Il suono intrappolato

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Al centro: Infiltration Homogen für Konzertflügel, Joseph Beuys, 1966. Paris, Centre Pompidou.

(di Cristiana Caserta)

Joseph Beuys amava il feltro, fin da quando, pilota nella Seconda guerra mondiale, abbattuto dal nemico e precipitato col suo aereo in Crimea, sperimenta il freddo e rischia di morire assiderato: lo salva un gruppo di nomadi tartari, curandolo con antiche pratiche mediche. Di feltro era il suo cappello, iconico, che ne sottolineava lo sguardo fermo.

Ricoperta di feltro è anche una delle sue opere più famose: Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda (1966), a Parigi, Centre Georges Pompidou.

L’installazione consiste in un pianoforte interamente avvolto nel feltro grigio. Il suo interesse risiede non soltanto nella rete di concetti che ha presieduto alla sua ideazione e realizzazione, ma al dialogo che è capace di intessere con altre immagini. L’immagine del pianoforte ‘incappottato’ – così apparentemente eccentrica – è capace di attrarre altre immagini, e aggregarle. Come in una Tavola del Bilderatlas di Aby Warburg, il geniale storico dell’arte tedesco che aveva ideato un Atlante di immagini, organizzate in Tavole – su ciascuna tavola un montaggio fotografico di riproduzioni di opere diverse, ritagli di giornale, etichette e altro – intorno a motivi, temi iconografici.

Di che parla infatti Infiltrazione omogenea? Del suono. E del silenzio. Il pianoforte è, come altre ‘opere’ di Beuys, un oggetto che racconta la sua storia. Questa storia è fatta di suono e di silenzio: di suono, perché il pianoforte può produrlo: anzi, è costruito per produrre un suono; di silenzio, o di ‘suono in potenza’, che è ciò che accade quando lo strumento non è usato, quando nessuno esercita su di esso un’attività creativa. Ma l’installazione dice più di questo: il suono del piano è intrappolato dentro un panno di feltro.

Se un pianoforte ha sempre un suono potenziale, “in questo caso – dice Beuys – invece non è possibile nessun suono e il pianoforte è condannato al silenzio. (…) Infiltrazione omogenea descrive il carattere e la struttura del feltro, così il piano diventa un deposito omogeneo di suono con la capacità di filtrare il suono attraverso il feltro. L’aggancio con la posizione dell’uomo è indicato dalle due croci rosse che stanno a significare emergenza, il pericolo che ci minaccia se rimaniamo in silenzio”.

Il pianoforte non è dunque semplicemente non-usato, è messo proprio a tacere, “muto, sofferente”, volontariamente intrappolato nel feltro. Il feltro: isolante nei confronti del calore, dell’energia e del suono.

Cioè: silenzio non è semplicemente l’assenza di suono; la sua impossibilità è creata artificialmente attraverso l’isolamento. E il feltro è la materia che racconta questo isolamento.

[Beuys prese parte al movimento Fluxus, che portò in Europa le concezioni del Neodadaismo americano a partire dagli anni ’50; ma si ricollega anche a Tatlin e all’Avanguardia russa degli anni della Rivoluzione d’Ottobre. L’artista sovietico sperimenta viene l’interdizione della voce, della rappresentazione del movimento, di tutto ciò che può alludere al cambiamento dello stato di cose. Tatlin tende allora a far muovere letteralmente le persone, gli oggetti, le luci. Prendendo spunto dall’esperienza teatrale. Questa nuova grammatica artistica è presupposta dalle installazioni di Beuys e dalla riflessione sul silenzio imposto.]
Da Infiltrazione omogenea si deve fare un salto indietro di qualche migliaio di
anni per imbattersi in alcune immagini che lasciano perplessi gli studiosi.
Nella pittura vascolare greca alcuni eroi del mito appaiono raffigurati in una
strana posizione: seduti, in pensiero, col busto piegato in avanti e la mano
posata sul capo. Nulla di strano. Ma anche: avvolti nei mantelli,
letteralmente imbacuccati (che siano mantelli, cioè feltro o lana, e non velo lo sappiamo per certo: i pittori greci erano maestri nella resa pittorica della trasparenza).
Sorprendentemente, è spesso raffigurato in questo atteggiamento il guerriero per eccellenza: Achille. In diversi momenti della sua breve e gloriosa vita raffigurati dai ceramografi, l’eroe sta seduto, ammantato.
Una postura che toglie al corpo ogni possibilità di movimento, ogni agilità.

In Omero, cioè nel testo da cui quelle immagini dipendono, non c’è niente del genere. Achille è seduto, sì, ma non avvolto nel mantello.
Il ceramografo, anonimo, pensato di rendere figurativamente in questo modo il silenzio sdegnato dell’eroe, il versante sonoro della sua ira. Cioè l’assenza di sonorità. Sia quando soffre per l’affronto di essere privato della schiava Briseide, prelevata dalla sua tenda per essere donata ad Agamennone; sia quando gioca a dadi con Odisseo che vuole convincerlo a riprendere la guerra,

o quando la madre Teti lo consola per la morte di Patroclo, amico adorato; in tutte queste occasioni Achille è ‘sordo’ ad ogni tentativo di persuasione e incapace di articolare parola, muto. Solo e in disparte, mentre intorno a sé infuria la battaglia, Achille è isolato, invisibile. E perciò, in figura: ammantato.
[In gioco, nell’ira di Achille, c’è più di uno sgarbo ricevuto. Egli ha subito una ferita profonda, che sfigura
non il corpo ma l’onore, che i Greci chiamavano timé: privato della sua donna, il suo “dono”, egli è ridotto
all’impotenza tout court.]

Completiamo la Tavola col fotogramma di un film di Giovanni Veronesi di qualche anno fa: Manuale
d’amore 2. Capitoli successivi.
È un dialogo fra il protagonista Ernesto (Carlo Verdone) e Fulvio, un conduttore radiofonico (Claudio
Bisio).
Ernesto è un uomo di mezz’età, con un matrimonio noioso ed una vita abitudinaria, improvvisamente
sconvolta dall’arrivo di Cecilia, giovane, bella, abbandonata dal padre.
Inizia una intensa e passionale relazione.
Una scena del film ci mostra Ernesto e Cecilia sulla terrazza di un palazzo popolare, fra i fili del bucato e i panni appesi, che si nascondono sotto un lenzuolo (Veronesi gioca con la scena in terrazza di Una giornata particolare con Loren e Mastroianni.) Ed ecco perché, malato e tornato infine dalla moglie, Ernesto racconta – a Fulvio in diretta radiofonica – la fine della storia in questo modo (corsivi miei):
Fulvio: “No no Ernesto, non mollare adesso eh! Regalaci ancora un’immagine”.
Ernesto: “Ma che ne so Fulvio, che ne so… Io non avevo mai tradito mia moglie e da quel giorno non l’ho fatto più, però, ogni tanto, quando litighiamo e ho voglia di sentirmi un po’ infedele, vengo qua su in questa terrazza, prendo un lenzuolo e me lo metto in testa, poi recito quella poesia. ‘C’è la neve nei miei
ricordi / c’è sempre la neve / e mi diventa bianco il cervello / se non la smetto di ricordare’”.
Le immagini intanto scorrono su Ernesto che si copre la testa con un lenzuolo.


Fuori, il mondo con le sue rassicuranti noiose abitudini. La trappola matrimoniale ha silenziato la voce di
Ernesto ed essa si può esprimere soltanto dentro lo spazio del lenzuolo. E si esprime con le parole di lei,
in poesia, la poesia di Cecilia. Rivive empaticamente il mondo interiore di Cecilia e trova in esso la voce
perduta.
Ma che ne è del suono di Achille? Ebbene in Omero, quando l’eroe decide di partecipare infine alla
battaglia, di mettere da parte l’ira, egli si alza in piedi (era stato sempre seduto, durante la sua ira) a capo
scoperto, disarmato e si fa vedere dai nemici dall’alto di un fossato:
“Tre volte sopra il fossato gridò alto Achille glorioso,
tre volte furon sconvolti i Troiani e gli illustri alleati”
Non sfugga la precisazione “tre volte …. tre volte”: è la corrispondenza fra il gettito di voce e la reazione
dei nemici. La voce di Achille – quando decide di usarla – non è inutile, il suo grido non è frastuono né
schiamazzo, non cade invano: ogni sua emissione ha il suo effetto, l’effetto per cui è stata prodotta.
Resta “muto, sofferente” solo il pianoforte. Necessariamente. Da questo punto di vista, la piena fruizione
di una installazione come Infiltrazione omogena coinciderebbe con la sua distruzione in quanto opera d’arte:
l’unico gesto creativamente compatibile con Infiltrazione omogena è infatti quello di liberare il pianoforte
dal feltro e infine suonare.
Chissà che Beuys non se lo aspettasse!

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