando così la fatica dell’ascensore sociale), acquistavano i vinili dei cantanti di Sanremo, facevano la fila al cinema per vedere i film americani e acquistavano gli abiti dei divi, si indebitavano per acquistare la 500 o una casa di nuova costruzione.

Il potere era liberalizzato. I potenti e gli aspiranti potenti avevano trovato il modo più efficace per consolidare le loro posizioni, non più con l’imposizione fideistica né con quella ideologica, non con violenza e prevaricazione ma offrendo a tutti un catalogo vastissimo di favole a cui credere; invece di dilapidare finanze nazionali per imporre la propria visione, oggi si vedevano invece remunerati per le narrazioni che andavano propinando. 

La narrazione mainstream è così divenuta la cifra culturale dell’Occidente post-bellico, un capolavoro di pluralismo che, in mezzo a tanto materiale di terz’ordine, ha generato tuttavia numerosissimi esempi di rilievo ma che, sostanzialmente, ha distrutto il tetragono paradigma della fissità culturale che aveva caratterizzato i secoli precedenti.

La diffusione di internet e dei social network, a partire dall’anno 2000, ha ulteriormente liberalizzato il mercato delle narrazioni, scardinando il primato di televisione e cinema, rendendolo democraticamente accessibile a chiunque abbia qualcosa da dire, indipendentemente se trattasi di balle belle e buone o di analisi approfondite e circostanziate.

La narrazione mainstream, compresa anche quella della contro-cultura degli anni ’70 che di fatto era talmente diffusa da essere mainstream esattamente come la televisione pubblica, fino agli anni ’90 aveva sempre un azionariato di supporto di cui si limitava ad essere espressione propagandistica.

L’avvento di internet ha invece ribaltato i ruoli creando uno spazio, quello della narrazione polimorfa, dove andare a pescare idee da cooptare.

Quindi, invece di proporre al pubblico narrazioni da acquistare, faticose da confezionare secondo i dettami dell’azionariato di supporto e ancor più faticose da rendere appetibili per il pubblico, perché non andare a raccontare al pubblico direttamente quello che vogliono sentirsi dire, visto che ce lo scrivono loro stessi?

Geniale. 

Perché invece di spremerci le meningi per azzeccare ciò che vuole che piace al pubblico e vuole l’azionariato, non pescare ad arte tra quelle idee compatibili, già pronte, che sembrano più popolari per poi rivenderle a tutti?

Dal 2010 in poi è stato infatti possibile, a patto di disporre di un po’ di soldini, dire all’azionariato di potere esistente cosa piaceva al pubblico, che a sua volta poteva efficacemente dire al pubblico cosa doveva piacergli.

Una manna per gli aspiranti gruppi di pressione emergenti: chiunque può oggi mettere in circolo una balla qualsiasi, con un investimento minimo guadagnarsi qualche migliaia (o milione) di visualizzazioni, per poi farsi cooptare il contenuto da un esponente di potere (mediatico o istituzionale) che a sua volta lo renderà narrazione ufficiale, senza tener conto che magari si trattava di una panzana colossale.

La solfa è sempre la stessa: questo racconto è corretto e fondato perché soddisfa il tuo bias di conferma (invece di promesse io ti offro certezze, cioè quelle che già possiedi ), unica regola per poter rimanere nel nostro circolo di illuminati è contrastare con ogni mezzo a tua disposizione qualunque parere differente (invece di regole a cui sottostare io ti offro un popolare ruolo di araldo della verità, ti faccio direttamente prelato), in caso di dubbi o di domande aspetta il sequel, o il prossimo post, dove troverai altre “verità e indizi” per saziare il tuo bias di conferma (invece di dogmi io ti offro un fantastico piano di fidelizzazione, una forma di dipendenza culturale).

Ora, tenuto conto che il grosso della gente smette di avere dubbi e di imparare cose nuove tra i 25 e i 30 anni, e che da quel momento trascorrerà il resto della sua vita alla forsennata ricerca delle mitiche parole “Hai ragione!” immaginiamoci gli effetti devastanti che la narrazione polimorfa può avere nei confronti di masse di persone che votano, che lavorano, che consumano e che interagiscono mutuamente fra loro.

E che, nonostante la proliferazione delle fonti scritte, s dimostrano sempre più pigri e refrattari a leggere più di due frasi subordinate.  

La Babele polimorfa di internet, in cui è possibile sentire sedicenti esperti di economia che parlano di corbellerie euro-scettiche, milioni di utenti che condividono il negazionismo anti-semita, migliaia di persone che organizzano convegni per mostrare le evidenze a sostegno della teoria della terra piatta, esponenti politici convinti che ai vertici bancari vi siano i Rettiliani.

Tutte narrazioni che fanno leva sul bisogno innato dell’essere umano di credere in qualcosa; tutte narrazioni che, per la loro essenza di latrici di “verità fideistiche” sono intrinsecamente divisive.

Una volta ero convinto che il laicismo avesse un valore intrinseco.

Ritenevo che l’emancipazione dalle credenze religiose nell’ambito delle decisioni, soprattutto quelle che hanno impatto fuori dalla propria sfera individuale, fosse un presupposto necessario per qualunque forma di progresso.

Evidentemente mi sbagliavo.

Perché il laicismo collettivo che auspicavo presupponeva a sua volta una generale presa di coscienza, una cultura, una preparazione e un criticismo che la maggior parte delle persone semplicemente non ha.

In assenza di questi pre-requisiti, il tramonto della religione (un tempo oppio dei popoli) ha solo generato un vuoto enorme nelle menti delle masse.

L’alluvione di informazioni che ci travolge da oltre 50 anni ha poi riempito nelle menti di massa quel vuoto lasciato dalla scomparsa della religione, che è stata via via sostituita dell’ideologia politica, dall’ortodossia lealista-istituzionale, dal complottismo, dalle bagatelle mediatiche.

Per ritrovarci oggi a vivere in un mondo composto da masse di estremisti assortiti, con a disposizione un catalogo sconfinato di argomenti (più o meno futili) su cui prendere bellicosamente posizioni antitetiche. Alla faccia della maieutica Socratica o della certezza dialettica Hegeliana.

Per farvi capire quanto sia forte il potere della narrazione, provate oggi a ribadire in pubblico un fatto reale, supportato da dati concreti come questo: l’Italia e la Spagna sono i Paesi Europei con il minor numero di “femminicidi”, sia in valore assoluto che come percentuale della popolazione.

In Italia la media dei “femminicidi” si attesta in un intorno dei 40 casi annui, peraltro con tendenza in calo (fonte Report 2019 dei Carabinieri sulla violenza di genere, https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/violenza-su-donne-Report-Carabinieri-uccisioni-in-calo-nel-2019-69f4ed1a-41c9-418e-9270-a7cdffdf1702.html) e, da un confronto effettuato, il nostro paese risulta detenere un primato, una volta tanto positivo, per minor numero di caso rispetto al resto della UE (https://www.agi.it/fact-checking/femminicidi_dati_italia-6157007/news/2019-09-10/).

Eppure, se ci si azzarda a profferire una simile affermazione, ci si espone al linciaggio pubblico.

Questo avviene perché, in oltre un decennio, sono tantissime le aziende operanti nel cosiddetto terzo settore che hanno trovato ampi spazi di crescita e remunerazione proprio veicolando una narrazione che prevede di classificare il fenomeno come strage. 

Queste aziende, negli ultimi 15 anni, sono cresciute creando posti di lavoro, effettuando investimenti e generando un volume di affari notevole (basti pensare che nel mio comune, di poco più di 100.000 abitanti, l’Accordo Quadro triennale stipulato nel 2016 con una di queste ONLUS prevedeva una remunerazione di circa € 100.000 annui a fronte del servizio d counseling psicologico e del gazebo Codice Rosa da installare presso l’Ospedale), un tale giro economico ha bisogno di essere continuamente alimentato pena la sua palese insostenibilità, attraverso la pressione politica e la veicolazione della narrazione stragista.

Basti pensare che un fenomeno statisticamente ben più rilevante, quello delle morti sul lavoro che si aggirano nell’ordine delle 1.000 unità annue, non gode di alcuna popolarità nell’immaginario collettivo poiché narrativamente poco veicolato, in quanto la sua narrazione non è cooptata da nessun azionariato di riferimento operante sul mercato, essendo la problematica appannaggio dei sindacati (che non operano in regime di libero mercato e che comunque non sarebbero capaci di agire di conseguenza) ed è chiaramente in conflitto con interessi economici dal maggior peso specifico che sono tranquillamente in grado di tacitare, o di far ignorare ai media mainstream, la narrazione stragista.

Il potere democraticamente eletto non può prescindere dagli effetti di massa della caotica narrazione polimorfa, ciò vuol dire che quella tecnica nata proprio per legiferare e consolidare la gerarchia di potere (la narrazione) nella sua attuale forma polimorfa è in grado di modellare l’indirizzo del potere poiché, essendo più rapida della narrazione mainstream, riesce a scovare nuove nicchie di malcontento laddove nessuno dei narratori mainstream aveva pensato di guardare.

Così accade che le deliranti cazzate scritte a ruota libera contro il signoraggio bancario diventino elementi di campagna elettorale, gli sfoghi complottisti per spiegarsi come mai non si è diventati ricchi come promesso dalla pubblicità diventano agenda di partito (o di “movimento” che suona meno elitario), inneggi al duce che “ha fatto tante cose buone e faceva andare i treni puntuali” (i treni all’epoca erano semplicemente molti di meno), fino ad arrivare ai pareri pseudo-scientifici dei no-vax che spesso non riescono neanche a mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio.

La narrazione religiosa offriva una vita prospera nell’aldilà, la narrazione ideologica offriva una vita sicura nell’aldiqua, la narrazione polimorfa offre un po’ di popolarità e uno sfogo immediato dei propri rigurgiti oggi stesso.

L’uomo, nel suo intrinseco bisogno di credere in qualcosa, ha drasticamente ridimensionato le sue aspettative, passando dalla beatitudine eterna ad un pugno di like.

La narrazione mainstream degli Stati Uniti, per cercare di accaparrarsi nicchie di consenso, ha via via rimodulato la sua reazione agli attentati dell’11 Settembre, passando dal proclama di vendetta “Non dimenticheremo” alla più hollywoodiana “Guerra al terrore”, per poi trasformarla (quando i consensi repubblicani hanno cominciato a scemare) nella ben più nobile e sofisticata “Esportazione di democrazia”. Facendole fare poi un rassicurante salto tecnologico col cambio di presidenza, in cui Obama, eroe del popolo, non volendo mollare il medio-Oriente (evidentemente la Clinton e Kerry hanno ancora molti affari in sospeso da quelle parti, tra smercio di uranio impoverito ed emancipazione dell’Iran dai combustibili fossili in chiave nucleare) iniziò ad utilizzare intensivamente i droni nella regione: per il pubblico si trattava di un videogioco in fondo, in cui nessun militare americano rischiava la pelle. Infine con Trump, che oggi sembra un seppur esecrabile esempio di coerenza, ci si decide ad iniziare il tanto atteso disimpegno militare NATO dell’Afghanistan, da attuarsi secondo una road-map che prevedeva il raggiungimento di precisi obiettivi di stabilità (politica ma soprattutto militare) da parte del paese prima di ritenerlo sufficientemente e democraticamente autonomo.

Tuttavia, nei 20 anni di narrazioni presidenziali, la narrazione polimorfa, con il suo portato di manichee divisioni e di violente polarizzazioni antitetiche, ha colpito ben più profondamente delle conferenze stampa dalla Casa Bianca.

Lo slogan politico statunitense post 11 settembre è passato dall’essere un atto che “Non dimenticheremo mai” ad una situazione in cui semplicemente “qualcuno aveva fatto qualcosa” (Ilhan Omar, membro Democratico della Congresso USA, 23 marzo 2019).

L’esportazione della democrazia, la guerra al terrore, il primato dei valori moderni liberali, l’ascensore sociale a trazione capitalista, la conciliazione di libertà e sicurezza, tutto cancellato, rimangiato, abiurato pur di rosicchiare nuove nicchie di consenso, pescando dal mare del malcontento polimorfo in vista delle presidenziali 2020.

Infine, pur di cancellare al più presto gli effetti delle scelte presidenziali precedenti (tra cui c’erano anche quelle di Obama), il neo-eletto presidente Joe Biden offre lo spettacolo di un’America cento volte più inesistente sul piano internazionale di quella di Trump : disimpegna le truppe di stanza in Afghanistan con una ritirata rapida e raffazzonata, nessuna road-map, nessuna milestone, nessun obiettivo di stabilità. Fuori, via, tutti, subito, tranquilli lasciate dietro basi, armamenti, tanto i nostri fratelli afghani sono ormai al sicuro, ci lasciamo dietro uno stato laico, stabile e democraticamente determinato.

Ai talebani, che nel frattempo se ne stavano rintanati nelle loro caverne e di sicuro avevano parecchie entrature nel governo democraticamente eletto di Ashraf Ghani, sono bastati quattro giorni per riprendersi quello che la missione NATO aveva faticosamente e dolorosamente costruito in 20 anni.

A suggellare il tutto, i discorsi di Biden all’indomani della conquista talebana di Kabul sembrava un’imitazione anacronistica dei discorsi di George W. Bush, la narrazione ufficiale ha cortocircuitato dopo aver tentato di inseguire la narrazione polimorfica per 20 anni, ritrovandosi ad usare le stesse parole e le stesse “giustificazioni” di quando era cominciata l’occupazione NATO e da cui i Democratici avevano promesso di prendere le distanze. O più probabilmente, il discorso gli è stato scritto da un social media manager che, come la maggior parte delle persone, non ha memoria storica. 

Di sicuro la democrazia non si esporta, di sicuro non si crea un aspirante ingegnere se si regala un Lego Technics ad un bambino di 3 anni che sa solo scavare la sabbia con pala e secchiello.

È simbolico che di fronte al più preoccupante evento internazionale di quest’anno, dalle nostre parti la Babele pubblica discuta animatamente di altrettanti, ben più futili, estremismi.

Tipo gli estremisti no-vax che danno addosso agli ortodossi del vaccino (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti non si sanno mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio).

I crociati della libertà che danno addosso ai lealisti del Green Pass (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno ha mai letto Tocqueville, Locke e neppure il nostrano Einaudi).

Gli antifascisti che danno addosso ai fascisti (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno saprebbe individuare neppure le date o i presupposti storici dei fenomeni).

Oppure le femministe integraliste che danno addosso agli storicisti patriarcali (qui invece nessun viceversa, pena il linciaggio pubblico, o secondo alcuni la carcerazione preventiva).

Il laicismo da solo non basta a garantire il progresso, ci vuole molto altro, ci vogliono anni di curiosità e preparazione.

La maggior parte di noi evidentemente ha ancora solo bisogno di credere strenuamente in una puerile favola che li veda sempre rigorosamente nella parte del buono (noi) in lotta contro il cattivo (loro).

Una volta per schierarsi dalla parte dei “buoni” bastava un sacramento, o una conversione o un diritto di nascita.

Oggi, per schierarsi fieramente dalla parte dei “buoni” e imbracciare le armi contro i “cattivi”, basta leggere qualche post su internet.

In un simile contesto, è facile capire perché gruppi estremisti religiosi abbiano ancora così tanta presa in molte aree del pianeta, perché i loro valori integralisti sono, in realtà, ancora in larga parte condivisi dalla popolazione in virtù di secoli di stratificazione “culturale” a senso unico. Il loro oscurantismo è tetragono, solido, si fonda sull’ignoranza e sulla fame di credenze, non accetta compromessi e grazie all’analfabetismo diffuso è graniticamente autoreferenziale.

D’altro canto, è altrettanto facile capire che il combinato disposto di pluralismo indiscriminato unito alla becera democratizzazione della narrazione, in assenza di meccanismi individuali di salvaguardia intellettuale, ci rende estremamente vulnerabili e a perenne rischio di radicalizzazione su qualunque questione, anche le più puerili.

A noi occidentali sono state regalate le barchette con cui navigare il mare della narrazione polimorfa ma, purtroppo, la maggior parte naufraga perché le bussole per orientarsi nella navigazione restano a pagamento, costano impegno e preparazione.

I talebani trovano più efficace negare direttamente che il mare esista, che l’unico orizzonte culturale possibile sia quello, ben più circoscritto e controllabile, di una caverna afghana.


Andrea Avolio è un millennial DOC. Nato nel 1981, è cresciuto negli anni ’90 illudendosi che il futuro apparteneva alla sua generazione e che tutti si sarebbero arricchiti (compreso lui). Si è laureato nel 2006 in Ingegneria Elettronica e ha iniziato a lavorare in contemporanea con la peggiore crisi economica degli ultimi 80 anni. Attualmente rientra a pieno titolo nelle statistiche sulla sua generazione perché, a dispetto della sua ininterrotta stabilità lavorativa, non dispone di alcuna liquidità finanziaria. La cosa non lo turba minimamente perché la sua vera aspirazione è diventare un eclettico (termine obsoleto, oggi si dice tuttologo) ed è a buon punto perché ha già raggiunto il livello di qualunquista finemente edotto. E’ un supernerd, colleziona comics, ama i blockbuster e il buon cinema, adora la musica prog (in tutte le sue declinazioni) ma nell’intimità ascolta il metal, legge libri che solitamente vendono poco, è un estimatore di vini, distillati e abiti stilosi (soprattutto scarpe e pochettes), unico sport praticato è la contemplazione a livello agonistico, è un liberale convinto, è sufficientemente curioso da riuscire ad imparare cose nuove anche dopo i 30 anni e pare addirittura che riesca a convincere parecchie persone circa le sue competenze in ambito filosofico, economico, politico ed esoterico, ritiene che il lavoro specializzato sia sopravvalutato, è aconfessionale, detesta la gente perché preferisce gli individui, parla fluentemente inglese, sa cucinare, pulire la casa e possiede la patente B. 

Come tutte queste cose possano coesistere senza aver mai subìto un TSO resta un mistero.




Angeli e Alchimia.

“Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa.

Persino da te stesso”

Copertina Alessandra Carriere
Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Angeli e Alchimia – Barbara De Maestri

Casa Editrice: Independently Published

Anno di pubblicazione: 2019


Ho avuto la fortuna di conoscere Barbara De Maestri tramite Instagram ed è stata sintonia a “prima vista”. Barbara è empatica e va oltre lo strato superficiale della quotidianità.

Da cosa sono regolamentati i nostri comportamenti e i nostri pensieri? 

Che cosa c’è dietro quello che noi crediamo essere la realtà?

“Angeli e alchimia” è un viaggio nel mondo dell’alchimia con alcuni spunti di esoterismo e fantasy.

Ancora oggi i misteri della pietra filosofale affascinano gli appassionati in materia ma chissà che non si tratti solo di qualcosa di intangibile e che quello che rappresenta non sia qualcosa di diverso.. con uno studio approfondito di noi stessi e delle leggi della natura tutti noi potremmo ottenerla?

Estelle, Marcus, Dylan, Samuel e Lucas sono compagni di classe e ognuno di essi sembra avere qualcosa di speciale. Il prof. Hopp ne sembra convinto.. quali misteri e quali progetti ha in serbo per i giovani ragazzi?

La coscienza collettiva e le sorti dell’umanità sembrerebbero a rischio a causa di un personaggio oscuro e ambiguo arrivato in città, Milano (dove inizia la storia è dov’è in parte ambientata).

In modo misterioso i cinque compagni di avventura vengono portati a Mont Saint-Michel, luogo cruciale alchemico dove gli eventi si svilupperanno a ritmo sempre più serrato e quando tutto sembra essere arrivato a conclusione, il lettore viene lasciato a bocca aperta!

La storia personale dei cinque protagonisti e i loro rapporti familiari impattano profondamente sulla qualità delle loro vite e forse per loro è arrivato il momento di fare i conti con se stessi. 

“Angeli e Alchimia” è anche lo spunto di riflessione sull’amore eterno e sul reale rapporto delle anime delle persone: namasté!

La scrittura di Barbara è ricca di amore.

La ringrazio per il regalo che ha fatto a noi lettori con questo libro, ricco di emozioni, suspense e spunti di riflessione importanti!

Copertina Alessandra Carriere

Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




La nostra storia.

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di Luca Bottari_

Il vagone della Metro A, direzione Battistini, singhiozza e procede. Il passo insicuro nel suo incedere borbottante è costante, somiglia alla storia dei suoi passeggeri. Scriviamo le nostre storie ordinarie o magnifiche bucando le città con un vagone metro o attraversandole a piedi, con il muso sfatto per la pioggia di problemi che ci casca ogni giorno in testa e con gli occhi rivolti in preghiera verso lo stato Vaticano. Salvo strappi benevoli del destino ci ricorderanno al massimo i nostri nipoti. Dopo di loro l‘obliò, molti di noi non saranno mai esistiti e di conseguenze nemmeno estinti.

I ragazzi nei vagoni brontolano, sbuffano, si allungano in pachidermiche mosse di stretching nonostante la loro evidente smagliante forma fisica. Non provano a costruire la loro storia. Se non ritengono di essere in grado di incastrare quei mattoncini uno sopra l’altro si potrebbero spendere per vivere grazie al potere dell’immaginazione nella storia di qualche eroe da romanzo storico. Non intercetteranno mai in cloud il mio auspicio anche se sono costantemente connessi.

La comunicazione silenziosa ed efficace dei loro e dei nostri telefoni ha quasi soppresso il volo d‘immaginazione che ci regalava la pagina stampata. La nostra storia di vita a metà tragitto, a metà romanzo, era meno scontata perché si confondeva con il protagonista di vicende lontane che ci rendevano più leggeri ed allo stesso tempo più cupi. Il vero volo low cost era quello che intraprendevamo grazie ai nostri occhi che correvano pagina dopo pagina, ora umidi di malinconia e rabbia, ora impiastricciati di desiderio erotico. Il libro era il viatico per spaziare in terre lontane a costo zero, era il lenzuolo di Snoopy con cui consolarsi dopo le note severe di un professore severo, era un grumo di farina per impastare il pane della conoscenza.

Noi tutti peniamo, sudiamo, speriamo e ci inginocchiamo al cospetto della durezza della vita ma oggi le armi in pugno sono smussate in punta, perché un cellulare non sarà mai la spada nella roccia per nessuno di questi ragazzi. Non è facile incrociare lo sguardo di un giovane uomo attento solo a quel mondo in quella scatoletta paradossalmente perfetta.

Senza guardarci non ci riconosceremo più.


Luca Bottari.

Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.




Se lo conosci, non uccide!

Giulia Gellini_ Grido_ 70 x 50 cm _Tecnica mista.

di Christian Lezzi_

Che strano suono, per nulla rilassante, veicola con sé la parola “parossismo”. Anche se non la conosci, se non sai cosa realmente significhi, la percepisci a pelle come qualcosa di pericoloso, di ostico e spinoso, da cui tenersi alla larga, da evitare, che può farti del male.

E, in effetti, nell’eccesso, non v’è mai qualcosa di buono. Perché di eccesso si tratta, di criticità esplosiva, quando parliamo di parossismo in campo medico, geologico, chimico o comportamentale.

Etimologicamente significa irritazione estrema, esasperazione, fase acuta, sopraggiunto acme di uno stato morboso, accompagnato dall’inevitabile esacerbarsi dei sintomi e delle conseguenze da essi veicolate. Da qui alla medicina, il passo è breve, verticale nella sua immediatezza. In campo geologico, in modo altrettanto esplicativo, è legato ai terremoti o alle esplosioni violente di lava, lapilli, ceneri e detriti, che caratterizzano la fase più potente e distruttiva di molte eruzioni vulcaniche. 

Allo stesso modo, anche in chimica, indica la fase più rischiosa e instabile, potenzialmente esplosiva (appunto) di una reazione.

Notiamo quindi che, la costante linguistica, è sempre quella deleteria dell’instabilità e dell’inasprimento, che porta all’estremo delle cose, alla fragorosa esplosione, a qualcosa che, una volta rotto, non è più possibile riparare, se non in rari, rarissimi casi e a costi troppo spesso insostenibili, perché lascia segni e cicatrici, crepe e sbeccature, peggiori del danno stesso e mai più rimarginabili.

Ma, è nel campo comportamentale che, il parossismo, raggiunge vette di distruttività raramente immaginabili altrove. Molto più di un terremoto, di un’esplosione, di un’eruzione vulcanica. Molto di più, trasformando le persone in macerie, materiali di risulta umana a cui è stata strappata via, con forza, la dignità.

Immagina una lite. I protagonisti sono quelli che la tua fantasia vorrà posizionare nella scena. Moglie e marito, genitori e figli, fidanzati, colleghi, amici, poco importa. Ci interessa il meccanismo crescente dell’asprezza che caratterizza lo scontro, quella china ripida e scivolosa che porta al punto di non ritorno.

Perché giunti al parossismo e lasciatogli il comando, si spegne la ragione e da lì è difficile fare marcia indietro.

Il parossismo, in una lite, comporta un agìto di sola pancia, di puro istinto non filtrato, di emozioni deleterie caratterizzate dall’irruenza non mediata, che puntano solo a colpire, come e peggio di un pugno, solo per fare male, per far sanguinare, per zittire l’interlocutore che, giunto al ruolo di antagonista, viene reso nemico mortale dall’esplosione parossistica. 

Come lupi in un branco, pronti a uccidere per difendere il territorio e il proprio ruolo di soggetti dominanti.

È in quel momento che, accecato dalla presunzione di ragione assoluta, allucinato dal bisogno egoistico di annichilire l’altro, intossicato dalle reazioni neurochimiche in corso, inizi a vomitargli addosso parole che, in condizioni normali, non diresti al tuo peggior nemico, ma che il meccanismo innescato, proprio come una esplosione vulcanica, rende incontenibili, ingestibili, incensurabili.

E di male ne facciamo tanto, soprattutto alle persone che amiamo, annebbiati dallo scoppio emotivo che tutto rende indistinto, lattiginoso, vischioso come il peggiore degli incubi, spaventoso come le nostre paure, irrazionale come la follia per la sopraggiunta incapacità d’intendere e ragionare, di volere bene e di rispettare.

Solo cattive informazioni e pessime prese di coscienza, quindi?

Non del tutto perché, anche nel più fetido letamaio (e la fase parossistica di una lite è puro sterco incapace di concimare) può nascere un fiore, una speranza, un momento di riscossa razionale che freni la lingua e c’imponga il ragionamento. La fase parossistica di una discussione, si può riconoscere fin dai suoi primi passi d’avvicinamento, nel momento esatto in cui sta per stravolgerci e renderci diversi da noi stessi, alieni a noi stessi, non più padroni delle nostre emozioni, irrispettosi della sensibilità dell’altro, desiderosi solo di annientarlo, assetati del suo sangue, affamati della sua dignità, da fare a pezzi e stracciare con la bava alla bocca, come un cane che ringhia e t’insegue, di notte, per farti a brandelli.

Inizia tutto dal respiro, che tende a farsi convulso, ansiogeno, annaspante, pur di star dietro alle pulsazioni cardiache accelerate anch’esse, riverberanti in gola, martellanti nella testa, che ci arrossano il viso, facendoci formicolare le mani, aumentando il volume della nostra voce e spegnendo, deleterio contraltare, la capacità di ascoltare, di comprendere, di analizzare le altrui ragioni, i suoi punti di vista, la contestualità delle sue istanze. 

Il suo perché!

Questa fase si può riconoscere e stoppare, imparando a conoscere noi stessi, proprio mentre si palesa, tirando un respiro profondo, restando zitti per un momento, facendo un plateale passo indietro e magari un gesto con le mani, come a temporeggiare e a prendere le distanze, non dall’altro ma dalla situazione. Perché, in questi casi, anche la teatralità è un’arma vincente, andando a contrastare l’altrettanto plateale esplosione d’ira, il fuoco incrociato in cui non ci sono amici ma solo nemici mortali.

Il parossismo è insito in tutti noi, è una tara comportamentale che fa parte del nostro meccanismo di combattimento o fuga, ma è qualcosa che, a questo punto dell’evoluzione, non ci serve più. E riconoscerlo si può, mentre è ancora alle porte, quando ancora non ci ha stravolti, umiliati, calpestati, per contrastarlo, scacciarlo, al fine unico di riconquistare il controllo e la cognizione che noi, tutti, siamo molto migliori del nostro bisogno, violento e animale, di sopraffare gli altri, per primeggiare come fiere allo stato brado, come belve irrazionali, a ogni costo.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.