Il punto di vista della mediocrità
E infine ritornammo a… prendere il caffè al banco del bar! Non me ne voglia il Sommo Poeta, di cui ricorrono quest’anno i settecento anni dalla morte, se abuso dei suoi sublimi versi, snaturandoli e riconducendoli allo scopo, ma m’era d’uopo per l’introduzione di un concetto, che dal caffè muove i suoi passi, ma che reca con sé ben altro aroma, quello fetido della mediocrità e dei punti di vista superficiali.
Il caffè, dicevamo. Quasi un rituale, una tradizione in quella tazzina, che mancava a molti, dato il particolare momento storico che stiamo vivendo e che, a seguito dei vari lockdown, più o meno rigidi, ha partecipato a rendere ancor meno gradevole la situazione “pandemica” e il suo ingombrante riflesso sull’ordinario quotidiano di tutti noi. Perché in quel caffè, non c’è solo la caffeina che dovrebbe tenerci svegli, il gusto, il profumo, ma un universo mondo di socializzazione, interazione, umana convivenza, scambi e battute, momenti di vicinanza occasionale anche tra chi, normalmente, vicino non è.
E chiacchiere, quelle da bar, che con la superficialità più spensierata, trattano argomenti di vitale importanza, talmente pesanti e profondi che nemmeno un simposio basterebbe a esaurire.
Nelle chiacchiere da bar, che intervallano Mancini a Draghi (magari anche confondendone i ruoli), ci trovi di quelle perle di geopolitica e di economia internazionale che ti sogneresti altrove. Lectio Magistralis su ogni ambito, anche il più complesso e ostico dello scibile umano. E complottismo, tanto complottismo, che quello, insieme alla controinformazione e al caffè, al bar non manca mai.
Non che fosse inedita, essendo giunta già altre volte al mio incolpevole orecchio, ma la perla di questa mattina riveste, di fatto, una particolare e rilevante importanza, lapidaria come solo la più becera superficialità sa essere, atta solo a infiammare gli animi, a farci sentire artificiosamente uniti perché attaccati dall’alto, vittime di un complotto sistemico, dei poteri forti, di qualche più o meno credibile para-governo transnazionale, contro il quale fare quadrato, sentirci popolo, magari cantando dal balcone. E quale migliore occasione per unirsi, se non quella di avere un nemico comune, sia esso rappresentato dai migranti e dai profughi, o da un virus di cui ben poco si sa, ma ben troppo si dice.
Diceva questa mattina, ai suoi attenti ascoltatori, il solito beninformato avventore – quello che ne sa sempre una più del diavolo e di Gesù Cristo messi insieme, che le notizie le apprende prima degli altri, perché sua zia è la cugina del parrucchiere dell’amica del cuore della Meloni – che Loro (nei complotti i cattivi si chiamano sempre “Loro”, evidente retaggio di una sindrome paranoica più o meno latente), ci vogliono ignoranti e disoccupati, per poterci controllare meglio.
Probabilmente, mentre l’uomo asseriva cotanta bestialità, nel mondo, un pensatore esalava l’ultimo mortale sospiro, fulminato da qualche raro e inspiegabile colpo apoplettico.
Perché, tutto sommato, può anche essere lecito, dato il contesto ludico e goliardico, ergersi ad allenatori di qualsivoglia sport (io avrei fatto così) o a Premier politici (io avrei fatto cosà), commentando male quelle notizie che si sono comprese ancora peggio. O a cedere alla velleità di sostituirsi ai giudici, senza nemmeno aver studiato gli elementi processuali e le motivazioni della sentenza. Così, per sentito dire, provando a interpretare un titolo o poco più, magari buttando distrattamente un occhio ai post di facebook. Ma il ragionamento, signore e signori, il ragionamento, quello è altro dall’informazione dozzinale e non può permettersi il lusso di essere altrettanto. E’ un percorso interiore che porta all’elaborazione del mondo circostante, per arrivare a edificare quella che, almeno in apparenza, è la propria personale e soggettiva idea. E il proprio assetto mentale, non può essere così poco importante da relegarne la cura alla fretta, alla superficialità e alle chiacchiere da bar.
Loro ci vogliono ignoranti e disoccupati, perché così siamo più controllabili.
Analizziamola insieme, questa “perla” di saggezza, partorita tra un bianco e un amaro:
Loro ci vogliono ignoranti…
Ammetto che questa parte rechi con sé una quota di verità, essendo incontrovertibile che, un popolo ignorante, sia più controllabile. Ma è l’angolazione con cui si guarda la questione, a essere sbagliata. E’ fondamentale in primis operare un distinguo tra ignoranza e incapacità di pensare e, in secondo luogo, prender atto e coscienza che, l’ignoranza di oggi, non è quella di cent’anni fa. Oggi, complice un sistema scolastico raso al suolo e destrutturato ai minimi storici, mera ombra di se stesso, siamo ignoranti e incapaci di un pensiero complesso, ma con un diploma o con una laurea appesi al muro e con tanta speranza da custodire nel cuore, talmente tanta che nemmeno nei Promessi Sposi. Perché sono quei titoli di studio, incapaci ormai di fare la differenza sul mercato, a riempirci la pancia e a renderci più tranquilli, più docili, più sereni, con la coscienza a posto (sono disoccupato, ma ho studiato, che altro potevo fare?) e con l’illusione di poter disporre liberamente del pensiero indipendente.
E ci si adagia in questa convinzione, in questa deleteria speranza che tutto uccide (perché tutto muore, a furia d’aspettare) avvolti dalla copertina di Linus che ci vuole precari a tempo indeterminato, indottrinati improduttivi a carico di genitori che, sempre più anziani, sono i reperti fossili di un’opulenza che fu e di una stagnazione secolare che occlude l’orizzonte futuro, ammantati da un’illusoria speranza sempre più nebulosa, una certezza sempre più lontana che intanto ci mette tranquilli, c’induce all’attesa, ci fa aspettare, lasciandoci seduti, zitti e buoni, che tanto, presto o tardi, il nostro momento verrà.
E addio rivoluzione, come avrebbe sentenziato il buon Peppone!
Questa ignoranza specifica (non quella assoluta di cent’anni fa, che almeno ci lasciava l’arguzia) è dovuta alla barbarica semplificazione del linguaggio, operazione nefasta che, a sua volta, banalizza il pensiero, tarpandone le ali e castrandone l’estensione. Stiamo allontanando la Filosofia dalla scuola (nei licei s’insegna solo la sua storia e se ne insegna sempre meno), stiamo rendendo più veloce, superficiale e meno profondo il pensiero, la capacità di creare connessioni
Che poi, a furia di semplificare, si sfocia nel banale e nell’inconcludente.
Ma non dobbiamo cedere all’errore di pensare che le parole servano solo ad esprimere il pensiero. La questione è ancora più profonda e ribalta il punto di vista: noi pensiamo limitatamente alle parole che possediamo, quindi, come c’insegna il Pof. Umberto Galimberti, le parole sono la forma, non il vettore, del pensiero, l’elemento collante strutturale, la materia che conferisce concretezza all’astratto. E una scuola che riduce la filosofia al mero insegnamento della sua storia, che riduce tutto al più inutile nozionismo mnemonico, di certo non aiuta. Non possiamo pensare a qualcosa, in termini completi e trasmissibili a terzi, senza averne in mente la definizione linguistica. Il filosofo Martin Heidegger ha scritto che “dove la parola manca, manca il pensiero” e ci basti pensare alla differenza culturale tra Greci e Latini, a ciò che hanno rispettivamente realizzato ai loro tempi e al relativo lascito a beneficio dell’umanità, per avere il polso della questione.
Non a caso, i primi, avevano 80.000 vocaboli, contro gli appena 4.000 dei secondi. E tutto il resto è storia.
Ma se, almeno in parte, dobbiamo riconoscere un minimo senso logico, alla prima parte della frase, seppur la questione fosse analizzata dal punto di vista sbagliato, presi in esame tutti i distinguo appena espressi e argomentati, la seconda parte è paradossale:
… e disoccupati!
Ed è qui che casca definitivamente l’asino (con tutto il rispetto per l’intelligente ma bistrattata bestiola) perché l’errore è così evidente, talmente lampante che avrebbe stupito persino il signore di La Palisse. Un errore che disconosce le ragioni storiche di molte sommosse popolari, in cui masse intere si sono sollevate contro la tirannide per fame, per la mancanza di denaro e di aspettative lavorative, per la disperazione di non poter sfamare i propri figli, di non riuscire a vestirli o a curarli, proprio a causa della povertà che è figlia, erede naturale, della disoccupazione. Una situazione in cui la speranza implode (e per fortuna) lasciando montare la rabbia della rivolta, perché la speranza è l’ultima a morire, ma prima o poi muore!
Proprio all’opposto di chi, sazio e titolato, smette di fare e se ne sta comodo a sperare e ad aspettare un domani migliore. E addio rivoluzione (Bis)!
Diventa quindi evidente come sia proprio il contrario di quanto asserito dall’illuminato avventore del bar, a indurre il controllo sulle masse, sulla folla, sul popolo sovrano, che la sovranità ormai non ricorda nemmeno più cosa sia e come sia fatta, perché non ha le parole sufficienti a poterla descrivere.
Un popolo con la pancia piena, quello sì che è controllabile, proprio come una fiera nella gabbia del domatore di circense memoria, sedata e sazia, perché non sia aggressiva e intrattenga il pubblico con movenze da gattone dall’apparenza feroce. Una laurea vuota che ti lascia dentro ben poco, se non la speranza (sempre lei) un lavoro di basso livello, al quale corrisponde un titolo d’impatto sul biglietto da visita (siamo ormai tutti dottori e manager di qualcosa) e un magro stipendio in busta paga, a fine mese, che ci faccia sopravvivere ma non vivere davvero, permettendoci di pagare il mutuo quarantennale, le rate della macchina, quelle della Super Mega Smart TV o dello smartphone all’ultimo raglio della moda – e perché no? – anche quelle per le ultime vacanze. Che tanto, ormai, si sopravvive a rate!
E’ saziandolo, che si controlla il popolo, non affamandolo ed esasperandolo. Un cane sazio non morde, al contrario di quello che, per effetto della fame o della paura, diventa aggressivo. Allo stesso modo, una persona con una parvenza di vita normale da tener lungi dal rischio, non scende in piazza e non muove rivoluzione. Perché, in fin dei conti, l’essere umano ha una sola immensa paura, più spaventosa di tutte le altre, anche di quella di morire o di parlare in pubblico. Ed è quella di perdere lo status quo, ciò che si rappresenta e ciò che si ha, il bilocale in periferia che finirai di pagare quando sarai in pensione (se ci arrivi alla pensione), una macchinetta mediocre che già cade a pezzi e una vacanza che, in condizioni normali, a malapena avresti considerato una gitarella.
Evviva la mediocrità che tutto appiattisce e ogni cosa scolora.
E’ così che si controlla un popolo, sedotto e sedato da un titolo di studio, talmente ridotto ai minimi termini da essere alla portata di tutti e da un lavoro, dalla speranza a entrambi correlata, insieme al minimo indispensabile (che siano quei quattro soldi lavorati o elargiti a vario titolo dallo Stato) per sopravvivere e trascinare una vita che – erroneamente – consideriamo dignitosa.
Dovesse mai scoppiare una rivoluzione, con tanto di tumulti e disordini e ribaltamento dei poteri, magari qualcuno ce lo porta pure via lo status quo, insieme a quel televisore da 80 pollici. E dove le guardiamo le partite di calcio che non ci fanno pensare ai problemi? E le 4 edizioni del telegiornale con cui ci riempiamo la testa ogni giorno? E i Talk Show che c’inculcano il pensiero unico o le serie Netflix fagocitate a turni di dodici episodi per volta che, di ogni rimanenza di pensiero critico, fanno sistematica tabula rasa?
Immaginiamo di spegnerla, o di non averla più, quella TV, di riaccendere la mente e di rimanere soli con i nostri pensieri, come auspicava Schopenhauer. Proviamo a riprenderci la capacità di pensare e di agire, per essere meno controllabili e ancor meno attendisti in preda alla speranza, riprendendoci noi stessi e fuggendo dagli stereotipi che tanto cattivo gioco fanno alla nostra intelligenza.
Si, ma poi, di cosa parliamo al bar?