La nobiltà del compromesso.
Chi ama i treni, usa definire il percorso di vita come un metaforico binario, una strada ferrata caratterizzata da rettilinei, curve, salite, discese… e scambi, soprattutto. Quegli scambi da intendere come il momento in cui si opera una scelta e che ci tiene incollati al ragionamento, all’esito statisticamente probabile, alla memoria e all’esperienza. Ma anche alla pancia, all’istinto, al lampo e all’intuizione.
L’essenza del concetto non cambia se, al posto di binari, volessimo parlare di nodi, paragonando la vita a una fluente chioma scompigliata dal vento, da esso sbattuta, avviluppata, agitata come fosse viva, annodata. Nodi da sciogliere, da dipanare per venirne a capo, comprendere il verso, il senso, la direzione delle cose. Perché la questione non riguarda solo i capelli del famoso adagio. Anche la vita stessa si aggroviglia in infiniti nodi (metaforicamente parlando, in questo caso) che, presto o tardi, al pettine della resa dei conti, ci arrivano.
E possono far male, proprio come una tirata di capelli.
Ma qual è il nesso tra i nodi, gli scambi ferroviari, il buonsenso e il compromesso?
I transalpini lo definiscono bonsens, ma la piccola differenza linguistica non cambia la sostanza. Parlo dell’essenza del concetto che definisce, anche con l’accento francese e con le parole del dizionario Treccani, la capacità naturale e istintiva di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche. Quella capacità, quindi, di disperdere le nebbie e dissipare i dubbi, di analizzare, distillando il senso delle cose, per comprendere il da farsi, senza azzardi eccessivi o troppa ristagnante speculazione. E’ il buonsenso che suggerisce di raggiungere la corretta preparazione, prima di affrontare qualsivoglia sfida, sia essa di natura sportiva o d’affari. E perché no? anche d’amore. E’ sempre lui, il buonsenso, a dirci che è fondamentale imparare a giocare a calcio, prima di scendere in campo per una partita ufficiale, passando ore a preparare il fisico e la strategia, l’interazione con la palla e coi compagni, con il pubblico e con l’arbitro.
Non è una cosa che s’improvvisa e, quello calcistico, è solo un esempio al quale potremmo affiancarne a centinaia. Per fortuna del lettore, proprio il buonsenso mi suggerisce di arrivare al dunque, senza ulteriori preamboli.
E il dunque si palesa, muta forma e scenario, vira la rotta bruscamente, allontanandosi dai manti erbosi per giungere, quasi planando sulle ali del filo logico, sul terreno d’altro gioco, ben più scivoloso e complesso, ch’è quello della creazione di un’impresa. Perché proprio come non si veste la maglia di una squadra di serie A, scendendo in campo da titolare, privi della preparazione adeguata, senza l’allenamento sufficiente a sostenere il ritmo e a fare bene, allo stesso identico modo non si vestono i panni dell’imprenditore, senza prima essersi preparati, facendo proprio quell’ecosistema di competenze e di assetto mentale, che costituiscono il bagaglio minimo e indispensabile a legittimare l’azione.
E’ come quando vai per mare. O per cielo. Mai metteresti in acqua una barca se, il bacino che la ospiterà, non ti fornisse una quantità d’acqua minima e sufficiente a tenerla a galla e mai salteresti da un aereo senza saper usare un paracadute, ignorando la gestione delle correnti e i principi aerodinamici di base. Allo stesso modo, non si crea un’azienda senza le condizioni minime per poter partire, muovendosi casualmente, come uno sprovveduto automobilista che si avventura lungo un percorso che non conosce, con la macchina in riserva e qualche spia rossa accesa, a caso, sul quadro strumenti. O senza la ruota di scorta, giusto per rincarar la dose.
Perché l’imprenditoria, come lo sport professionistico, come qualsiasi altra attività dello scibile umano, non s’improvvisa. Non s’improvvisano i trofei, le coppe, le medaglie, come non si improvvisa un fatturato in crescita, uno sviluppo internazionale, la leadership di mercato o la exit di successo. Ci sono delle condizioni minime da rispettare, in entrambi i casi, che s’insegua una palla o l’ingresso in borsa.
Ciò non significa attendere passivamente la perfezione, arrovellandosi in annosi calcoli, ma inseguire e creare attivamente quelle condizioni di partenza, per far sì che la nostra creatura abbia di che navigare, una rotta lungo la quale andare, qualcuno che la sappia pilotare e il carburante, almeno sufficiente a raggiungere la prossima tappa, il prossimo step, non necessariamente la meta.
Senza suicide improvvisazioni, perché il fallimento, nel mondo reale, costa denaro, risorse, sudore e sangue, vita e vite.
Il momento giusto per partire non è adesso, non necessariamente e non per forza, come spesso leggiamo o sentiamo dire, molto superficialmente. Non ci si sveglia al mattino per andare in giro, senza sapere dove andare e come andarci, per lo meno se si vuole dare un senso alla giornata. Il momento giusto, quale che sia l’attività da svolgere, è sempre e solo quello in cui possiamo disporre degli elementi minimi, necessari a permetterne la nascita, almeno quella. Non quelli massimi, non la perfezione (mi ripeto volentieri), ma quelli minimi, appena sufficienti a prendere l’onda, senza farsi troppo male. A restare a galla o ad atterrare senza schianto.
Che per improvvisare, si deve essere dei fuoriclasse con due Spalle così! Con o senza S.
E invece, spesse volte, passiamo le giornate a documentarci, a studiare, a snocciolare le caratteristiche di cose futili, secondarie, non necessarie o ancor meno imminenti, del prossimo cellulare o dell’abbonamento alla Pay-per-view, ad esempio, perché non vorremmo mai comprare un oggetto non aderente alle nostre necessità. No, certe cose non si affidano all’imprudenza, dice il buonsenso, ma ci permettiamo il lusso di arrangiare una ragion d’essere professionale. Ancora troppi formatori, per superficialità e semplicismo, ci inculcano il pericoloso concetto secondo il quale, per fare qualcosa, ci si deve buttare, si deve improvvisare e imparare, strada facendo, dai propri errori, cosa che difficilmente possiamo permetterci, per via del timing tiranno (il tempo d’incubazione necessario a rendere profittevole un business) e delle risorse risicate – due motivi che portano spesso al crollo senza appello – confondendo sadicamente l’improvvisazione con l’approssimazione e con la (presunta) arte dell’arrangiarsi.
Ci dovrà pur essere una giusta via di mezzo, tra l’immobilità del perfezionista e l’incoscienza kamikaze dell’improvvisatore all’arrembaggio (che spesso alimenta le statistiche delle imprese cadute nei primi anni di vita), tra l’eterno attendista calcolatore e quello che chiude gli occhi e salta, senza nemmeno aver calcolato il punto d’atterraggio, azzardando il lancio del cuore oltre l’ostacolo, senza sapere cosa ci sia di là dello stesso (parafrasando i versi di Lauren St. John).
Ed è qui che entra in gioco il bistrattato compromesso, vilipeso anche quando, come in questo caso è ammantato di nobile utilità, perché posto al servizio del successo di tutti noi.
E’ il compromesso che ci permette di stabilire delle priorità, il livello logico e la fase in cui ci troviamo, se quella delle strategie o quella della loro discesa in campo. Ed è sempre il compromesso a farci mediare tra ragione ed emozione, tra mente e corpo, come abilmente spiegato dal neurologo portoghese Antonio Damasio che, nel suo eccellente libro intitolato “L’errore di Cartesio”, dimostra come le emozioni siano, in realtà, dimensioni cognitive.
Credo nelle idee che diventano azioni, ha scritto il poeta americano Ezra Pound e un’idea di base ci deve necessariamente essere (idea intesa come progetto articolato e cogitato), proprio come in un’azione si deve necessariamente sfociare, perché l’idea senza azione è sterile filosofia, mentre l’azione senza idea è pericoloso masochismo. Per dare un corpo alla mente e una mente al corpo, un’azione all’idea e viceversa.
Perché noi umani, in fin dei conti e in barba al vetusto concetto del “cogito ergo sum” (Cartesio, sempre lui), non siamo esseri pensanti che si emozionano, ma esseri emotivi che pensano.
Esiste senz’altro questa via di mezzo ed è proprio la fusione tra compromesso e buonsenso, in una sorta di nuovo sistema, capace di mediare le parti, le istanze, le aspettative e i bisogni, di sciogliere i nodi intesi come dubbi e perplessità, che ci aiuta a capire come osare un rischio almeno in parte calcolato, prevedendo la via di fuga e il piano B.
Un sistema utile a non finire come la mosca contro il vetro, per non relegarci al ruolo di aspiranti startupper perpetuamente inconcludenti, per non ricominciar sempre da zero, arrancando faticosamente fino al prossimo progetto, fino alla prossima battuta d’arresto, al prossimo tracollo e all’ennesima delusione.